Le recenti lettere pastorali dei vescovi di Crema (Daniele Gianotti), Latina (Mariano Crociata), Modena (Erio Castellucci) e Concordia-Pordenone (Giuseppe Pellegrini) affrontano problematiche acute nel vissuto ecclesiale: le unità pastorali (Gianotti) e l’iniziazione cristiana dei bambini (Crociata), dei ragazzi e dei giovani (Castellucci e Pellegrini). Se, a livello locale, l’attenzione a questi documenti è abbastanza diffusa, almeno fra il personale ecclesiale, nella comunicazione pubblica sono oggetti misteriosi. Mentre i testi, ben oltre i quattro presi in esame, sono molto istruttivi in ordine ai reali problemi della pastorale italiana.
Da arma polemica a strumento dialogico
Vi sono alcune caratteristiche comuni. Fra queste una prima nota è relativa alla presenza della Scrittura. Spesso è un brano dei Vangeli che guida l’intera riflessione e, in ogni caso, il riferimento alla Bibbia non è per nulla ornamentale.
Una forte insistenza è sulla dimensione «comune» e collettiva. Le lettere nascono dopo assemblee pastorali, con ripetuti riferimenti ai consigli presbiterali e pastorali e con una condivisione previa.
Trasversale è la percezione di un tempo di crisi e di fatiche. Il riferimento è molto esplicito in alcuni casi e sempre evocato. Nessuna pretesa egemonica, nessun garrire di vessilli, nessuna battaglia frontale. La scelta della CEI con il convegno di Verona di passare all’attenzione ai vissuti piuttosto che alle categorie ecclesiali (tria munera) e la convinzione di una presenza sociale di minoranza sembrano essere passati, almeno nei testi. Così il riferimento al magistero di Francesco.
Non manca la fiducia e la convinzione di essere nelle mani dello Spirito, alla sequela di Gesù e di avere uno straordinario deposito di grazia e di speranza da proporre. Talora con riferimenti ai santi locali. Nonostante forze numeriche più ridotte, in particolare nel clero. I preti raccolgono un’attenzione sistematica e sono ripetutamente incoraggiati, segnale di una diffusa “tentazione” di dimissioni.
È curioso pensare che uno strumento nato nel 1800 con la diffusione generalizzata della stampa come reazione dottrinale al moderno sia diventato oggi utensile di dialogo e di condivisione.
I vescovi si interrogano spesso sulla sua efficacia e avvertono una sproporzione fra autorevolezza del mezzo e capacità operativa pratica. Ma, nonostante l’espandersi dei mezzi comunicativi, il riferimento alla lettera è considerato necessario, esercizio di una responsabilità ministeriale non delegabile. E anche paradossale, dentro un sistema informativo sempre più giocato su testi brevi, su slogan tanto evidenti quanto banali, sulla prevalenza della seduzione dell’immagine e sulla rapidità del web. Un’apprezzabile custodia di ciò che suona anacronistico, espressione di un dialogo argomentato piuttosto di una imposizione gridata. Semmai l’interrogativo che resta, e questo vale per l’intero lavoro pastorale, è l’azione di verifica.
Daniele Gianotti. «Un tesoro in vasi di creta»: la sua prima lettera pastorale è finalizzata a sostenere la scelta delle unità pastorali nell’ottica di un rinnovamento missionario delle realtà cristiane e nel compito creativo di «immaginare» la Chiesa del domani. Una Chiesa che si libera di dipendenze gerarchiche improprie (clericalismo) e che sviluppa un «noi» sinodale. «Per questo l’articolazione delle unità pastorali non può consistere solo nel metter insieme diverse parrocchie; questo movimento deve essere integrato con l’altro, che è l’articolazione delle unità pastorali in piccole comunità» che permettano di vivere in concreto l’esperienza della fraternità cristiana.
Fra le attenzioni prioritarie, si ricorda la trasmissione della fede alle nuove generazioni, la cura pastorale delle famiglie, la formazione degli adulti e la testimonianza della carità. In merito si denunciano «derive che sono giunte fino a criminalizzare l’una o l’altra forma di aiuto al prossimo, che è semplicemente risposta alla parola chiara del Signore»: l’amore per i piccoli, gli ultimi, i nemici e lo straniero.
Fra gli strumenti pratici si suggeriscono il consiglio dell’unità pastorale, la formazione di équipes con i responsabili degli ambiti e l’attivazione di un servizio diocesano di accompagnamento.
E il prete? Uno fra i tanti? «Il rischio che vedo, attualmente, è piuttosto che il prete sia sovraccarico di impegni di ogni genere» e non più segno sacramentale della “precedenza di Cristo”, servo della comunione e dell’esortazione.
Mariano Crociata. All’interno di un progetto che copre l’intero arco da 0 a 18 anni il testo («“Lasciate che i bambini vengano a me”. Orientamenti per una pastorale dell’infanzia») si focalizza sui bambini da 0 a 7 anni.
Partendo dalla costatazione dell’esaurimento della prima socializzazione religiosa cristiana nel contesto civile e anche nelle famiglie, mons. Crociata ricorda la pertinenza attuale dell’invito di Gesù «lasciate che i bambini vengano a me» come figura di preziosa debolezza.
L’apprezzabile riconoscimento dell’identità e della dignità dell’infanzia operata negli ultimi secoli rimanda al compito degli adulti. «Uno dei contributi più rilevanti che possiamo dare noi adulti è quello di smettere di essere e di apparire ridicoli, e di cominciare invece ad essere seri, imparando a rispondere delle nostre parole e delle nostro azioni, e a farci carico di ciò che ci compete».
Lo sguardo credente sull’infanzia «si può condensare in tre punti: il riconoscimento del bambino in quanto persona e soggetto dotato di una propria identità e dignità; l’affermazione di una sua specifica relazione con Dio; l’enucleazione di alcune caratteristiche tipiche della sua figura spirituale».
Senza scivolare in uno sguardo «bucolicamente ingenuo» sull’infanzia, è facile riconoscere nei bambini l’atteggiamento fiducioso, la spontaneità e la gratitudine che sono portali di entrata nella spiritualità dell’infanzia. La mediazione spirituale all’altezza delle loro richieste rimanda all’infanzia spirituale come caratteristica dell’autentico credente. «L’infanzia spirituale è compito per adulti che sanno abbandonarsi come figli», capaci di stupore, gratitudine e audacia.
Accompagnare i bambini nella crescita spirituale è compito anzitutto della famiglia naturale («qualunque forma e composizione essa abbia assunto»), ma anche della comunità cristiana che viva un clima di famiglia accogliente. Qui si innesta il servizio di chi sa comprendere la decisione di dare al mondo un bambino e di preparare le famiglie al battesimo.
Sintonizzarsi sul modo proprio di essere e di esprimersi dell’infanzia, avvertire l’evoluzione dei primi anni, coinvolgere attivamente i bambini: sono tre indicazioni che riguardano sia l’attività catechistica che la liturgia e la carità.
Sostenere le coppie incaricate della formazione al battesimo, formare un gruppo in grado di accompagnare le famiglie giovani, coinvolgere i genitori dei bambini e la creatività dei loro giochi ai fini di un percorso formativo suppone anche le competenze proprie di un servizio diocesano all’altezza.
Erio Castellucci. Anche il vescovo di Modena riprende il tema dell’iniziazione cristiana: «“Se tu conoscessi il dono di Dio”. L’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi». Sviluppa i sette capitoli aderendo e alimentandosi della narrazione della samaritana al pozzo del vangelo di Giovanni (Gv 4,1-42).
La scansione dei passaggi, con tratti di grande intensità narrativa, parte da Gesù come donatore di acqua e di cibo, alla sua identità di viandante affaticato, di giudeo (non samaritano) assetato, di “signore” in possesso di acqua zampillante, di profeta messianico, di rabbino sognatore e di salvatore del mondo.
Dei molti riferimenti teologici e culturali e delle numerose indicazioni pratiche mi limito a sottolineare due elementi, probabilmente non centrali: il passaggio alla catechesi esperienziale e la scelta di non privilegiare un unico metodo. «Verifichiamo tutti la difficoltà di proseguire semplicemente sulla “sponda sicura” della cosiddetta catechesi dottrinale, ma, nello stesso tempo, l’incertezza di affidarci ad un’altra sponda ancora incerta che, come accennavo, possiamo definire iniziazione cristiana esperienziale». «È ormai evidente, dopo decenni di esperienze e riflessioni, che non esiste un metodo infallibile nell’iniziazione cristiana; … non è disponibile una ricetta uguale per tutti».
La responsabilità va alla Chiesa locale «all’interno degli orientamenti universali e nazionali», e a ciascuna comunità parrocchiale «nel ventaglio delle indicazioni offerte dalla diocesi». «Abbandonata quindi l’illusione del metodo infallibile e adottata invece l’ottica di una pluralità di risposte, l’accento va sempre messo sull’efficacia evangelica della missione, secondo la logica del sognatore e non secondo quella del calcolatore».
Giuseppe Pellegrini. Ampia, appassionata e a tratti autobiografica la lettera del vescovo di Concordia-Pordenone dal titolo «“…e camminava con loro” (Lc 24.15). Con i giovani per riconoscere, interpretare, scegliere».
Il fulcro di interesse è sugli adolescenti e i giovani, chiaramente distinti nelle esigenze e nelle sfide. Dopo un’indicazione generale sull’essere giovani oggi (preferenza alle immagini, importanza delle emozioni, rapporti coi pari, influenza dei social), si entra nella proposta cristiana sulla base della narrazione lucana dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). L’invito è al cammino, nonostante le fatiche che esso comporta, al confronto reciproco alla presenza del Signore, alla pazienza del ricordo, alla letizia dei cuori.
Le prime generazioni incredule sono refrattarie alla trasmissione della fede nella maniera classica, ma anche consapevoli che «non rende felici togliere Dio dalla vita delle persone», ancora disponili alla ricerca e alla domanda vocazionale su di sé e sul proprio futuro. «La vocazione non consiste esclusivamente nel ricercare cosa fare per gli altri; è molto di più, perché è un processo che mi aiuta a scoprire per chi e per cosa sono fatto, all’interno del progetto che Dio ha su di me».
Il discernimento ha i suoi protagonisti e le sue scansioni. Esse sono: lo stupore di riconoscere i propri limiti e possibilità, di interpretare nel silenzio e nel confronto i propri moti interiori, di scegliere con prudenza, prima che qualche altro lo faccia al posto nostro.
Una comunità cristiana accogliente saprà riconoscere le otto buone terre attraversate dai giovani: la scuola, la politica, lo sport, la musica e l’arte, le sagre e le feste, l’ambiente, il digitale. La pastorale è chiamata a spalmarsi sulle antiche e nuove terre nell’ambito della formazione alla vita di fede, alla maturità spirituale, al servizio, alla missione e alla pastorale vocazionale.
In questa, come nelle altre lettere pastorali, la narrazione viene interrotta con sintesi mirate al pratico, quasi a formare un duplice racconto: uno più organico e uno più immediatamente spendibile.
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