Quando si fa una catechesi sulla sinodalità, uno dei temi che viene richiamato più di frequente è che la Chiesa non è una democrazia. In effetti, essa è guidata dallo Spirito del Signore e, se ogni fedele può comprendere la sua voce, coloro che hanno ricevuto il ministero ordinato, soprattutto i vescovi, lo fanno con una particolare autorevolezza. Questo dono li rende un punto di riferimento più o meno vincolante per le loro comunità cristiane.
In realtà, se le radici dell’autorità dei pastori affondano effettivamente nel ministero dei Dodici Apostoli e dei loro successori, nel corso della storia questa autorità è stata sovradimensionata, soprattutto nell’arco del secondo millennio.
Per varie ragioni, in questo periodo la Chiesa è stata pensata sempre più come un’organizzazione visibile incentrata sul potere dei ministri e sulla docile obbedienza dei fedeli. Anzi, si arrivava a pensare che, come un prete o un vescovo presiedevano validamente l’eucaristia a prescindere dalle loro qualità personali, così anche la loro guida pastorale doveva essere ritenuta efficace e normativa in modo altrettanto automatico.
Questo problema si pone ancora oggi. Proprio a questo riguardo, così scrive il padre Congar: «Una delle tentazioni degli uomini di Chiesa è certamente quella di identificare di fatto, nel loro spirito, ciò che concretamente fanno con la funzione di per sé sacra [che è stata loro affidata]. Ora quegli uomini che esercitano la più sacra delle autorità possono mancare d’informazione o di intelligenza. Possono rovinare delle occasioni, alienarsi delle popolazioni, provocare con la loro grettezza e la loro mancanza di comprensione dei danni irreparabili. […] Gli uomini di Chiesa, insigniti di poteri e di funzioni gerarchiche, hanno mancato spesso, non solamente nella loro vita personale, ma nell’esercizio delle loro funzioni. [Ciò può avvenire] Nella misura in cui non sono dei puri strumenti dell’azione di Dio (celebrazione dei sacramenti, carisma d’infallibilità legato alla funzione), ma vi apportano qualche cosa di proprio» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 96-97).
Secondo il teologo domenicano, un ministro ordinato, al di là dei casi in cui è un mero strumento dell’azione di Dio, come nella presidenza eucaristica, può danneggiare gravemente la sua comunità ecclesiale se ha poca “informazione e intelligenza”.
Si tratta delle conoscenze teologiche adeguate al proprio compito pastorale e della capacità di capire le dinamiche culturali ed esistenziali in cui vive la propria comunità. In altri termini, si tratta di avere una visione. Quando questa manca, subentra un’ottusità che può produrre danni irreparabili, al punto che talvolta le persone che ne subiscono le conseguenze non sono più disposte ad avere rapporti con l’istituzione ecclesiale.
Si potrà osservare che ogni essere umano è limitato e può fare degli errori. Secondo Congar, però, i pastori sono tentati di rimuovere proprio questa consapevolezza in nome della loro autorità.
In altri termini, se ogni persona deve fare i conti con l’impatto delle proprie scelte sugli altri, i ministri sono portati a non prendere sul serio questa verifica se ritengono che l’ordinazione e l’incarico che hanno ricevuto rendano comunque funzionali le loro scelte pastorali, così come la loro presidenza liturgica, anche se di scarsa qualità, nutre comunque il popolo loro affidato. In realtà, non è affatto così.
Il rischio a cui allude il teologo domenicano deve spingere i pastori a non presumere di edificare le loro comunità per il semplice fatto di essere ordinati, ma a prendere in considerazione l’ipotesi di poter essere un serio ostacolo alla loro crescita per carenza di “informazione e intelligenza”.
Essi non possono limitarsi a verificare la qualità dalla loro santità personale. Un pastore può essere un sant’uomo, ma non avere una visione, cioè soffrire di quella ristrettezza mentale di cui scrive Congar, e finire per danneggiare gravemente la sua comunità.
Questo rischio richiede che i pastori, cioè presbiteri e vescovi, lavorino in rete, cioè che possano godere di un contesto relazionale sostanzialmente sereno e competente nel quale possano – o, meglio, debbano – confrontare le loro opinioni con quella di altri credenti, confratelli e non, per mettere eventualmente in discussione il loro punto di vista a fronte di argomentazioni convincenti.
Più ancora, la capacità di superare quelle ristrettezze di vedute di cui scrive Congar richiede anche un certo confronto continuato con la riflessione teologica, proporzionato al livello di responsabilità che si ha nella Chiesa.
A questo livello, non è sufficiente accostare occasionalmente sussidi e materiale divulgativo per raccogliere qualche spunto da utilizzare nell’omelia o in un incontro. Occorre studiare per riqualificare la propria visione, e non semplicemente per esigenze pratiche.
I presbiteri e i vescovi formati negli ultimi decenni hanno le competenze per comprendere testi minimamente specialistici che hanno la capacità di ampliare le proprie vedute.
La teologia italiana, anche se si trova in un momento di grave difficoltà, è comunque ancora in grado di offrire contributi di grande valore.
In conclusione, la riforma della Chiesa comporta che i pastori siano in un atteggiamento costante di autoriforma, e non soltanto sul piano della santità personale, ma anche su quello delle conoscenze e della capacità di utilizzarle. Dei pastori validamente ordinati, ma senza una visione, non portano da nessuna parte.
La gestione dell’autorità non può essere affidata alla coscienza ed alla buona volontà del singolo parroco o del singolo vescovo. Non è nella dimensione individuale che ha sede la causa dei mali nella chiesa. Tali mali (come sostiene papa Francesco nella “Lettera al Popolo di Dio del 20 agosto 2018) sono causati dal clericalismo, ovvero hanno una dimensione sistemica, hanno la loro causa remota nella dottrina e nelle norme del diritto canonico che trasmettono una identità distorta del ministero del presbiterato e dell’episcopato. Occorre comprendere che lungo il corso dei secoli tali ministeri sono stati sacralizzati dal clericalismo ed hanno perso la loro originaria dimensione di laicità. Nei primi secoli infatti nelle comunità non esisteva il clero e l’autorità era esercitata come un servizio disinteressato e la dignità di ogni battezzato era tutelata e promossa (Mc 10,35-45). Con l’avvento del clericalismo si è edificato gradualmente un sistema di potere basato sul sacro che ha stravolto e clericalizzato i ministeri ecclesiali. Il sistema si è autogenerato dotandosi di una legittimità dottrinale e giuridica che ancor oggi produce i suoi frutti tossici. La questione dell’autorità deve perciò essere inquadrata ed avviata a soluzione nella struttura clericale (che è da cancellare) e non può essere risolta a livello del singolo parroco/vescovo che sbaglia.
Anche se non credo che sia solo un problema di “conoscenze teologiche adeguate al proprio compito pastorale e della capacità di capire le dinamiche culturali ed esistenziali in cui vive la propria comunità” (cito dal testo), Massimo Nardello mette l’accento su un problema molto serio nella Chiesa oggi: la gestione dell’autorità. Bisognerebbe riscoprire il valore di ciò che San Benedetto dice nella sua regola, ovvero l’abate – cioè colui che ha nel monastero autorità – deve giovare e non comandare! Sul problema dell’autorità oggi nella Chiesa mi sono espresso in https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/11/cattolicesimo-borghese-4.html.