Una delle situazioni più frustranti nel vissuto ecclesiale di un ministro ordinato o di un operatore pastorale è quella di dover partecipare a riunioni, commissioni o percorsi sinodali con l’intima convinzione che queste attività saranno sostanzialmente inutili, in quanto non incideranno sulla prassi delle comunità cristiane. Questa percezione può effettivamente corrispondere alla realtà.
La parabola del seme
Non di rado, nel contesto ecclesiale, vi sono criticità organizzative e di leadership talmente forti da precludere qualsiasi cambiamento. Possiamo pensare, ad esempio, all’incapacità di un pastore di orientare la riflessione comune verso una decisione sensata e definitiva, o dal suo muoversi in modo talmente autonomo da rendere irrilevante il confronto con altri credenti.
Eppure la fatica a vivere momenti di riflessione condivisa può nascere anche da un altro tipo di difficoltà, in fondo di natura teologica, dovuta al fraintendimento del modo in cui Dio agisce nella sua Chiesa.
Tale difficoltà si palesa quando si vive in modo frustrante l’impossibilità di gestire un percorso di discernimento in modo rapido ed efficiente, come si fa in alcuni contesti professionali, cioè mettendo a fuoco i problemi, identificando delle soluzioni e traducendole immediatamente in scelte operative.
In realtà, nell’ambito pastorale la riflessione su questioni importanti e complesse non può procedere in questo modo, per il fatto che tale riflessione è funzionale all’accoglienza dei doni di Dio, e questi non ci sono offerti come soluzioni già pronte, ma come semi dei quali occorre attendere la crescita.
Proprio a questo riguardo, così scrive il padre Congar: «I doni di Dio sono offerti inizialmente nella forma di un seme. Questo seme contiene, fin dall’inizio, la pienezza alla quale è ordinato, ma rivestendola e velandola. Ma non sviluppa questo contenuto che a tappe, progressivamente. Deve pervenire ad una piena manifestazione di ciò che conteneva fin dal principio, ma questo avviene solamente in modo progressivo e sempre imperfetto» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 108, traduzione rivista).
Il paragonare i doni di Dio ad un seme suggerisce molte riflessioni importanti.
Un seme ha una forza vitale propria e, pur richiedendo un terreno adeguato, dà vita alla pianta in virtù delle sue proprie capacità. Questo ci fa pensare che ciò che il Signore dona alla sua Chiesa abbia in sé stesso la forza di germogliare – cioè, Dio stesso provvede al suo sviluppo –, e che il compito delle comunità cristiane sia semplicemente quello di garantirne un contesto di ascolto e di accoglienza. Questo contesto, però, non può accelerare la maturazione del dono, che, come un seme, sviluppa solo lentamente le sue potenzialità.
Dunque, per una comunità cristiana accogliere ciò che Dio le sta donando può anche significare il non fare nulla di nuovo e restare in una condizione di attesa finché i tempi del seme arrivino a maturazione.
Ovviamente questa attesa non deve derivare dalla paura, dalla pavidità o dall’indisponibilità a intraprendere cammini di effettiva conversione. Deve nascere invece dall’obbedienza, magari sofferta, alla volontà divina, dall’accettazione serena dei tempi di crescita del dono di Dio e del fatto che ogni sua realizzazione in questo mondo resta comunque imperfetta, come scrive Congar.
Questo tema dell’attesa dei tempi di maturazione del dono divino si intreccia non solo con la questione della riforma della Chiesa, ma pure con quella dell’evangelizzazione.
Quando si deposita il buon seme del Vangelo nel cuore delle persone, questo ha bisogno di tempo per poter maturare. A volte, però, si fa fatica ad accettare questa apparente sterilità o, peggio ancora, la si interpreta come conseguenza di una scarsa efficacia della Parola.
La tentazione di addomesticare il messaggio
È forte, allora, la tentazione di manipolarla per renderla più accattivante, maggiormente sintonica con le istanze della cultura e della razionalità umana, come se non fosse ragionevole proclamare qualcosa di diverso rispetto a ciò che gli umani del nostro tempo si attendono.
Quando si cade in questa tentazione, a differenza di Paolo (cf. Rm 1,16), ci si vergogna del Vangelo, e ci si prende la libertà di migliorarlo perché porti più frutto e soprattutto in modo immediato, senza far fare brutta figura a chi lo annuncia.
Da questa perversione possono nascere interi progetti teologici e pastorali che non cercano più l’intelligenza e la comunicazione della dottrina della fede, ma la sua decostruzione, volta a creare un modello di cristianesimo innovativo che risulti vincente secondo i criteri mondani. Opzioni di questo genere inibiscono l’azione dello Spirito nell’attività evangelizzante e formativa della Chiesa, e sono quindi ben più dannose per la sua missione della tanto temuta secolarizzazione.
Tutto questo ci dice che il “mestiere” del pastore e quello dell’evangelizzatore non sono compatibili con l’esigenza di diventare persone di successo.
Non si tratta di rendere avvincente la fede ed efficiente l’annuncio, ma di insegnare ad accogliere con la pazienza dell’agricoltore un dono di Dio che è già stato offerto, ma nella forma di un seme, e che, quindi, va custodito nell’attesa paziente della sua crescita.
Articolo interessante. Tuttavia forse dovremmo recuperare quella intonazione escatologica del tempo che era delle prime comunità cristiane spostando il baricentro del nostro vivere questo tempo dalla chiesa a Gesù. Cfr: https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/12/cattolicesimo-borghese5.html.
Il vostro parlare sia SI SI. NO NO.
NON c’è da accattivare nulla.
Non si tratta di marketing.