In questo tempo di pandemia si è acuita la giusta esigenza di rinnovare la catechesi. Una prima esigenza è quella di sganciarla dalle modalità scolastiche in linea anche con gli orientamenti dati dal recente Direttorio.
Ecco come il mio vescovo ben sintetizza il problema: «Bisogna iniziare a pensare a un rinnovamento di questi cammini che non possono essere più legati ai ritmi scolastici, che vedono la completa delega da parte dei genitori come se il cammino dei figli fosse cosa che non li riguarda se non per l’impegno di portarli al catechismo e, al massimo, alla messa domenicale.
Eppure, in età infantile e adolescenziale diventa essenziale il vissuto di fede che i ragazzi debbono respirare in famiglia. Ma, molto spesso, questo non accade» (mons. Giovanni Checchinato).
Cambiare paradigma
Ciò che il vescovo ha espresso in maniera sintetica ed efficace, da don Angelo Casati è esaminato anche nelle implicazioni di ordine storico: «Cresce il lamento per una generazione di adulti che non ha comunicato la fede alle nuove generazioni: come se si fosse inceppato il passaparola della fede. Forse stiamo scontando la responsabilità di avere per anni espropriato le case dal compito di comunicare la fede, relegandolo quasi esclusivamente agli ambienti ecclesiastici. Ci pesa sulle spalle una tradizione secolare che riservava questo compito a preti, religiosi, a chiese e oratori, una sorta di espropriazione che ora scontiamo.
Diceva san Francesco ai suoi frati: portate il vangelo e, se fosse necessario, anche con le parole. La testimonianza è il primo passo dell’evangelizzazione, della comunicazione della fede nella famiglia. Ecco da dove partire. Gesù non manda gli apostoli nelle sinagoghe ma nelle case. Il confronto con le nuove generazioni ci conduce a ripulire l’affresco Gesù da troppi appesantimenti, a purificare il messaggio dalle incrostazioni che i secoli hanno depositato, a liberare un volto di Chiesa che possa essere affidabile perché rifugge da immobilismi e da moralismi colpevolizzanti. Papa Francesco dice: sognate anche voi insieme a me questa Chiesa, una Chiesa in cui si passi dal paradigma del peccato a quello del cammino, dal paradigma della legge a quello della persona».
Quale volto di Chiesa? Gesù ha rivelato nelle sue parole e nei suoi atteggiamenti il volto di un Dio ospitale, disponibile. Rileggendo in tale ottica i tanti episodi del Vangelo, notiamo la disponibilità di Gesù nei confronti di Giàiro, del centurione, dell’emorroissa e verso tanti altri che si rivolgevano in lui con fiducia.
Così Karl Rahner descriveva sinteticamente la Chiesa: «Essa è una presenza incarnata della verità di Cristo». Cristo non ha insegnato dogmi o precetti morali: ha indicato uno stile, quello delle Beatitudini e di un cuore ospitale. Tale deve essere la Chiesa.
Alla luce di queste premesse si può tentare di inquadrare il problema e cercare le soluzioni. Certamente è necessario e urgente – ci ricorda Cettina Militello – «inventare modalità altre di trasmissione della fede non necessariamente legate alla simmetria della scolarizzazione e dei suoi tempi».
Il carrozzone dell’iniziazione cristiana – così come è attualmente – fa acqua da molte parti. Bisogna quindi stare attenti a non versare vino nuovo in otri vecchi, ma vino nuovo in otri nuovi. Al momento mancano otri nuovi pronti: è tutto da inventare, con creatività e coraggio. «Non si è ancora trovato un modulo vincente, oltre a quello tradizionale di tipo culturale e identitario, che possa mantenere vivo il rapporto con la comunità di quelli che chiedono per i figli l’iniziazione cristiana. Anche la preparazione ai sacramenti, il matrimonio per esempio, non pare produca scelte irreversibili» (C. Militello).
La richiesta dei sacramenti
Il modello tradizionale di tipo culturale e identitario è davanti ai nostri occhi, con i suoi pregi e difetti, come bene ce li mostra Manuel Belli: «Il punto di forza del modello tradizionale è dato da una consistente richiesta dei sacramenti da parte delle famiglie. Dobbiamo riconoscere che l’opportunità pastorale offerta da una così massiccia richiesta dei sacramenti non può essere trascurata. Franco Garelli parla, a proposito, del caso italiano.
La massiccia richiesta di sacramentalizzazione offre un’opportunità di evangelizzazione non trascurabile: la maggioranza della popolazione transita per gli ambienti parrocchiali chiedendo per i figli i sacramenti del battesimo, della cresima e dell’eucaristia, accetta tutto sommato di buon grado un itinerario catechistico per i figli e non rifiuta di farsi coinvolgere in alcuni momenti, che restano occasioni preziose, alle volte uniche per famiglie che diversamente non sarebbero mai entrate in contatto con la comunità cristiana. Anche la dislocazione dei sacramenti in un periodo disteso, che corrisponde all’età della scolarizzazione, presenta una serie di vantaggi pedagogico-pastorali: attorno alla prima comunione si può costruire un itinerario catechistico spirituale che accompagni la fanciullezza e, attorno alla cresima, è possibile offrire un itinerario che intercetti le esigenze dell’adolescente.
Il dato che emerge da questa tradizione è che l’istanza formativa e catechistica ha avuto un peso non piccolo nei vari tentativi di rivedere il percorso sacramentale dell’iniziazione cristiana. È un vero rompicapo che ha le sue paradossalità: ogni tentativo presenta una soluzione che, secondo altre variabili, potrebbe essere considerata inaccettabile. Il fatto è che ognuno parte da premesse giuste e da esigenze di cui è apprezzabile la coerenza» (Sacramenti tra dire e fare, da pagina 133. Il corsivo è mio. Lo stesso autore, al riguardo, anche nel suo più recente libro L’epoca dei riti tristi non offre soluzioni).
È interessante notare il parere concorde di Severino Dianich: «Nella normale attività di una parrocchia, la pur ambigua situazione di quanti domandano i sacramenti per sé o per i propri figli, per motivi impropri e non per fede, non è solo fenomeno da deplorare. È anche una felice occasione, infatti, per portarli a riflettere sulla fede e aiutarli a farla rivivere, accogliendo tutti con paziente amore.
Anche la liturgia, che di per sé presuppone la fede dei partecipanti, celebrata con la serena consapevolezza che, soprattutto in occasione dei matrimoni, dei funerali, delle prime comunioni e cresime, molti sono presenti solo per il loro legame di affetto con i “protagonisti”, sarà occasione di gratitudine a Dio per aver offerto alla comunità una felice occasione di evangelizzazione».
Gesù ci esorta a questo punto ad essere i saggi che sanno estrarre dal tesoro cose nuove e cose antiche. Con discernimento.
Come fare catechismo?
Don Tonino Lasconi è ben consapevole di una catechesi che non c’è, ma, lungi dall’affrettarsi a buttare con l’acqua sporca del bacile anche il bambino, suggerisce di eliminare comunque lo sporco, di cambiare cioè le modalità, e lo fa ampiamente nel suo libro. Lo stesso fa il Direttorio per la catechesi.
Certamente è tramontata l’idea della catechesi come trasmissione nozionistica e tappa obbligata per ricevere i sacramenti. È richiesta più attenzione ai giovani e agli adulti, una maggiore valorizzazione delle famiglie e un migliore collaborazione con le agenzie educative sul territorio, un rinnovamento dei linguaggi che passa per l’uso competente dei social media.
In molte diocesi, dopo gli Orientamenti per l’iniziazione dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni indicati nel 1999 dalla CEI, sono stati avviati cammini innovativi ben documentati dai sussidi utilizzati e pubblicati da casa editrici importanti e qualificate.
La novità consisteva proprio nel coinvolgimento non episodico delle famiglie in un cammino sistematico di maturazione della fede con ricaduta positiva sui ragazzi. Erano testi corposi e prevedevano uno stuolo di gente preparata capace di animare le famiglie e le catechiste e ciò per ogni gruppo.
Erano e rimangono cammini esemplari, anche se praticabili con difficoltà in realtà composte da numeri grossi e da personale non sempre all’altezza di sostenere quell’impegno anche dal punto di vista culturale. Ognuno purtroppo deve marciare con l’esercito che si ritrova, diceva mons. Cesare Bonicelli.
Attualmente, vengono proposti sussidi più snelli e praticabili, nella stessa logica di un cammino catecumenale e di un coinvolgimento dei genitori.
Non mancano sussidi che, pur non adottando in pieno quel cammino, presentano però tutte le caratteristiche e gli ingredienti di un una catechesi autentica e adatta anche ai ragazzi, senza infantilizzazioni: la centralità della Parola, il dialogo con i ragazzi in un confronto con la Parola e con le loro esperienze di vita, il racconto, il gioco e la drammatizzazione sul tema, attività varie, il coinvolgimento delle famiglie, un momento importante di preghiera nella forma della celebrazione. Non mancano proposte parallele, originali e coinvolgenti, di cammini di fede per le famiglie.
Di grande rilievo è il ruolo svolto dalle riviste mensili Dossier catechista e Catechisti parrocchiali che puntualmente offrono suggerimenti e strumenti concreti in linea con il rinnovamento attualmente richiesto.
Da tener in conto, per le altre fasce d’età, gli originalissimi Iperalbi (le Beatitudini, il Credo, il Decalogo e i doni dello Spirito Santo spiegati ai ragazzi) anch’essi incentrati sulla Parola, ma con un linguaggio e con articolazioni varie rispondenti alla psicologia, alle esperienze dell’età evolutiva, al mondo e alle idee correnti in cui i preadolescenti sono immersi, per un confronto critico alla luce del messaggio di Cristo.
Dominique Collin nel suo recente Il Vangelo inaudito fa notare che «nulla più delle cose acquisite rende sordi all’inaudito. Ma le idee acquisite durante l’infanzia hanno una particolarità: esse rientrano nell’ambito della mitologia».
Quei sussidi, con la loro concretezza, parlano ai preadolescenti di cose che li riguardano da vicino, crescita compresa.
L’abbandono dopo la cresima
Il fatto poi che i ragazzi dopo la cresima abbandonino è un ritornello che sentiamo spesso risuonare. Vorrei tuttavia sapere quando mai i ragazzi li abbiamo visti, alle soglie dell’adolescenza, tutti inquadrati frequentare le nostre chiese. Vanno via, d’accordo. Però è possibile che non si debba dare fiducia al seme sparso e alla grazia della confermazione che accompagnerà la crescita di questi ragazzi? Le parabole del “seme” devono essere il criterio di giudizio e di discernimento.
Non possiamo d’altronde dimenticare la valanga di zizzania e di fango che una certa cultura veicola attraverso Internet, le idee correnti diffuse da tanti falsi maestri di pensiero (non certo i Galimberti o i Recalcati).
Ci sono, ci sono stati e ci saranno sempre quelli che abbandonano: l’importante è che non abbandonino dentro, come giustamente fa notare Lasconi. Quanta bella gioventù c’è in giro, anche se non li vediamo in chiesa! Non può essere questo l’unico criterio discriminante o qualificante, anche se auspicabile. Gli adolescenti hanno, avranno e hanno sempre avuto la reazione di rigetto di tutto ciò che ha a che fare con l’infanzia. Importante è che nella catechesi sia risuonata la loro vita concreta.
Il seme poi cade su diversi terreni e porta frutti diseguali, ma resta comunque sedimentato. Ci sarà il momento della reviviscenza. Tutto dipende da ciò che viene seminato e dal contesto familiare, che non è stato mai ottimale, se si ha una conoscenza realistica della storia dei costumi nei vari secoli.
Sempre a proposito dei ragazzi che poi lasciano, trovo molto interessante ciò che don Gigi Maistrello scrive nel suo recente, molto innovativo e stimolante articolo Quale futuro per le comunità cristiane (cf. Settimana News, 1° agosto): «Il ragazzino che siamo riusciti a trattenere in parrocchia fino al sacramento col ricatto degli incontri catechistici, il giorno dopo dirà: “non mi vedrete più!”. Lo stesso ragazzino, inserito in un programma fatto di giochi, cultura, esperienze forti, momenti rilassanti, arriva lo stesso al sacramento; ma poi, magari, potrà continuare a sentirsi parte grazie ai legami che sono nati».
Mi ha colpito questo episodio: nel IV secolo un prete si presentò da un padre del deserto lamentandosi del fatto che i giovani non andassero a messa. Non riusciva a spiegarsi il perché. Il padre gli rispose: «Nella caccia alla volpe, i cani addestrati l’hanno conosciuta e perseverano nella battuta di caccia. I cani che partecipano, ma non hanno conosciuta la volpe, ben presto si ritirano». La nostra catechesi e tutto ciò che fa da necessario corollario, facilita la conoscenza e l’incontro con Cristo? Al di sopra di ogni catechesi esperienziale, questa è l’esperienza capitale, la vera iniziazione.
Una parola sui catechisti
Resta sempre vero che prima dei catechismi vengono i catechisti, da qualificare continuamente rendendoli capaci di iniziare i ragazzi al mistero di Cristo. Il recente motu proprio Antiquum ministerium di papa Francesco e tante sue catechesi rimarcano la necessità di catechisti che abbiano una vita di fede intensa e un grande senso della Chiesa e dell’evangelizzazione.
Da una recente inchiesta ricerca promossa dall’Istituto di catechetica dell’Università Pontificia salesiana, a oltre 50 anni dal Documento Base Il rinnovamento della catechesi – poco conosciuto dalle nuove leve –, si ricava che su 1.760 catechisti che hanno risposto al questionario solo 313 hanno una preparazione specifica.
Risulta da quel campione che solo per il 25,6% è importante l’apertura ai problemi sociali e politici, con una tendenza all’intimismo e poca attenzione ai lontani. Il 5,5% si è detto molto preoccupato per una Chiesa che fa una scelta preferenziale per i poveri, il 4,4% per il pluralismo delle religioni. Non si considerano problemi né lo scarso dialogo con la cultura contemporanea (8,2%), né gli scandali della pedofilia (3,6%) né la poca coerenza dei cristiani (3,3%). Numeri devastanti che denotano la distanza dal nesso tra fede e vita quotidiana, da una pastorale della cura. Non basta più la buona volontà come criterio per il reclutamento dei catechisti.
«Si pensa al catechista o in generale al formatore come colui che ha risolto nel suo cuore la frattura tra la vita quotidiana e l’esperienza di fede; ma un sacerdote, un catechista o un adulto sono dentro la frattura e non è facile nemmeno per loro accostare vita, sacramenti e Parola in armonia» (M. Belli, L’epoca dei riti tristi, pag. 219)
Tornando all’esigenza di un radicale rinnovamento come accennavo all’inizio, non vedo però come la gente, con il problema della pandemia e del post-pandemia, possa seguirci in questa nostra giusta problematica, ma intempestiva se affidata all’improvvisazione.
Certo, sono le stesse persone che, incuranti della lezione dalla pandemia, sono già pronte a festeggiare prime comunione e cresime e matrimoni, come è giusto, sì, ma con l’intenzione di continuare come e più di prima nello stile troppo mondano ed esibizionista, con scarso senso di responsabilità e sobrietà, a fronte dei problemi locali e planetari. Questo per lo meno in quelle zone in cui apparentemente l’economia in qualche modo ha retto, creando l’illusione che si possa tornare a vivere in una sorta di bolla di benessere generalizzato.
Una Chiesa ospitale
L’esigenza di un cambiamento perseguito con un certo atteggiamento oltranzista che vagheggia famiglie praticanti e ideali (e chi non avesse tali requisiti o non aderisse al rinnovamento… peggio per lui), mi sembra non in linea con la realtà né con le riflessioni della teologia fondamentale così come si è andata delineando in questi anni.
Penso a Sequeri, Theobald, Le Chevalier, Moingt e altri. Non credo corrisponda al pensiero di papa Francesco e, soprattutto, alla prassi di Gesù.
Mi sembra che la prassi della Chiesa debba essere l’inclusione e non l’esclusione. Certamente non una sacramentalizzazione ad ogni costo e a buon mercato. La grazia rimane a caro prezzo, da non svendere: tuttavia non si rifiuta nulla ai “cagnolini”, purché siano tali e non commedianti furbastri d’occasione.
Occorre mettere in atto un grande discernimento nello Spirito nell’assumere una giusta calibratura in atteggiamenti di accoglienza che non siano superficiale clientelismo o proselitismo a buon mercato. Bisogna essere attenti alla voce dello Spirito perché non avvenga che si accolga indiscriminatamente, bypassando disinvoltamente l’eventuale decisione di un’altra comunità che ha responsabilmente scelto, in alcuni casi, di dilazionare, per dare tempo e aiutare qualcuno ad essere meglio disponibile e pronto a ricevere un sacramento. La sinodalità è anche questo.
Ritorna comunque l’esigenza di una Chiesa ospitale di cui si diceva all’inizio.
«Una Chiesa ospitale! È questo il volto della Chiesa missionaria per l’oggi e per il futuro. La qualità dell’ospitalità è, innanzitutto, data dal volto della Chiesa. Chissà quando nella Chiesa avremo la parresìa per ammettere che, se oggi molti se ne vanno, questo dipende dal fatto che la Chiesa non sa essere accogliente, anche lei malata di narcisismo spirituale che le impedisce di guardare a chi è lontano dai suoi recinti, e di nutrire makrothymía (pazienza, longanimità) anche per chi nel suo seno anela alla libertà, cerca cose nuove, si avventura per cammini rischiosi ma umani.
Non accorgersi che la Chiesa continua a essere malata di intransigentismo e di rigorismo solo perché in essa si parla tanto di misericordia significa essere accecati e non vedere che sono solo mutati i termini ai quali applicare legalismo e giustizialismo. L’ospitalità per la Chiesa è decentramento in atto, uscita da sé stessa per andare verso gli altri e permettere loro di convergere verso il Signore Gesù Cristo, permettere agli assetati di vita di trovare la vita. Gli uomini e le donne di oggi hanno sete e cercano i pozzi dove c’è acqua. Chi siede presso il pozzo e può attingere, offra e doni acqua, nient’altro che acqua, e soddisfi la sete: questa è la sua missione, niente di più» (Enzo Bianchi).
Si ipotizza, in certe scelte, una Chiesa di perfetti, di puri, in cui tutto risponda alle nostre pur giuste pretese, che però sembrano non tener conto della realtà socio-religiosa. Certo, l’impianto attuale della catechesi presenta molte criticità, ma non si può, secondo me, buttare tutto all’aria manco fosse una disgrazia la situazione tipica o atipica e con tante incongruenze, presente in Italia che Ch. Theobald, nel suo sguardo su La fede nell’attuale contesto europeo definirebbe come una «condizione microclimatica cristiano-cattolica», in cui tuttavia non ci si può cullare.
Karl Rahner, pur consapevole della realtà della Chiesa in diaspora, diceva che comunque non tocca a noi accelerare il processo di secolarizzazione.
Certo, bisogna pur guardarsi dall’illusione di una sacramentalizzazione di massa come antidoto alla secolarizzazione, insieme ad attività tradizionali (di catechesi o di devozione) da mantenere sempre allo stesso modo. Il problema s’impone, ma la strada nuova è tutta da inventare, il che non è facile né ancora chiaro.
C’è anche la grazia di Dio…
È un rompicapo, e occorre discernere considerando sì la situazione e l’esigenza di un rinnovamento, del quale siamo tutti consapevoli, ma anche le conseguenze di scelte improvvisate.
A parte i giusti motivi che lo rendono plausibile, noto però in questa esigenza di cambiamento una nota di strisciante pessimismo e di neopelagianesimo. Come se d’ora i poi tutto dovesse dipendere dai mezzi, dimenticando tutto il resto, la grazia e dinamismi della personalità e le variabili storiche di ogni persona.
Bisogna pure stare attenti a non mescolare nella prassi pastorale nova et vetera, il gusto del barocco in senso largo e molte preoccupazioni tipicamente clericali.
Ciò che Joseph Moingt descriveva più di dieci anni fa è un quadro che non sembra cambiato nel tempo: «Di fronte all’ingente calo di fedeli in paesi europei nei quali un tempo regnava incontrastata, la Chiesa cattolica oggi è nuovamente tentata, se non di recuperare il terreno perduto, perlomeno di turare le falle, di premunirsi di nuove perdite, di rinforzare le difese e la sua identità sul piano delle tradizioni e del culto… La Chiesa attualmente punta sulla sacralizzazione della vita ecclesiale, sulla restaurazione delle tradizioni. Un clero nuovo, un clero ringiovanito si presenta molto più tradizionalista e legalista del clero con il quale si aveva a che fare prima. La Chiesa attuale punta su una risacralizzazione, una restaurazione. A cosa può portare questo? A una riconquista delle posizioni precedenti? Non credo; solo ad un aumento di visibilità» (Umanesimo cristiano, 67.77-78).
L’allora cardinale Bergoglio in un corso di esercizi spirituali ai vescovi spagnoli ebbe a dire queste parole: «Noi siamo generali falliti di un esercito sconfitto». Parole che ci devono indurre all’umiltà e a non assumere nei confronti della gente atteggiamenti trionfalistici, rancorosi o frustrati, ma, accoglienti disinteressati e pazienti, a imitazione di Cristo.
Un autentico spirito missionario saprà trovare la giusta misura nelle scelte senza che ciò suoni ancora e sempre come la preoccupazione di salvaguardare l’apparato. Giustamente Armando Matteo dice che chi si affaccia nelle nostre chiese, a chi viene a contatto con la Chiesa, deve essere chiaro che lì vi si incontra Cristo. «Non importa per quale strada sei giunto fin qui. In ogni caso, da qui non te ne andrai senza esserti prima incontrato con Gesù. Qui si diventa cristiani»: così dovrebbe essere scritto all’ingresso della nostre chiese.
L’ospitalità (filoxenìa) significa che «accogliere e riconoscere la varietà delle forme in cui la vita cristiana si dà nello spazio e nel tempo non è solo un ripiego. Non significa misconoscere la necessaria ecclesialità della fede e neppure allargare le maglie e i confini dal recinto per non escludere nessuno e ritrovarsi dentro almeno qualcuno. Questo sarebbe ancora un modo settario/organizzativo di ragionare. Non si tratta, ancora, di un modo per fare credenti a loro insaputa o contro il loro desiderio. Si tratta più profondamente di assumere una prospettiva più rispettosa dello statuto della vita credente. La fede è sempre accoglienza del dono di Dio, la cui grazia è misteriosamente all’opera nel mondo intero anche fuori dei confini visibili della Chiesa» (M. Roselli in RPL 4/2021).
Non mancano un po’ dappertutto esperienze dove vari fattori favorevoli (un certo carisma personale che sa unire spirito missionario e tratto umano accogliente, una collaborazione intelligente e metodologie innovative), creano un clima in cui c’è una partecipazione piena dei ragazzi anche alle celebrazioni e il coinvolgimento delle famiglie: proprio ciò che è richiesto dal rinnovamento di metodi, forme e spirito.
Devono diventare tutti “cristiani attivi”?
Per concludere, voglio riportare ciò che Medard Kehl scrive al riguardo. Egli propende «decisamente per un sì leale a chi, pur non praticante, chiede i sacramenti: tale atteggiamento trasmette l’immagine di una Chiesa aperta, attraente e amica delle persone. Ciò naturalmente richiede a molti cristiani attivi una chiara correzione della loro normale prospettiva: la massa dei battezzati lontani dalla Chiesa non può essere considerata, a partire unicamente dalla prospettiva della comunità nucleare, in maniera piuttosto sprezzante come scheletri da schedario, cristiani sulla carta, battezzati ma pagani incalliti.
Occorre piuttosto valutarli a partire innanzi tutto dalla loro propria prospettiva: come un grande campo, in sé assai differenziato di simpatizzanti, ossia di membri inattivi che desiderano assolutamente che questa istituzione-Chiesa e i valori per i quali essa risponde, esistano nella nostra società e che vogliono, all’occorrenza, ricorrere alle sue offerte; non sono però, di regola, in alcun modo disposti a lasciarsi trasformare in cristiani attivi, come invece vorremmo che accadesse nell’ambito della catechesi dei sacramenti. Se noi non relativizziamo i nostri personali punti di vista e non riusciamo a metterci seriamente nella loro prospettiva, per noi sicuramente molto deludente, a lungo andare perderemo uno dei più importanti punti di contatto pastorale con la gente della nostra cultura» (Dove va la Chiesa, pag. 165).
Egli è ovviamente abbastanza critico nei confronti della catechesi così come vien fatta, suggerendo un dialogo con le famiglie che chiarisca, da un lato, il senso vero dei sacramenti e, dall’altro, richiami alla coerenza, mettendo comunque in chiaro la posta in gioco, a fronte di una richiesta disimpegnata.
Le stesse celebrazioni dei sacramenti dell’iniziazione devono essere sobrie, evitando improbabili e spesso arbitrarie ritualità che fanno il gioco delle famiglie in cerca di emozioni effimere e di protagonismi.