Con questo articolo don Massimo Nardello, presbitero modenese e teologo, chiude la serie delle sue illuminanti riflessioni su come esercitare la leadership all’interno della comunità cristiana, a partire da alcuni passaggi della “Regola pastorale” di san Gregorio Magno papa. Lo ringraziamo dei suoi contributi nella speranza di riprendere la collaborazione dopo la pausa estiva.
Quando si parla delle caratteristiche che devono avere le persone che esercitano una qualche forma di leadership nelle comunità cristiane, normalmente ci si focalizza sulle qualità personali, come l’intelligenza, la capacità organizzativa, l’essere compassionevoli, e così via. In realtà, non basta che una guida abbia tutte queste virtù, ma occorre anche che goda di una buona reputazione da parte delle persone della sua comunità.
Questo aspetto è difficilmente gestibile, dal momento che non si possono controllare le voci che talora girano a proprio riguardo, soprattutto quelle che sono espressione di fantasia o di malevolenza da parte di alcune persone. Sta di fatto, però, che un leader, per il ruolo che ha all’interno di una comunità cristiana, non può accontentarsi di agire in modo retto, ma deve pure fare in modo che questa sua rettitudine sia colta dalle altre persone.
Proprio su questo tema, così si esprime Gregorio Magno a riguardo di quei cristiani virtuosi che, pur non avendo alcun ruolo di leadership, non si curano di ciò che le altre persone pensano di loro: «Bisogna ammonire coloro che fanno nascostamente il bene e tuttavia per qualche loro azione pubblica permettono che si pensi male di loro, a non uccidere altri in sé stessi con l’esempio di una cattiva stima, mentre vivificano sé stessi con la potenza di un retto agire; a non amare il prossimo meno che sé stessi, e a non versare veleno pestifero nei cuori attenti alla considerazione del loro esempio, mentre loro stessi bevono vino salubre. Poiché, in questo caso, non giovano alla vita del prossimo; e nell’altro la gravano molto; applicandosi, cioè, [da un lato] ad agire rettamente di nascosto, e [dall’altro] a seminare, per certe loro azioni, una cattiva opinione di sé come esempio per gli altri». (Regola pastorale, III, 35).
Trasparenti nell’agire
Tutto questo vale a maggior ragione per chi esercita una qualche forma di leadership nella Chiesa, per la maggiore responsabilità che ha nei confronti di altre persone.
Ovviamente non si può coltivare la propria buona fama con la falsità, cioè costruendosi una doppia vita nella quale ad un’apparenza eccellente e virtuosa corrisponde un mondo nascosto in cui si fanno cose sbagliate. Non solo questo ambito oscuro prima o poi potrà essere scoperto, ma necessariamente inficerà l’efficacia del proprio servizio ecclesiale e la propria salvezza.
La via giusta è quella di rendere conto del proprio stile di vita effettivo e delle proprie azioni non solo ai superiori, ma anche alla comunità a cui si appartiene. Oggi, sia nell’ambito degli studi sulle organizzazioni che in quello teologico questo atteggiamento è indicato spesso dal termine accountability. Si tratta di una parola inglese difficilmente traducibile, ma che in sostanza indica il rendere conto di sé ad altre persone con un atteggiamento di trasparenza, e quindi il riconoscere a queste persone il diritto e il dovere di valutare il proprio operato.
Anche se la propria personalità psicologica può portare ad essere figure un po’ ombrose e a condividere con fatica gli aspetti più personali della propria vita, come le proprie emozioni, un leader deve comunque superare queste eventuali difficoltà e assumere uno stile di vita non solo retto, ma anche sostanzialmente trasparente.
Le persone dovrebbero poter guardare alla loro guida con la ragionevole certezza che non nasconde nulla, che è esattamente come appare, e che lo sforzo che compie per cercare di essere un buon cristiano e di vivere bene il suo servizio è espressione del suo cuore, cioè del centro della sua persona.
Sotto gli occhi della comunità cristiana
Tuttavia, occorre riconoscere che, se il confrontarsi con i superiori è un tema consueto nell’ambito ecclesiastico, non lo è affatto quello del rendere conto alla propria comunità. Non si tratta, ovviamente, di assumere un atteggiamento di obbedienza nei confronti di chiunque ne faccia parte e delle sue richieste, ma semplicemente di superare una visione della propria leadership come top-down, cioè di non pensarsi in una posizione di tale superiorità che non si è obbligati a prendere sul serio le critiche che si ricevono.
È evidente che un approccio di questo genere può mettere in discussione quel tipo di relazione asimmetrica del leader nei confronti della sua comunità che per tanto tempo è stata ritenuta indispensabile.
Oggi, però, nel campo teologico, anche grazie agli studi femministi e sulla sinodalità, si tende a pensare a tale leadership in termini di reciprocità, intendendo con questo termine la capacità di lasciarsi realmente mettere in discussione dalle persone della propria comunità, pur mantenendo la libertà di prendere la decisione ultima sulle questioni di propria competenza.
E così il cammino della sinodalità che stiamo faticosamente percorrendo mette in discussione l’ideale del prete o del vescovo che tiene rigorosamente per sé le sue emozioni, piangendo solo davanti al tabernacolo, per mostrarsi in pubblico come un uomo impassibile, forte, capace di far fronte a qualunque difficoltà. Certamente questo non corrisponde alla sua realtà interiore, e dunque il porsi in questo modo davanti alla propria comunità significa mancare di trasparenza, non rendere conto anche degli aspetti più deboli della propria umanità. È molto meglio condividerli.
Non si può neppure pensare che queste fragilità debbano essere condivise solamente nella cerchia dei propri “simili”, ad esempio con coloro che condividono il proprio ministero.
Il recupero conciliare della dignità e dell’identità carismatica di tutti i battezzati ci fa ritenere possibile ad auspicabile una condivisione ben più ampia.
Insomma, un leader che sceglie la via della trasparenza nei confronti della sua comunità non mette a repentaglio la sua leadership, ma si metta nella condizione di entrare in una rete relazionale autentica nella quale può essere realmente arricchito dalla fede e dall’affetto degli altri cristiani con cui vive il suo cammino di fede, e arrivare anche a prendere decisioni più illuminate perché portano in sé la loro impronta.