Una delle riprove più evidenti che nelle comunità cristiane odierne vi è una grande pluralità di opinioni sui fondamenti dell’esperienza cristiana e, in particolare, sul modo in cui si dovrebbe portare avanti l’azione pastorale è data dalle reazioni molto variegate che si registrano dopo la nomina di un pastore, cioè di un parroco o di un vescovo.
Alcune persone si abbattono, pensando che l’eletto non sia all’altezza del suo compito o che addirittura porterà la comunità che gli è stata affidata su strade non evangeliche, mentre altre si esaltano, vedendo in questa nomina il riconoscimento delle loro istanze e delle loro attese.
Altri ancora, poi, stanno a vedere, sperando che il nuovo arrivato non stravolga più di tanto le decisioni del suo predecessore introducendo dei cambiamenti che ormai non hanno più voglia di tollerare.
La tentazione dell’arroganza
Tutto questo mette in evidenza come un pastore, e più in generale un qualunque credente che svolga un incarico di responsabilità nella Chiesa, deve fare i conti con un insieme di persone più o meno ampio che non lo stimano, non lo ritengono idoneo a svolgere il suo compito e auspicano un suo rapido dimissionamento.
Al di là del fatto che tali opinioni siano errate o meno – non è affatto detto che le nomine ecclesiastiche corrispondano alla volontà di Dio sugli interessati e sulle loro comunità –, sta di fatto che assumere un ruolo di leadership nella Chiesa, come del resto nella società civile, significa portare il peso della svalutazione e talora del disprezzo.
Questa situazione mette chiunque a dura prova, soprattutto coloro che, per la loro personalità, hanno bisogno di sentirsi sempre all’altezza della situazione, i migliori in campo, e tendono quindi a fuggire da quei contesti nei quali sperimentano un senso di inferiorità o di disistima. Ovviamente, però, quando si è pastori o si svolge comunque un compito di rilievo in contesti ecclesiali non ci si può eclissare in modo sbrigativo in nome della fedeltà agli impegni che si sono presi.
E così, quando la fuga non è un’opzione, può entrare in campo un altro modo altrettanto sbagliato di reagire al senso di svalutazione che si sente rivolto contro la propria persona. Si tratta dell’atteggiamento dell’arroganza.
Così a scrive Gregorio Magno a riguardo del modo in cui le persone impazienti reagiscono quando sono oggetto di disprezzo: «Per questo vizio dell’impazienza lo spirito resta ferito dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non sopporta di essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto all’arroganza e, per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in mostra se stesso si gloria con l’ostentazione. Perciò sta scritto: È meglio il paziente dell’arrogante (Qo 7,9); poiché evidentemente il paziente preferisce sopportare qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi beni nascosti. L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di qualche bene, anche falsamente, pur di non dover sopportare neppure il più piccolo male» (Regola pastorale, III, 9).
Secondo Gregorio, l’atteggiamento arrogante di chi ostenta davanti alla comunità le proprie qualità personali e conoscenze (teologiche, spirituali ecc.) nasce da un modo sbagliato di reagire al senso di svalutazione o addirittura di disprezzo di cui è oggetto. Ovviamente tale atteggiamento non risolve il problema, perché coloro che lo denigrano non verranno certo convinti a cambiare stile dall’ostentazione delle sue competenze spirituali e pastorali. Anzi, probabilmente tale esibizione non farà che alimentare ulteriormente le distanze, e quindi anche il livello di conflitto all’interno della comunità.
La fatica della pazienza
L’atteggiamento auspicato da Gregorio in queste situazioni può sembrare sorprendente o addirittura irrealistico, ma in fondo è profondamente evangelico: si tratta di rifiutare a qualunque costo l’ostentazione altèra delle proprie qualità, anche a costo di farsi massacrare dalle offese e dagli insulti. A fronte di questi atteggiamenti, occorre piuttosto essere pazienti, cioè sopportare questi mali senza reazioni arroganti.
È ovvio che, nella visione di Gregorio, tale stile paziente del pastore non lo esime dall’interrogarsi molto onestamente sulla veridicità delle accuse che gli sono mosse, come pure dal far fruttare in modo umile le proprie qualità e competenze.
Ciò che il testo citato ci insegna è che la qualità di una guida ecclesiale o di chi svolge ruoli di responsabilità nelle comunità cristiane non si misura dalla sua capacità di rispondere colpo su colpo alle offese o agli atteggiamenti denigratori che gli sono rivolti, cercando continuamente di dimostrare di essere il migliore e di saperne più di tutti, ma piuttosto dalla capacità di portare avanti le sue scelte con un atteggiamento di mitezza e di umiltà che sa accettare anche la sofferenza come parte integrante del proprio ruolo.
A ben vedere, poi, questo atteggiamento paziente auspicato da Gregorio non è alternativo alla fermezza che deve connotare lo stile di un pastore, perché non sia «una canna sbattuta dal vento» ma un profeta coraggioso (cf. Mt 11,8), ma ne è il presupposto. Tale fermezza, infatti, è funzionale alla custodia del Vangelo nella propria comunità, e dunque non può affondare le sue radici nell’arroganza, dal momento che questa serve solo a tutelare la superiorità di chi la esibisce. Con questa arroganza, il Vangelo non c’entra nulla.
Tutto questo delinea il ruolo del pastore non come qualcosa di grandioso, ma come un servizio estremamente umile in cui le molte gioie sono bilanciate da numerose fatiche. Proprio per questa ragione tale servizio non può essere accettato senza aver imparato a gioire della comunione con Dio che c’è stata donata in Gesù grazie al dono dello Spirito, e a porre tale gioia a fondamento della propria vita.
A volte, nella vita di un pastore – come pure di molti altri cristiani – è questa l’unica vera consolazione a cui si può attingere per restare umilmente al proprio posto rifiutando l’arroganza.