Uno degli aspetti più importanti dell’ecclesiologia del concilio Vaticano II è il riconoscimento dell’identità carismatica di tutti i cristiani, cioè il fatto che nel battesimo ciascuno di loro ha ricevuto dallo Spirito dei carismi che consentono di servire la propria comunità e la crescita del regno di Dio nel mondo. Insomma, ogni credente è chiamato a vivere per la propria parte la missione della Chiesa non in forza di una delega dei pastori, ma nel nome dello Spirito del Signore.
Discernere i carismi
Il compito di chi presiede una comunità è quello di discernere i carismi dei suoi membri e di verificare che questi carismi vengano vissuti secondo la volontà di Dio, cioè in modo evangelico e con uno stile comunionale. Si tratta però di un compito che ha a che fare più con la supervisione e l’accompagnamento che con la delega di mansioni che si potrebbero comunque svolgere da soli.
In effetti, anche qualora il pastore fosse in grado di portare a termine autonomamente tutti i servizi necessari per la vita della sua comunità, se decidesse di procedere in tal senso ignorando i carismi degli altri credenti, porrebbe resistenza all’azione dello Spirito, dal momento che egli ha voluto donare quei carismi perché fossero valorizzati per la missione ecclesiale.
A volte, però, nel cuore di un pastore o di chi svolge una qualche forma di leadership nelle comunità cristiane può insinuarsi la convinzione che per poter svolgere il proprio compito di guida sia necessario essere i migliori in campo, almeno per quegli aspetti che toccano l’attività pastorale, e che quindi i carismi degli altri debbano essere inferiori ai propri. In caso contrario, non si comanda più.
In questo modo, anziché essere dei supervisori che aiutano ciascuno a vivere al meglio la propria identità cristiana, si assume un atteggiamento di competizione e di superiorità nei confronti degli altri credenti.
Il segnale che ci si sta collocando in questa prospettiva molto pericolosa è la tendenza a minimizzare le qualità spirituali e pastorali delle persone della propria comunità, oppure, quando sono troppo evidenti per poter essere svalutate, il provare un forte senso di invidia, come se quelle qualità mettessero in discussione la propria leadership.
Se poi un pastore tende ad essere perfezionista e ad evitare la sensazione dell’inferiorità davanti agli altri, questa deriva diventa più che ipotetica. In questo modo, però, anziché valorizzare i carismi dei credenti, li si tratta come dei bambini, e si impedisce loro di esprimere al meglio le loro potenzialità evangeliche.
Una ricchezza a vantaggio di tutti
Proprio a riguardo di questa invidia, così scrive Gregorio Magno: «Quanto grande è l’infelicità di coloro che diventano peggiori perché vedono migliorare gli altri e, mentre guardano aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione in se stessi, muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che cosa ci può essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione della felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni degli altri che non possono avere per sé, li farebbero propri. Poiché essi sono tutti stabiliti nella fede, come molte membra in un solo corpo, le quali sono certo diverse per la diversità delle funzioni, ma per il fatto stesso della loro corrispondenza reciproca diventano una cosa sola (cf. 1Cor 12,12-30). […] È certamente nostro ciò che amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è amato in noi diviene di chi l’ama. Perciò gli invidiosi misurino quanto è grande la potenza della carità che rende nostre senza fatica le opere della fatica altrui.» (Regola pastorale, III, 10).
È interessante osservare che, per Gregorio, la strada per superare questa invidia non è l’umile riconoscimento dei propri limiti, cioè l’accettazione serena del fatto che gli altri possano essere migliori di noi. Piuttosto il nostro autore ci insegna a vedere i carismi delle altre persone – quei beni che li caratterizzano nel corpo ecclesiale a cui fa riferimento la citata 1Cor – come una nostra ricchezza, per il fatto che tutti viviamo in Cristo e dunque i doni di ciascuno vanno a vantaggio di tutti.
La cosa non ci deve stupire. Ciò che lo Spirito Santo ha realizzato nella persona di Gesù, risuscitandolo dalla morte, raggiunge anche noi e ci divinizza proprio perché apparteniamo al corpo di Cristo che è la Chiesa.
In modo analogo, anche i carismi che lo Spirito ha donato agli altri membri dello stesso corpo ecclesiale vanno pure a nostro vantaggio. Così, ad esempio, la particolare intelligenza delle cose spirituali che lo Spirito ha donato a qualcuno va a beneficio di tutti coloro che sono disposti ad ascoltarlo o a leggere le sue opere. Studiare teologia, in fondo, è un modo per arricchirsi continuamente della sapienza che lo Spirito ha donato ad altri credenti.
Amare i doni degli altri
Gregorio però sottolinea che è indispensabile amare i doni degli altri per poterne beneficiare. In effetti, se ci si lascia prendere dall’invidia e si vedono quei doni come svantaggiosi per la propria persona, non si permette loro di arricchire la propria vita. Si penserà soltanto a minimizzarli, a svilirli, a considerarli irrilevanti.
Si possono amare, poi, solo quei doni che esistono davvero. In effetti, vi sono credenti che pensano di aver ricevuto dei carismi che in realtà lo Spirito non ha mai dato loro, e si sentono chiamati a raggiungere dei ruoli per cui non sono minimamente adatti. I carismi si accolgono da Dio, non si possono inventare per raggiungere ruoli che si sentono come prestigiosi o grandiosi.
Poiché il compito di discernimento sulla genuinità dei carismi spetta ai pastori, è evidente come sia importante che chi deve svolgere questo servizio abbia alle spalle una lunga esperienza di apprezzamento dei doni degli altri. Solo chi è già riuscito a tenere sotto controllo la dinamica dell’invidia e la paura dell’inferiorità potrà valutare con sufficiente libertà l’autenticità dei carismi dei propri fratelli e sorelle nella fede, e aiutarli a vivere questi loro doni in pienezza.