Un breve sguardo su alcune tensioni e dinamiche che emergono in particolare dai giovani ma che sono trasversali alle altre età della vita e oggi ci coinvolgono tutti. Sono proprio nervi scoperti che attendono tuttavia di divenire varchi o meglio porte strette per cammini di umanizzazione e di tessitura di relazioni unificanti.
La ricerca della felicità
Il primo nervo scoperto è la ricerca della felicità, una ricerca che la cultura attuale induce in modo compulsivo e che i ragazzi (e non solo loro) vivono in modo frammentato, autocentrato, con il primato assoluto delle emozioni ma anche e soprattutto attraverso un abbandono senza rete a relazioni forti, totalitarie e a intimità avvolgenti e rassicuranti. Nonostante tutte le riserve che si possono avere su questo stile simbiotico, occorre riconoscere che questa è la principale linfa vitale che dà un senso forte alla vita di tanti, giovani e adulti, e la riscatta dalla grande noia.
E tuttavia, perché questa tensione non si spenga e non si spenga il desiderio, è urgente soprattutto oggi che si esponga al dolore del mondo, che con tanta evidenza e veemenza ci arriva in casa.
La prima porta stretta è dunque il coniugare la ricerca della felicità personale con la lotta contro la grande «inequità» che è diventata sistema e con i passi di consolazione e di giustizia che ci è dato di compiere. Al di fuori di questo intreccio, che può generare un risveglio, un’insurrezione delle coscienze le nostre felicità private avvizziscono e si spengono.
Negazione della fragilità
Il secondo nervo scoperto è la rimozione, la negazione della propria fragilità. E qui i giovani hanno imparato benissimo da noi adulti che abbiamo elaborato una cultura anzi un culto della forza. «L’uomo forte al comando» è diventato il modello politico degli ultimi decenni, abbiamo creato una società della prestazione e del successo dove la competizione è legge e valore, dove ci sono i vincenti e i perdenti… E così la vera moltiplicazione di questi anni è stata quella delle «vite di scarto» e oggi noi parliamo di «poveri» come fossero una categoria sociale, una classificazione naturale, un mondo a parte rispetto a cui ci sono la Caritas, il volontariato, le partite del cuore…
I giovani hanno creduto a questa rimozione della fragilità e alla necessità di essere i primi, i vincenti, le eccellenze…
La porta stretta richiede allora di sbarazzarsi di questo super io avvelenato, di uscire da questa illusione e da questo inganno, di fare pace con la fragilità che tutti ci accomuna e accogliere le piccole guarigioni di ogni giorno, e a partire da questa accettazione ricomporre la tessitura di una qualche unificazione interiore e di una convivenza paziente, non giudicante, mite e anche tenacemente benevola.
L’incredulità
Il terzo nervo scoperto che veramente ci accomuna tutti è l’incredulità rispetto alla possibilità che davvero tutto questo si possa realizzare, che ci possa essere «vino nuovo in otri nuovi» e dunque la rassegnazione, il disincanto, il realismo triste e cinico secondo cui «non c’è nulla di nuovo sotto il sole» e che dunque la logica debba essere quella dei discepoli nel racconto evangelico: «Congedali, perché vadano a comprarsi da mangiare».
È la logica del «ciascuno per sé» e del «tutto si compra e tutto si vende», i due pilastri su cui si regge la nostra cultura e la nostra società.
Rispetto a questa logica di «stanchezza» c’è lo sconfinamento evangelico: «Voi stessi date loro da mangiare». È come dire: quella logica non ha futuro, occorre un’altra direzione ed è possibile se si entra nella logica e nell’orizzonte della benedizione («pronunziò la benedizione»). E la benedizione ebraica è il riconoscimento che tutto ci è stato dato e che noi siamo soprattutto ciò che «gratuitamente abbiamo ricevuto».
Se si entra in questo orizzonte (e per noi occidentali è veramente difficile…) – ed è questa la terza porta stretta – allora si spalanca una postura inedita e uno sguardo nuovo e semplicemente veritiero sulla vita perché nessuno di noi si è autogenerato e noi siamo soprattutto quello che abbiamo ricevuto e che continuamente riceviamo.
L’io padronale, autarchico, autosufficiente viene così deposto e spodestato: il «date loro da mangiare» diventa allora la fiducia che ciò che abbiamo e ciò che siamo, fossero anche solo i cinque pani e i due pesci, se condiviso e non trattenuto patologicamente può «sfamare» la moltitudine.
È la porta stretta della gratitudine (eucaristia) come orientamento esistenziale ed educativo.
Il testo che qui pubblichiamo è stato pronunciato in occasione dell’Assemblea diocesana, appuntamento inserito nel percorso del Congresso eucaristico diocesano di Bologna (8.6.2017; qui la conclusione del vescovo Zuppi). Matteo Marabini, insegnante di storia e filosofia nella scuola superiore, è una persona impegnata nel mondo sociale ed ecclesiale bolognese; è fondatore e presidente dell’associazione «La Strada» ONLUS, di Medicina (BO).