Una Chiesa che forma

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«La mancanza di comunità di pratica è la causa maggiore del fallimento formativo delle nostre comunità parrocchiali».[1] Da questa tesi ha preso il via il lavoro di ricerca del seminario-laboratorio “Una chiesa che forma. Oltre la catechesi, prassi e criteri per una formazione possibile in parrocchia”, proposto dal ciclo di licenza in teologia pastorale della Facoltà teologica del Triveneto.

Il seminario-laboratorio è un corso peculiare nel piano di studi della Licenza, anche per la sua struttura didattica: l’approccio è interdisciplinare;[2] intervengono più voci e si incontrano esperienze pastorali diverse; la classica dinamica frontale si intreccia con lezioni laboratoriali, in aula e sul territorio, con l’intento di conoscere e leggere criticamente alcune prassi delle comunità cristiane.

Il percorso si sviluppa in tre fasi che, nonostante la specificità di ciascuna, si richiamano però continuamente. Il fil rouge che le caratterizza è l’ascolto.

Nel primo tempo esso è declinato in tre direzioni: ascolto di sé stessi, delle proprie attese e delle proprie precomprensioni; ascolto della Parola di Dio, in cui trovare provocazioni e ispirazione; ascolto del reale, perché ogni riflessione nasca dal dialogo con le esigenze delle persone concrete; in questa prima fase rientra il confronto con il portato delle scienze umane, in particolare sociologia e psicologia.

Il secondo tempo è dedicato invece a raccogliere i criteri di analisi necessari per comprendere le realtà considerate: permane il protagonismo della Parola, che si intreccia con i testi del magistero e con il pensiero dei teologi e delle teologhe.

Nel terzo tempo, infine, gli studenti vengono invitati a lavorare in gruppo su alcune esperienze presenti sul territorio, facendo sintesi di quanto raccolto durante le prime due fasi per giungere, con l’aiuto dei docenti, a individuare alcune coordinate fondamentali, capaci di accompagnare l’agire delle comunità cristiane nel contesto attuale.

L’ipotesi iniziale

La riflessione del seminario-laboratorio attivato nell’anno accademico 2023-2024 ha ruotato attorno al rapporto tra formazione ed effettiva esperienza di comunità.[3]

Che cosa si intende per “comunità di pratica”?

Per chiamarsi tale, una comunità di pratica deve possedere alcune caratteristiche: un impegno reciproco (non è sufficiente condividere degli interessi, perché è cruciale l’aspetto interattivo); un’impresa comune (che è un processo collettivo di negoziazione, dove la responsabilità diventa parte integrante dell’esperienza); infine, una prassi condivisa, frutto di pratiche e risorse condivise, anche in maniera informale.

In sintesi, le comunità di pratica, per Wenger, sono «gruppi di persone che condividono un interesse per qualsiasi cosa fanno e che interagiscono con regolarità per imparare a farlo meglio, gruppi di individui, cioè, che condividono esperienze e, attraverso questo processo di interazione, apprendono sia come soggetti sia come parte di gruppi sociali».[4]

Una comunità di pratica non valorizza solamente il learning by using (apprendere grazie all’utilizzo) e il learning by doing (apprendere attraverso l’azione), ma anche il learning by interacting, cioè quell’apprendimento che è generato dalla collaborazione tra pari, dalla motivazione che nasce dal sentirsi parte di un gruppo, dallo svolgimento di attività condivise.[5] «Il fondamento dell’apprendere risiede dunque nella partecipazione sociale ad una pratica».[6]

Nella comunità di pratica, attraverso la partecipazione di tutti gli attori coinvolti, nascono processi di negoziazione che toccano il significato delle azioni da realizzare: «ciascun agente è parte attiva di questa dinamica di costruzione del significato che ha come esito la co-produzione di senso e, dunque, la generazione di una prospettiva comune e condivisa che, a sua volta, è fonte della “costruzione” di identità individuale e collettiva».[7] Al centro dell’apprendimento, lo ribadiamo ancora, sta la pratica.

È lecito portare nella riflessione ecclesiale una figura educativa nata in ambito sociologico?

Oltre al legittimo dialogo tra scienze umane e teologia, che fonda l’ipotesi iniziale, nasce una perplessità: la Chiesa può essere intesa come comunità dove si negozia il significato? Non viene così messa in crisi la sua identità, di comunità fondata su una Tradizione? La natura della Chiesa è sacramentale, che, nella sua struttura, ha tre ordini simbolici: il corpo delle Scritture, il corpo eucaristico, il corpo ecclesiale. I primi due hanno bisogno del terzo, cioè della pratica ecclesiale.

«L’ordine simbolico del vissuto cristiano, perciò, non è primariamente una questione di “oggetti” della confessione religiosa, bensì di soggetti. L’ordine simbolico si avvera per mezzo della sequenza “dono”–“ricezione”– anti-dono”. In altre parole: l’esistenza cristiana trascende il “mito” (il racconto come “dono”) e il “rito” (il celebrare liturgico come la “ricezione” del dono), giacché in questo caso l’ambito del rapporto con Dio sarebbe limitato ad una sacralizzazione (l’ambito della ritualità sacrificale). Il suo vero luogo di verifica è l’ambito della quotidianità, la “santificazione” della realtà intera da parte del popolo di Dio, tutto sacerdotale».[8]

La Chiesa è, nella sua essenza, una comunità di apprendimento, in una fedeltà creativa alla Tradizione alla luce del contesto in cui si colloca (basti pensare all’unico Vangelo in quattro versioni). «Soltanto nel caso di riconoscimento del vissuto da parte del contesto sociale si apre davanti all’uomo la sua identità come dono gratuito e grazioso di Dio, un “qui e ora” della grazia divina. L’autenticità desiderata dell’identità, quindi, richiede una contestualizzazione della costruzione dell’identità».[9]

Di conseguenza, lo sviluppo di relazioni di stima e di reciprocità, il riconoscimento di ogni partecipante nel suo statuto di soggetto attivo, la costruzione di un senso di solidarietà e aiuto, il rispetto dell’unicità del percorso personale di vita sono fattori imprescindibili per il farsi della Chiesa.

Quali sono le resistenze rispetto a un tale processo?

Nel contesto ecclesiale, spesso il vissuto e i luoghi della vita sono estranei agli ambiti formativi e alla prassi della comunità cristiana, per riemergere in autonomia nelle devozioni popolari, che costituiscono il loro spazio di sopravvivenza dentro la pratica della fede.

La moltiplicazione di ruoli crea una conseguente decrescita del soggetto comunitario: molti attori della pastorale, impegnati in attività importanti, vivono il proprio servizio nell’anonimato e nell’autogestione.

La formazione offerta, implicita o esplicita, è più attenta alle precomprensioni dell’istituzione che alle domande della vita, e si organizza vivisezionando le storie personali e le famiglie.

La maggior parte delle offerte formative sono inoltre unidirezionali: il feedback è dimenticato, persino sconsigliato, portando avanti un’inerzia che non genera. Un tale approccio è il contrario di ciò che struttura la formazione dentro una normale azienda.[10]

Indicatori di percorso

I criteri per entrare nel dato reale sono stati forniti da tre approfondimenti: di carattere antropologico (prof.ssa Lucia Vantini); di carattere teologico-pastorale (prof. Livio Tonello); di carattere pedagogico-catechetico (prof. Enzo Biemmi).

Adulto e desiderio di vita

«Finché non riprendiamo la lingua della vita, superando la preoccupazione che questa scelta ci porti lontano dalla teologia, dalla fede, dalla pastorale, tutti i nostri discorsi sulla formazione si scioglieranno come neve al sole, perché non intercettiamo il sacro che sta dietro alle vite» (dalla lezione della prof.ssa Lucia Vantini).

«Il segreto dell’educazione sta, dunque, nella capacità di leggere il reale nella consapevolezza di starci dentro, nella sapienza di indovinare i tempi e i modi delle parole, degli abbracci e dei conflitti, nell’ostinazione di cercare e curare la vita a qualunque condizione. Si tratta di fare credito alla vita che nasce e che diviene sé stessa anche quando non la possiamo riconoscere di implicarsi nel miracolo delle sue riprese e rinascite, di farsi portare là dove vige un’altra lingua e provare a capirla, di riconoscere l’ansia e tenersela, di scommettere che il futuro possa dare buoni frutti un domani, quando saremo altrove».[11]

Parrocchia ed esperienza

«Dalle esperienze che faccio fare, dipende la forma della comunità. (…) Quando noi cambiamo i contenuti formativi, cambia anche la rappresentazione della parrocchia e della comunità. Le attività non sono neutre, perché riescono a generare delle rappresentazioni. (…) Il fallimento formativo è dato dal fatto che le prassi non producono senso: si fanno tante cose in senso funzionale, ma non interpellano la vita delle persone, non permettono alla vita delle persone di prendere una forma. Al massimo rimangono nella mente: “È stato bello”. Ma non c’è stato cambiamento, non vengono prodotte conseguenze esistenziali». (dalla lezione del prof. Livio Tonello)

Formazione e figura di fede, di Chiesa, di missione

La formazione nella comunità cristiana richiama la forma della Chiesa che stiamo vivendo e che passa attraverso un profondo cambiamento:

«Dobbiamo accettare che una riforma è prima di tutto la forma di fede che abbiamo; poi, le relazioni interne alla comunità; poi, la missione. Su tutte e tre siamo stati destrutturati: la fede è in crisi, la comunità con le sue istituzioni è in crisi; la missione è in crisi. La crisi è momento favorevole, finisce una forma e ce n’è un’altra in gestazione, che chiede il grembo della Chiesa per essere generata» (dalla lezione del prof. Enzo Biemmi)

Circa la riforma della fede, i giovani stanno chiamando la Chiesa ad una “metamorfosi del credere” (Bignardi): è una nuova inculturazione. Ci è chiesto di ripartire da un punto nodale: la totale gratuità di Dio come guadagno per una vita pienamente umana. Circa la riforma della comunità, si tratta di abitare la chiamata ad una parrocchia missionaria, generativa, che riparte dagli ambiti di vita delle persone. Circa la forma della missione, si tratta di accogliere la precedenza dell’opera di Dio come punto da cui partire, in maniera strutturale, non accidentale. Ci sono, infatti,

«due forme di missione: quella di chi va fuori per portarli dentro; quella di chi va fuori e sta fuori ed esprime un interesse disinteressato per la vita delle persone. Gesù per tre quarti fa così, per un quarto chiama qualcuno ad essere discepolo. Uscire solo per farli entrare non è uscita, è incursione. Uscire e stare fuori è il massimo della missionarietà. Ma è esigenza profonda di chi ha incontrato il Signore l’annunciarlo esplicitamente, perché vivere senza di lui o con lui non è lo stesso. Noi non annunciamo il vangelo per salvare le persone, ma lo annunciamo perché sono già salvate: glielo andiamo a dire». (dalla lezione del prof. Enzo Biemmi)

Una mappa per accompagnare la formazione della comunità cristiana

Quali esperienze abbiamo ascoltato?

  1. Gruppo famiglie della parrocchia di Sant’Agostino (diocesi di Pordenone)
  2. Educazione e accompagnamento dei giovani: Cappellania scolastica di Lanciano; preghiera di Taizè di Giaveno (Torino); Giovani rumeni (Bolzano)
  3. Percorso biblico con adulti – parrocchia di Marcon (diocesi di Treviso)
  4. Scuola dell’infanzia di Villatora (diocesi di Padova)
  5. Associazione di studenti cattolici – Università Laval (Canada)
  6. Catechesi quaresimale dei giovani (Costa d’Avorio, Uganda, Filippine, Sri Lanka)

Quali sono le coordinate principali per una Chiesa che sia veramente formativa? Quali prassi e quali criteri vanno sostenuti e rafforzati, e quali invece corretti e superati?

  • Occorre partire da una comunità già presente in parrocchia o sul territorio, lì dove realmente sta accadendo qualcosa. Il primo passo è riconoscere dove si dà comunità in stato di formazione, secondo il paradigma della comunità di pratica. La parrocchia non è automaticamente comunità: perché questo si dia, occorre ritrovare i gruppi che vivono una dimensione di comunità formativa.[12]
  • Nelle esperienze che abbiamo ascoltato, dove possiamo dire che c’è stato impegno reciproco, impresa comune e prassi condivisa? Che cosa ha favorito questa prospettiva?

I LUOGHI DELLA FORMAZIONE sono stati ripensati rispetto ai confini organizzativi della vita parrocchiale (liturgia, carità, annuncio).

  • una domanda reale di vita: “il programma è modulato sulle esigenze delle famiglie” (Pordenone) “percorso, a partire dalle domande” (Giaveno); “al centro ci sono le persone, soprattutto gli adulti” (Marcon); “il parroco inizia la catechesi con un racconto di vita” (catechesi con i giovani)
  • ambiti di educazione, oltre gli ambienti parrocchiali: “tutti i luoghi della vita scolastica” (Lanciano); “un’associazione dentro l’università” (Canada); “scuola dell’infanzia” (Villatora);

I TEMPI DELLA FORMAZIONE sono tempi di accompagnamento, di strada percorsa insieme al passo della vita. I passi sono graduali, (Sri Lanka), legati al tempo della crescita (Villatora; Lanciano) e dello studio (Canada); le tappe sono verificate (Marcon).

I SOGGETTI VIVONO UNA LEADERSHIP CONDIVISA, nella forma di un’équipe, dove il prete non ha tutto il carisma della missione, ma custodisce il legame del gruppo con la successione apostolica.[13] “Suora e prete presenti, ma alla pari” (Pordenone); “tutti i componenti sono coinvolti” (Lanciano); “un gruppo di amici hanno incontrato il parroco” (Giaveno); “l’équipe è formata ed è autonoma” (Marcon); “l’associazione esprime una diversa figura di prete” (Canada); “i giovani volontari in qualche modo costruiscono con i sacerdoti una comunità o famiglia nella parrocchia” (Filippine).

LO STILE RELAZIONALE mette al centro la gioia della CONDIVISIONE, che prevale sulla preoccupazione organizzativa. In questo modo nascono esperienze di vita comune. “Al centro non sta una tematica, ma la relazione; l’accoglienza è fondamentale; il fine non è funzionale; cercano di condividere la fede” (Pordenone); “la partecipazione dei genitori crea legami e amicizie durature; formazione non è trasmissione di idee, ma fare qualcosa insieme” (Villatora); “l’associazione si è accorta che i giovani iscritti non hanno disponibilità per mantenersi: hanno costituito una distribuzione di beni alimentari” (Canada).

La PAROLA DI DIO punto imprescindibile, è riscoperta nel suo legame con un evento, l’Incarnazione, e quindi fonte di umanità vera, bella, buona, non solamente di senso.[14] “In un clima di preghiera e di ascolto reciproco” (Pordenone); “è identità” (Bolzano); “il centro è la Parola di Dio, anche simbolicamente” (Giaveno); “è fonte per abitare da cristiani la propria esistenza” (Marcon); è “attraversamento del deserto verso la libertà” (Uganda); è il luogo per un “incontro personale con il Signore” (Costa d’Avorio).

  • Come queste esperienze possono diventare un aiuto per la formazione di tutta la comunità? Vanno custoditi i legami di RECIPROCITÀ con la comunità cristiana (quella eucaristica, quella battesimale, quella legata ad un territorio),[15] perché lo stile formativo sia condiviso. È un passaggio delicato, talvolta lasciato all’improvvisazione; si tratta di riconoscere e sostenere alcuni “ponti”, sempre in continua costruzione, sui quali possiamo camminare insieme, per evitare chiusure reciproche. Solamente così queste esperienze di comunità di pratica non saranno minoranze “contro” o “a parte”, ma minoranze “per”.[16]

Nelle nostre esperienze, sono nati alcuni “ponti”; altri li abbiamo intravisti.

  • Un nuovo modo di vivere la liturgia: “il gruppo famiglie si confonde nell’assemblea; è nata l’idea del bar al termine della Messa” (Pordenone); “l’obiettivo è che tutta la comunità preghi; la proposta è per tutti, intergenerazionale; la piccola comunità è stata motore di una più grande” (Giaveno); “come i riti parlano alla vita e come la vita parla ai riti?” (Lanciano); “coinvolgimento dei bambini nella festa delle Palme e nel Triduo pasquale” (Villatora);
  • Occasioni nuove di fraternità: “le scuole educano i genitori a stare insieme, diventano modello educativo alla propria comunità di appartenenza; grande festa della comunità, teatro, passeggiata dell’amicizia” (Villatora).
In conclusione, due sfide

Accompagnare i ministeri secondo il proprio ruolo

«Nell’obbedienza al mandato di battezzare la comunità cristiana si trova così impegnata ad attivare una duplice ministerialità: da un lato, è chiamata ad annunciare l’iniziativa gratuita del Signore verso tutti, anzi a riconoscerla in anticipo rispetto alla propria azione; dall’altro lato, deve servire e accompagnare la risposta della libertà di ciascuno, secondo passi graduali e coerenti, in modo da condurre a vivere l’identità del cristiana nel mondo di oggi».[17]

Sostenere i luoghi educativi già esistenti

Molti cercano di crescere nella fede senza il sostegno di una rete amicale e familiare. D’altro canto, molte persone vivono la prima comunità di apprendimento in famiglia e tra gli amici. Ci è chiesto certo di favorire luoghi che siano autentici “bagni ecclesiali”, ma allo stesso tempo ci è chiesto di sostenere la responsabilità in ordine all’annuncio delle famiglie o dei luoghi educativi, come la scuola, perché qui le persone passano la maggior parte del proprio tempo.[18]


[1] P. Zuppa, Chiesa e comunità di pratica. Una sfida per l’oggi, in Associazione italiana catecheti – Istituto pastorale pugliese, Apprendere nella comunità cristiana. Come dare “ecclesialità” alla catechesi oggi (a cura di P. Zuppa), Elledici, Leumann (TO) 2012, 209.

[2] Il lavoro si sviluppa secondo le coordinate riportate in Francesco, Esort. Ap. Veritatis gaudium (29 gennaio 2018), in part. n. 4.

[3] Cf. U. Sartorio, Immaginare il futuro del cristianesimo in Occidente. Quali proposte? II, «La Rivista del Clero Italiano» 101 (11/2020) 771.

[4] G. Alessandrini (a cura), Comunità di pratica e società della conoscenza, Carocci editore, Roma 2007, 37.

[5] Cf. Alessandrini (a cura), Comunità di pratica e società della conoscenza, 25.

[6] D. Lipari – P. Valentini, Pratiche di comunità di pratica, Piemme edizioni, Nepi (VT) 2021, 27.

[7] Lipari – Valentini, Pratiche di comunità di pratica, 54.

[8] J. Mikulášek, Chiesa come “comunità di pratica”. Ecclesiologia cattolica in dialogo con Etienne Wenger, Aracne, Canterano (RM) 2019, 7.

[9] Mikulášek, Chiesa come “comunità di pratica”, 92.

[10] Cf. G. Cito, Risonanze dalla prassi. Ovvero come/quando non apprendere, nella comunità cristiana, in Associazione italiana catecheti – Istituto pastorale pugliese, Apprendere nella comunità cristiana. Come dare “ecclesialità” alla catechesi oggi (a cura di P. Zuppa), Elledici, Leumann (TO) 2012141-148.

[11] L. Vantini, Educazione, In Dialogo, Milano 2022, 132.

[12] «Occorrono dei nuclei caldi di vita comune che pensano la chiesa del futuro, la immaginano e provano a metterla in atto secondo un sogno condiviso (…). Si tratta di punti di condivisione della chiesa: la postmodernità di Z. Baumann sembra ormai essere passata allo stato di vapore. Le nostre parole su Dio e su Gesù, anche quelle più calde, si perdono nell’aria e spariscono insieme a mille altri messaggi. Bisogna che da qualche parte esse condensino in esperienze di prossimità o di vita condivisa, capaci di dire continuità, non provvisorio, qualcosa che dia radici e stabilità anche alle nuove generazioni». G. Ziviani, Il cammino e le prospettive delle chiese trivenete, «Studia Patavina» 59 (2/2012) 420.

[13] Cf. M. Nardello, La leadership episcopale e presbiterale nei documenti del Vaticano II: un cambiamento insufficiente?, «Rassegna di Teologia» 62 (2021) 411.

[14] Al cuore dell’annuncio della fede sta un evento: Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio. Questo fatto «è già iscritto nel cuore dell’umano, e proprio laddove il richiamo di verità, come una scrittura indelebile, si impone, silenzioso, ma attendendo una voce, bisognoso di un suono per non rimanere nel silenzio. C’è bisogno oggi di restituire al Vangelo il suo legame con l’evento. C’è bisogno, nella pratica ecclesiale, di restituirgli, prima di tutto, la sua forza di ispirazione. Il Vangelo ispira umanità vera, apre percorsi di vera umanità». S. Currò, Giovani, Chiesa e comune umanità. Percorsi di teologia pratica sulla conversione pastorale, Elledici, Torino 2021, 134.

[15] Cf. Castellucci, «Una carovana solidale». La fraternità come stile dell’annuncio in Evangelii gaudium, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2018, 34-39.

[16] «Noi siamo nati come lievito; nel tempo siamo diventati pasta; diventando pasta (cristianesimo sociologico) abbiamo perduto la forza lievitante. Il Signore sta riconducendo la sua Chiesa a vivere come una minoranza. La tentazione può essere quella di ripiegarci in una minoranza “setta”, cioè “a parte” della storia della cultura o peggio una minoranza “contro”. Come essere minoranza lievito e non minoranza setta o minoranza contro? Questa è la posta in gioco. È su questo punto si gioca il futuro della fede cristiana». E. Biemmi, La prospettiva missionaria. Una chiave per la conversione della catechesi e della pastorale, «Catechesi» 84 (1/2014) 6.

[17] G. Laiti, Iniziazione cristiana: le scelte qualificanti, «Credere oggi» 44 (2/2024) 106.

[18] Cf. J. Molinaro – I. Morel, L’initiation chrétienne: un processus dans une communauté d’apprentissage, in E. Biemmi – A. Fossion – V. Patigny – G. Routhier (sous la direction de), Un Église se lève. Figures d’avenir, Edition jésuites- Novalis, Montréal 2024, 203.

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Un commento

  1. Tiziano Civettini 19 giugno 2024

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