Sono gli eventi quotidiani di un tempo che cambia continuamente a riportare a galla, di tanto in tanto, l’evidente crisi della fede che segna il vissuto delle nostre società occidentali, insieme al diffuso sentimento di indifferenza religiosa e di distanza dall’istituzione ecclesiale che si respira ormai in mezzo a noi.
Come brace sotto la cenere, però, emerge anche la forza del Vangelo, anche se lo fa con lo stile che gli è proprio: sotto traccia, con la mitezza di un fiume carsico che scorre lento, nella forma del lievito e del seme. E si tratta di spunti, di stimoli e di riflessioni che vengono a inquietare il perbenismo della nostra religiosità innocua, per darci la sveglia.
Viene da chiedersi se l’agenda della vita ecclesiale – in Italia e altrove – sia ancora in tempo ad accogliere questo anelito di rinnovamento e di riforma che sale dal cuore della vita della Chiesa e che papa Francesco stimola e traghetta con determinazione. Ma intanto siamo qui, e vale la pena soffermarci su alcune questioni e su alcuni segnali.
Fine della cristianità
Ce ne sono molte di questioni ma, per offrire una visione sintetica, possono essere raggruppate in due tesi di fondo: la fine della cristianità e la scarsa recezione del Concilio Vaticano II.
La cristianità è finita. In ordine tempo, uno degli ultimi ad affermarlo è il filosofo Massimo Borghesi, che analizza con grande lucidità la diffidenza nei confronti del pontificato di Francesco, quella della destra neoconservatrice ma anche quella di settori più progressisti.
Di certo, l’antico mondo culturale nel quale la religione abitava a pieno titolo, plasmando la coscienza personale e collettiva e influenzando le istituzioni e le forme del vivere sociale, è definitivamente tramontato. Se Nietzsche ne fu precursore con l’annuncio de «la morte di Dio» ne La Gaia Scienza, non sono mancati anche in ambito teologico riflessioni di notevole spessore sul tema.
La novità degli ultimi tempi è rappresentata però dalla figura e dal magistero di papa Francesco che, già con Evangelii gaudium, ispira e invita a un cambio di paradigma: da un cristianesimo della resistenza a un cristianesimo dell’immaginazione. Infatti, chi presuppone un mondo, una società e un tessuto familiare e sociale ancora cristiani, di fatto resiste: pensa che, in fondo, la Chiesa e la sua pastorale abbiano bisogno solo di qualche ritocco estetico e di qualche aggiustamento formale, senza mettere in discussione le strutture e le forme del credere ecclesiale.
Papa Francesco ha un altro paradigma: una Chiesa e una pastorale audaci per una «nuova immaginazione del possibile». Lo ha indicato dall’inizio, parlando di conversione pastorale in chiave missionaria ma, a quanto pare, ampi settori della vita ecclesiale non si preoccupano di accogliere Evangelii gaudium e di farne un’ermeneutica per il rinnovamento pastorale.
Un Concilio non ancora recepito
Il Concilio Vaticano II non è stato ancora recepito. Può darsi che una tale affermazioni appaia generica e superficiale, oppure viziata da una visione polarizzata e ideologica. Al netto di questo, però, il problema rimane. Serena Noceti ne ha scritto su Concilium, affermando che Evangelii gaudium ci provoca a misurarci con la nuova visione ecclesiologica emersa nel Concilio Vaticano II: il superamento dell’eurocentrismo e la «decentralizzazione» istituzionale necessaria all’evangelizzazione e alla missione.
Ciò impone non solo dei ritocchi, ma una riforma strutturale: e – afferma la Noceti – non basta cambiare le idee o le norme, ma «deve essere ridisegnata la forma relazionale e promosso un cambiamento nell’istituzionalizzazione delle relazioni ecclesiali». Non si può sottovalutare, cioè, il livello delle strutture sociali e relazionali della Chiesa, con annesse le forme di governo e la gestione del «potere».
E su questo, è inutile girarci intorno: abbiamo il coraggio profetico di Francesco, tante buone intenzioni, ma due grandi zavorre, il clericalismo e il maschilismo. Una normativa «a imbuto» che, anche nelle questioni di vita ecclesiale e perfino in quelle di competenza laicale, pone al vertice della piramide solo chi ha il sacramento dell’ordine, con grave danno che ricade anche sui preti stessi.
E ciò produce a catena, anche quando ciò non è direttamente imputabile all’intenzione dei singoli (e proprio per questo invoca una riforma strutturale), due questioni che continuano a penalizzare di non molto la vita della Chiesa e l’immagine che offre di se stessa alla società odierna: l’esclusione dei laici e quella delle donne.
Presenza ecclesiale
Alcuni segnali non mancano e sono piccole luci nella notte dell’universo ecclesiale attuale, utili per immaginare senza paura la Chiesa del futuro.
Un primo spunto ci è offerto dalla lettera dell’arcivescovo di Torino, mons. Roberto Repole (cf. qui su Settimana News), che lascia ben intravedere uno stile e una forma di Chiesa diocesana su cui ci si vuole incamminare. L’obiettivo di fondo contiene già un elemento decisivo: ripensare la presenza ecclesiale sul territorio.
Repole afferma che occorre «prendere sempre più profondamente coscienza che la nostra società non è più “normalmente cristiana”. Eppure, noi siamo ancora strutturati – a partire dalle nostre parrocchie – nell’implicito che tutti siano cristiani».
Ne deriva un serio ostacolo all’evangelizzazione e alla missione della Chiesa che l’arcivescovo descrive con straordinaria chiarezza: nella convinzione di trovarci nel mondo «cristiano» di prima, a diversi livelli investiamo risorse in attività pastorali tradizionali che ci sembra non portino frutto, «laddove si tratterebbe di osare qualche percorso nuovo», investendo altrove.
Da qui le domande, che in realtà dovrebbero impegnare tutta la Chiesa italiana, specialmente in tempo di Sinodo:
«Dobbiamo continuare a mantenere semplicemente tutte le infinite strutture di cui beneficiamo (locali, case, chiese, oratori…) anche se invece che servire a vivere una vita cristiana ed ecclesiale autentica ed essere degli strumenti per l’evangelizzazione costituiscono un peso insopportabile…? Possiamo continuare a mantenere tutte le parrocchie, immaginando che vi si svolga tutto quello che vi si svolgeva nel passato, chiedendo ad un prete che invece di essere parroco di una comunità lo sia di diverse, senza però cambiare nulla? Come si può immaginare, facendo così, che i preti possano vivere una vita serena, possano trovare il tempo per coltivare la preghiera e la lettura e offrire un servizio qualificato, possano trovare la giusta serenità per incontrare le persone…?».
La sfida è lanciata: c’è urgenza di «ipotizzare modi nuovi di essere Chiesa nel territorio, di avanzare proposte per “cammini sperimentali”». Ciò è possibile solo nella corresponsabilità ecclesiale. Fino a che restiamo nell’imbuto di cui sopra – con il prete e i preti al vertice di tutto, solitari condottieri di una carovana di esecutori passivi – si potrà sperimentare ben poco.
Ministero inclusivo
Illuminante, in tal senso, un altro contributo di questi giorni, scritto da Assunta Steccanella («“Anche”. Preti, parrocchie, laicato», cf. qui). Pensando alla Chiesa di oggi e di domani, alcune divagazioni attorno alle nuove nomine e ai trasferimenti dei preti: di ciascun «don» si dice che è stato nominato qualcosa ma anche qualcos’altro. E in questo «anche» si dice tutto: «spazi da abitare, sempre più persone da curare, sempre più cose da fare, concentrate nelle mani di un numero sempre minore di soggetti, più precisamente preti».
E – finalmente una lettura che sia anche compassionevole e non solo giudicante – «la moltiplicazione dei loro incarichi, che non rallenta, li espone, quando bene, all’impossibilità di essere pastori come vorrebbero, costretti come sono a correre di qua e di là, trascurando molte cose o agendo in modo affrettato; quando va molto bene, li sottopone a un serio rischio di bornout».
Questa pastorale non ha futuro, a meno che non si dia a questo «anche» un significato diverso: «Don S. mantiene l’incarico di direttore… anche i tre ministri istituiti – la lettrice N., l’accolito P., il catechista R. – saranno corresponsabili per la vita della parrocchia». E l’autrice continua con altri esempi, immaginando altre nomine diocesane e parrocchiali in cui un prete viene nominato, ma «insieme a»: un «anche» che diventa finalmente inclusivo di ministri istituiti, catechisti, famiglie suore, laiche e laici.
Viene quasi da chiedersi, col cardinal Martini: come mai la Chiesa non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?
Tutti sanno che il “dio” di cui Nietzsche ha annunciato la morte è quello del platonico “mondo reale dell’Iperuranio”, con i suoi valori “fissi dall’eterno” perché coincidenti con le Idee eterne. La cosa riguarda il cattolicesimo tanto più direttamente quanto più la religione cattolica ha sposato la mentalità greca traducendo il Vangelo cristiano con una lingua determinata (prima il neoplatonismo, poi l’aristotelismo). Il processo di inculturazione della fede lo esigeva e l’opera fu compiuta egregiamente (si pensi ad Agostino e ad Alberto Magno, maestro di Tommaso), ma anche parzialmente: non si è intravisto infatti l’opera di feedback della mediazione culturale greca della fede cristiana, cioè quel necessario “taglio del sicomoro” già presente in Basilio e divulgato ai tempi nostri da J.Ratzinger-Benedetto XVI. Ogni autentica inculturazione del Vangelo esigeva infatti una mediazione culturale, ma anche, contemporaneamente e simultaneamente, una “traduzione credente della cultura” (come Nicea ha mostrato con Ario).
Se questa analisi tiene nella sostanza, non dovrebbe ora esserci una vera preoccupazione per la cosiddetta “fine della cristianità”: essa infatti esprimerebbe soltanto l’imbuto (per usare la bella metafora di Cosentino) che deve essere necessariamente distrutto affinché le energie vitali del Cristianesimo si possano liberamente espandere come “onde irrefrenabili”. Quell’imbuto non tocca per nulla il Vangelo, ma soltanto una sua progressiva estenuazione attraverso un linguaggio ormai desueto. La fine della cristianità dice la fine di quel linguaggio.
È per questo che ritengo oggi possibile un dialogo culturale con “sistemi di pensiero” ritenuti oltremodo incompatibili con il cristianesimo (penso all’eternalismo veritativo di un Emanuele Severino). L’incompatibilità infatti scatterebbe per l’incestuoso rapporto del cristianesimo con lo “scacchiere linguistico e metafisico” greco. Con questo- è chiaro- non si dovrà “buttare il bambino con l’acqua sporca” e perciò non bisognerebbe indulgere troppo nella critica implacabile alla tanto vituperata onto-teologia greca, quanto piuttosto “rifondare quella metafisica a partire dell’immaginazione evangelica della realtà”. Grandi passi si stanno facendo con la cosiddetta “metafisica della carità”, già per altro abbozzata nella Teosofia del Rosmini. Urge ora tradurre queste istanze (o armoniche) teologico- filosofiche in un linguaggio popolare che aiuti il rinnovamento della pastorale e la riconfigurazione della presenza della Chiesa nel mondo, affinché meglio possa splendere la bellezza umana del cristianesimo, cioè la bellezza umana di Cristo e del suo Dio, l’Abbà della comunione agapica eterna nello Spirito santo.
Un grande lavoro di immaginazione pastorale e teologica può dischiudersi, perché se è vera l’esistenza della “prima generazione incredula” (A. Matteo) e anche vero quanto l’indagine Generetion What ha dimostrato: l’incredulità dei giovani non è “ateismo”, ma piuttosto “apateismo”… al bivio tra teismo e ateismo c’è il trivio con l’apateismo… indifferenti e apatici i giovani rispetto alla domanda su Dio, potrebbero appassionarsi inaspettatamente di nuovo a questa domanda, se solo riuscissimo a parlare un linguaggio nuovo più testimoniale, se solo riuscissimo a “eccitare” una nuova immaginazione su Dio, attraverso una nuova “forma ecclesiae.
Grande lavoro aspetta tutti in una Chiesa in uscita che ritorna ad evangelizzare promuovendo carismi e ministeri laicali, oltre ogni forma di maschilismo e clericalismo, nell’attuazione della ecclesiologia di comunione del Conclio Vaticano II guardando in avanti, senza nostalgie di inutile indietrismo(Francesco).
Mi scuso per qualche refuso.. ma ho scritto di getto dopo aver letto questo interessante articolo di F.Cosentino, mentre lo ringrazio per lo stimolo a pensare frutto del suo amore per la missione della Chiesa. +Don Tonino Staglianó
Più che paura, io credo sia la forma mentis clericalista che inibisce consapevolmente o inconsapevolmente ogni possibilità di riforme strutturali. E’ una tara culturale che non consente di modificare la dottrina, le norme canoniche, la liturgia. In taluni soggetti ed in taluni ambiti della chiesa non si riconoscono le criticità che affliggono le nostre comunità. E’ carente, se non del tutto assente, la capacità di autocritica. In interi episcopati, in larghissimi strati del clero, è come se il rinnovamento conciliare non fosse mai pervenuto. E temo addirittura che il CVII sia stato pure boicottato. E’ del tutto ovvio che la base della piramide sia stata mantenuta in una condizione di ignoranza e di subalternità. Papa Francesco si spinge ad affermare che il clericalismo “non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente” (Lettera al Popolo di Dio – 20 agosto 2018. Il futuro della chiesa è nelle mani dei vescovi e del clero in genere. Nella loro disponibilità alla conversione.
Certamente,
In realtà l’unico sacerdozio che vale è quello universale dato dal battesimo.
Il resto è un’invenzione clericale e già Lutero l’aveva capito.
Allora via diaconi, preti e vescovi e avanti con consigli pastorali eletti dal popolo ogni cinque anni sulla base di programmi ben definiti.
Sarebbe la soluzione perfetta.