Uno dei compiti più delicati della guida di una comunità cristiana è la gestione dei processi pastorali, cioè di quei percorsi di discernimento e di cambiamento portati avanti da diversi soggetti ecclesiali che hanno come obiettivo la riqualificazione dell’azione pastorale di una comunità o di una Chiesa locale.
Tra i diversi atteggiamenti problematici di un pastore o di un operatore pastorale che gli impediscono, o almeno gli rendono molto difficile la promozione e la gestione di tali processi, vi è quello che potremmo definire “abitudinarietà”, intesa come tendenza preconcetta e acritica a dipendere sistematicamente dall’abitudine e a limitarsi quindi a ripetere quanto si è detto e fatto in passato.
Sul fronte ecclesiale questa mentalità si manifesta, ad esempio, come la propensione a trasmettere il contenuto della fede più o meno con le stesse parole e modalità che sono state impiegate nei decenni passati, o a mettere in campo le medesime strategie pastorali che, in quegli stessi anni, si sono dimostrate fruttuose, come se nulla fosse cambiato da allora.
Quando questo stile incide molto pesantemente sulla personalità di un pastore o di un operatore pastorale che ha una certa responsabilità, determina alcune conseguenze molto spiacevoli nella vita della loro comunità. In particolare, i contenuti trasmessi nella predicazione o nella catechesi risultano essere sempre gli stessi, come pure le modalità della loro comunicazione, per cui ambedue si trasformano in cose scontate e noiose che non edificano nessuno e non suscitano alcun interesse.
Si determina infatti quella situazione che gli studiosi chiamano “comunicazione tautologica”: il pastore o l’operatore pastorale insegnano cose che qualunque altra persona della loro comunità potrebbe dire altrettanto bene – o forse meglio – perché le ha già sentite infinite volte, per cui nessuno si aspetta dalle loro parole un impatto positivo sulla propria esperienza di fede.
Usando una metafora forse un po’ banale ma molto espressiva, potremmo dire che, in questo caso, si realizza una sorta di “predicazione a cucù”. Come l’uccellino di legno dei noti orologi a muro esce dalla sua sede in tempi prevedibili per dire ciò che tutti più o meno sanno già – cioè, lo scoccare dell’ora –, e poi ritorna al suo posto senza alcuna interazione con i presenti, così fa il pastore o l’operatore pastorale fortemente segnato dalla abitudinarietà: prende la parola nei momenti prestabiliti (omelie, catechesi ecc.) per dire cose scontate e ripetute all’infinito, per poi ritirarsi nel suo mondo sempre uguale a se stesso senza lasciarsi minimamente interpellare dal silenzioso grido di disagio e di noia che sale dai suoi ascoltatori…
Soprattutto, poi, questo stile pesantemente abitudinario tende a inibire fortemente i processi pastorali. Questi, infatti, servono a mettere in discussione, alla luce del Vangelo, le teorie e le prassi del passato, e ad orientare verso nuove prospettive. Se, però, si vuole restare ancorati a quel passato a qualunque costo, si cercherà di far fallire questi processi, o più semplicemente di prolungarli all’infinito in modo che non portino da nessuna parte. In effetti, quando i processi pastorali non arrivano mai a conclusioni operative, oppure se ne attivano continuamente di nuovi senza mai portare a termine quelli in corso, forse c’è di mezzo qualcuno che si sta muovendo nello stile abitudinario in esame.
E proprio il fatto che situazioni del genere non sono così rare anche nelle nostre comunità spiega come mai oggi, quando si deve dare inizio ad un nuovo processo pastorale, occorre anzitutto fare un grosso sforzo di comunicazione per convincere le persone che si vorrebbero coinvolgere che esso non sarà un perdita di tempo, ma che sarà effettivamente capace di incidere sulla prassi.
Ma perché questo stile abitudinario può arrivare a incidere così tanto nella vita di un pastore o di un operatore pastorale? La motivazione che determina questo atteggiamento è data probabilmente dalla fatica o dall’incapacità di accettare il cambiamento, anche relativo al modo di pensare la fede, di trasmetterla e di celebrarla. In effetti, l’attaccarsi al passato dà un senso di sicurezza a persone che, per qualche ragione, si sentono deboli all’interno della cultura del nostro tempo e si ritengono incapaci di pensare, vivere e comunicare la fede al suo interno.
Dunque, per superare questa situazione, occorre accettare che lo Spirito guidi i singoli credenti e le comunità cristiane verso una comprensione sempre rinnovata dell’esperienza cristiana e del suo modo di trasmetterla, anche servendosi delle caratteristiche e dei bisogni della cultura in cui esse vivono che, dunque, non vanno rimossi ma presi sul serio.
Per questo il cammino di una comunità, al pari del percorso spirituale personale, non può mai consistere nella mera ripetizione di quanto si è detto e fatto in passato, ma dev’essere capace di aprirsi alla novità.
Se è lo Spirito che ci spinge a lasciare le sicurezze di teorie e prassi dei tempi passati per affrontare percorsi nuovi, voler restare prigionieri di quelle abitudini significherebbe resistere alla sua azione.