Mi è sempre più difficile parlare, e parlare dei malati, quando essi per primi ci offrono la grande consegna del silenzio, che ci rimanda al silenzio eucaristico… Tuttavia ho accolto l’invito che mi è stato fatto, di condividere con voi tutti l’esperienza che stiamo vivendo a Bologna e provincia, e anche più recentemente, in alcune diocesi del Lazio, nella speranza che possa aiutare in particolare le nostre comunità, a riscoprire il valore salvifico del malato, e la sua insostituibile valenza profetica.
Il nostro volontariato (chiamiamolo così, ma più che un volontariato vorrebbe essere un impegno sociale di umanizzazione e di presenza accanto al malato), il nostro volontariato dunque vuole porre al centro il malato. Fondato sul mandato evangelico «andate, curate gli infermi», ma squisitamente laico, aperto a tutti, sia come soggetti che come destinatari. Malato e visitatore sono entrambi consolatori e consolati, dono reciproco d’amore e di comunione. Consolazione, grande dono di Dio, che scaturisce da un incontro vero tra chi si curva sul malato e chi è curato, nella certezza della presenza di Cristo in questa comunione profonda, che è l’antidoto alla solitudine… l’incontro è il rimedio alla solitudine.
In una esistenza piena di dialoghi, appuntamenti, scambi di opinioni e ritrovi, può anche darsi che non avvenga mai l’incontro. Perché non basta un incontro qualsiasi. L’incontro vero è cosa rara, non soltanto perché si è timidi o asociali, o perché si è insicuri. La questione è più sottile: noi tutti tendiamo a quell’incontro prezioso che si chiama amore. L’amore cambia tutto. Amore significa che altri si inseriscono nella nostra esistenza, ben accolti e in modo decisivo. Il cambiamento che consegue è, appunto, la fine della solitudine.
E chi ama non è più capace di vivere solamente per se stesso, solamente di se stesso. Tanto più ricco e fonte di grazie è l’incontro col malato, se sappiamo avvicinarci a lui contemplandone il mistero.
Sollevare la sofferenza
Sono grata al Signore di avermi messo da sempre in mezzo ai malati, vedo nella mia vita il dono di aver vissuto accanto a loro.
Lontana dalla fede, nella mia giovinezza avevo scelto di fare il medico per cercare di sollevare, attraverso una medicina in cui credevo, la sofferenza che avevo sperimentato nei miei cari. Ma ne ho visto ben presto il limite, mentre la domanda «perché?» avanzava sempre di più. Il limite umano proposto dal malato si apriva all’infinita misericordia di Dio, alla sua presenza di luce. Attraverso i malati sono arrivata a Dio, alla vita sacramentale che prima ignoravo…
Mi resi conto che, al di là del dolore fisico, c’era una solitudine, un dramma spirituale che se lasciato a se stesso poteva portare alla disperazione, alla negazione della vita fino al suicidio. Anche nelle migliori condizioni di assistenza medica e infermieristica, c’era un limite oltre il quale solo l’amore poteva portare sollievo, con la sua discreta, silenziosa presenza; un amore che sgorgasse da un cuore assetato di Dio, che vedeva nel malato un Cristo in croce, e contemplava in esso un mistero insondabile d’amore. Per cui l’incontro col malato diventava momento insostituibile di comunione, tra Cristo che si curva sul sofferente, e Cristo che è presente nel sofferente.
Sono profondamente convinta, anche per l’esperienza che ho vissuto, che la visita al malato sia la strada maestra per l’incontro con Dio. Lo affermo supportata anche dalle testimonianze di tanti santi, che nel malato hanno maturato la loro conversione (come san Francesco con il lebbroso). Del resto il Vangelo ci consegna il mandato: «Andate, curate gli infermi»; e «Va’. Anche tu fa’ lo stesso!». Non vorremmo rendere difficile questo mandato a chi, anche lontano dalla pratica religiosa, ne intravvede la fecondità.
Non il sacramento, ma la presenza
Poco più che trentenne, madre di quattro figli, ho abbandonato la professione di medico, per stare accanto ai malati, nell’ascolto e nella condivisione, aderendo all’esperienza di volontariato che il padre cappuccino Geremia Folli, allora delegato regionale per la pastorale della salute e cappellano all’Ospedale Maggiore, aveva iniziato a Bologna. Volontariato espressione di una Chiesa «in uscita», come si dice adesso, con l’accento fortemente laico, ma di un laico radicato nell’eucaristia; insomma, una presenza di Chiesa, ma non clericale (secondo l’insegnamento della Christifideles laici). Ponendo l’accento sull’annuncio evangelico a tutti.
Prendendo il malato come referente si superano i limiti, la distinzione tra quelli che chiamiamo vicini e i lontani, avendo ben presente che qualora il malato ci sembrasse «lontano» è perché noi, proprio noi, siamo «i lontani».
Il punto di riferimento diventa il fratello infermo: se siamo di fronte a un ammalato siamo di fronte a Cristo. La nostra scelta è di non privilegiare il sacramento, ma la presenza, scoprendo che Cristo ha individuato l’ammalato come primo referente del suo annuncio: «Una folla immensa lo seguiva per i segni che faceva sugli infermi», dice il Vangelo; ed evidenzia sempre che a questo annuncio sono quasi più interessati i lontani dalla pratica religiosa, sottolineando la distanza tra fede e religiosità… «era un samaritano».
Da allora, e sono passati più di trent’anni, non ho mai tralasciato la visita ai malati, se non per gravi motivi personali di salute: in loro ho trovato la perla preziosa, per cui lasciare ogni cosa … ma non potevo tenere per me tanta ricchezza: in collaborazione col diacono Benito, che era come me affascinato da questa scoperta, abbiamo coinvolto tante persone, decine, centinaia, migliaia. Come? Riportando negli ambienti più diversi la nostra gioia, invitando personalmente giovani e meno giovani a venire con noi.
«Li mandò due a due»
La visita ai malati in ospedale veniva e viene fatta in coppia, quasi professione e annuncio di comunione: questo inoltre permette di introdurre persone nuove e di iniziarle alle regole della struttura ospedaliera, mentre siamo convinti che la forza evangelizzatrice del malato, sostenuta dal fratello che accompagna, sia la più sicura e potente formazione spirituale e umana dei nuovi volontari, insieme con la vita sacramentale, che molti di loro riscoprono proprio attraverso la visita al malato.
Tanti volontari, infatti, lontani dalla fede, attraverso un semplice ed umile servizio di presenza, hanno riscoperto Dio e i sacramenti, si sono riavvicinati alla Chiesa, diventando una ricchezza preziosa per le loro stesse comunità: alcuni sono addirittura passati dalla fede islamica al battesimo cristiano. Sì, perché, purché ci sia un corretto atteggiamento umano, nessuno che lo desideri viene escluso da questa esperienza. Il volontario «anziano» (che può essere anche giovanissimo per età) prende per mano e accompagna in questo viaggio verso le profondità di Dio, che è il malato, il «nuovo», a volte titubante fratello, convinti che il Signore sia con noi e in noi («Li mandò due a due»).
Tutti i cristiani debbono esercitare questa missione, senza delegare a specialisti questa visita fatta con stile evangelico. Non vorremmo ridurre la portata universale di quel «va’ e anche tu fa’ lo stesso…», su cui del resto verterà l’ultimo giudizio della storia e – con tutte le nostre preclusioni – sbarrare la strada a chi desidera un’esperienza di verità e di concretezza in un mondo sempre più virtuale e superficiale.
Coi servizi sociali
Riporto brevemente, a conferma, un’ esperienza di collaborazione avviata con i Servizi minorili dell’Ufficio esecuzione penale esterna del Tribunale dei minori di Bologna iniziata in febbraio.
Su richiesta dei servizi sociali del Tribunale dei Minori, che seguono i ragazzi «messi alla prova» in attesa di giudizio o con giudizio sospeso, sono stati accolti sette giovani che, secondo le disposizioni del giudice, hanno obbligo di presenza in ospedale da una a tre volte la settimana, a seconda di altri impegni già in corso e comunque concordati (scuola, lavoro).
La richiesta di inserimento nel nostro gruppo (Volontariato Assistenza Infermi, VAI) è stata avanzata su segnalazione dei servizi sociali dell’Ospedale S. Orsola-Malpighi dalle assistenti sociali e dagli educatori dei servizi minorili, che considerando l’alto valore educativo della vicinanza al malato, hanno particolarmente apprezzato lo stile del nostro approccio, nel quale si valorizza la persona e si cerca di cogliere la profezia del malato, come maestro insostituibile di vita e di verità.
Va sottolineato come spesso siano proprio le realtà più «lontane», non clericali, quelle che colgono meglio la novità e l’autenticità di una proposta come la nostra. La cosa è già avvenuta, ad esempio, a livello regionale, con un riconoscimento formale dell’AUSL, sorprendente perché inatteso e non richiesto.
Andando noi abitualmente in coppia, anche con giovani (studenti, scout, aderenti al progetto scuola-lavoro), non c’è stato alcun problema di inserimento: sia i malati che il personale sono abituati alla presenza di giovani, anche minorenni, accompagnati e sotto la responsabilità di adulti. È un’opportunità preziosa di incontro e di integrazione intergenerazionale, così lacunosa nelle nostre realtà educative.
Conferme
Tornando all’esperienza coi minori, ciascun ragazzo è stato preso in carico da un tutor. La presenza dei giovani è stata vivamente apprezzata dai malati, anche quando l’aspetto dei ragazzi non era dei più… consoni all’ambiente ospedaliero (cosa che i ragazzi hanno capito da soli e modificato in seguito). Tanta è stata la gioia di vedere dei giovani accanto al proprio letto, tanta è la meraviglia che essi si interessassero di loro, dimenticati da molti o mal sopportati, che tutto il resto è passato in secondo piano. Nello stupore dei ragazzi, che hanno avuto occasione di recuperare lentamente un’autostima perduta.
L’esperienza è ancora in corso, ma ci conferma su alcuni punti:
▪ il valore insostituibile del malato nel percorso educativo e di crescita umana: perché, ci domandiamo, non favorire l’esperienza del limite e della sofferenza nelle comunità, nelle scuole, nei gruppi giovanili? Perché nella preparazione al matrimonio la sofferenza è del tutto ignorata?
▪ La condivisione della sofferenza e della solitudine, vissuta pur da angolazioni così diverse, aiuta ad aprirsi all’altro, all’aiuto reciproco, alla tolleranza, più che tanti discorsi;
▪ senza questi incontri autentici e accessibili a tutti, è difficile, in un mondo sopraffatto dal virtuale e dall’effimero promuovere una ricerca di bene e di assoluto che motivi scelte di vita positive: questi momenti, proponendo l’esperienza del limite e della fragilità umana, si rivelano propedeutici a qualsiasi altro tipo di impegno o percorso.
▪ tutti, proprio tutti possono visitare i malati e recare loro sollievo con la sola presenza silenziosa ed essere, quasi loro malgrado, annuncio di speranza e sollievo alla solitudine.
Come mai i frequentatori delle nostre comunità parrocchiali sono così restii a svolgere quest’opera di misericordia così semplice e accessibile, di cui abbiamo tanto bisogno per recuperare il nostro essere cristiani? «L’attenzione al malato è segno e misura della vitalità della comunità cristiana», scriveva già Giovanni Paolo II.
Papa Francesco invita la sua Chiesa a uscire verso gli ultimi, con uno stile di evangelizzazione suggerito dalle povertà che le si pongono davanti: noi abbiamo avuto il dono di essere strumento perché due povertà evangeliche (la solitudine del malato e la sofferenza della devianza giovanile fino al carcere) potessero incontrarsi ed essere reciprocamente illuminate dal Cristo che è in loro.
La profezia del malato
L’esperienza ci sta confermando in una scelta, che è quella dell’impegno ad avvicinare ai sofferenti in particolare bambini e giovani: abbiamo collaborazioni ormai ventennali con gruppi di catechismo di alcune parrocchie, che cerchiamo di allargare il più possibile, incontrando tuttavia sempre maggiori difficoltà culturali. D’altro canto, questo «andare» è annuncio, è testimonianza di una Chiesa «in uscita», è proclamare senza parole la dignità dell’uomo anche debole, malato o demente, è infondere speranza in chi ormai crede di non valere più nulla, nei suoi familiari che vivono l’esperienza dell’abbandono, nel personale che lo cura, che si sente spesso trascurato e non capito nei suoi sforzi di bene.
Purtroppo però, come accennavo, le nostre comunità sono sempre più indifferenti alla profezia del malato. Sia perché sedotte dal mito di una medicina onnipotente; sia perché attratte da un assistenzialismo gratificante e autoreferenziale. Sono sempre meno le comunità cristiane che si interrogano sul senso della sofferenza, correndo il rischio di proporre un cristianesimo senza croce e abbandonando i cristiani a una croce senza Cristo, baratro aperto sulla disperazione.
Manca la profezia del malato nelle famiglie (manca l’educazione alla complementarietà) nei giovani e negli adulti (per aiutare a recuperare una scala di valori autentici non contagiati dall’efficienza…), nelle comunità («ero malato e mi avete visitato»). Del resto nel Vangelo la cura agli infermi è un elemento quanto mai persuasivo («una folla immensa lo seguiva per i segni che compiva sugli infermi»), è la novità dirompente del Cristo.
Il Dio della consolazione
La Chiesa celebra nella visita al malato la consolazione di Dio, una consolazione che inonda il visitatore e il visitato, e li fa crescere nella comunione. Era questa l’anima del momento offerto alla riflessione nella Giornata Mondiale del Malato istituita da Giovanni Paolo II (e attualmente ridotta spesso a mera memoria liturgica): una consolazione che sarebbe un grave impoverimento condizionare a talento o preparazione particolare. È una consolazione che richiede solo l’umiltà di credere di poter essere strumento di grazia e di misericordia, non per capacità proprie, ma perché Cristo è nel malato e ci manda e ci promuove a servirlo e a riempire il vuoto della sua solitudine con la forza del suo amore: «Va’, e anche tu fa’ lo stesso». Nessuno è escluso, nessuno può esserlo.
Proviamo a invitare con forza i nostri sacerdoti, le nostre comunità, i singoli cristiani, quanti sono alla ricerca di un senso della vita, della sofferenza e della morte a celebrare con fede e amore la «visita» al malato, così semplice, ma così ricca. Il Signore ci renderà, con la sua consolazione, il cento per uno e la gioia del cuore.
Concludo con la frase di un nostro volontario, che dopo una vita burrascosa era approdato al volontariato e attraverso il volontariato a una fede profonda: «Come ho fatto a non capire in sessant’anni quello che ho capito in un solo pomeriggio qui in ospedale?».
Alcune diocesi italiane hanno iniziato un cammino per riconoscere «un ministero della consolazione» da conferire a persone scelte e preparate, cui affidare la cura dei malati più gravi. Se, da un lato, questo può suscitare un certo interesse tra operatori pastorali, non si può nascondere, dall’altro, il grosso rischio che sia reso sempre più difficile a ogni cristiano (abilitato e inviato in virtù del suo battesimo) attuare il precetto universale del Signore («va’ e anche tu fa’ lo stesso»), che deve rimanere la via ordinaria offerta dalle nostre comunità. Si tratta di una preoccupazione più che fondata alla quale l’autrice ha inteso dare voce alla luce un’esperienza quarentennale della diocesi di Bologna. L’intervento che riprendiamo è stato tenuto al Convegno regionale di Pastorale della salute (Parma, 20 ottobre 2018).