L’attualità politica del 2016 in Africa non è troppo spesso sui giornali o nei siti web, ma ogni tanto si parla di elezioni politiche, soprattutto quando queste provocano crisi nei diversi paesi. È il caso delle elezioni presidenziali nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), che avrebbero dovuto aver luogo lo scorso anno e poi sono state cancellate, meglio non programmate, per prolungare così la presidenza di Joseph Kabila. Questo ha provocato delusione e disordini e molti morti.
Le elezioni sono sempre un momento delicato e spesso anche temuto. Le elezioni politiche che si sono svolte in Africa nel 2016 meritano di essere prese in considerazione, anche dal punto di vista dell’evangelizzazione e della missione della Chiesa che, bisogna ammetterlo, solo recentemente ha compreso l’urgenza della formazione politica dei cristiani, malgrado l’insegnamento sociale della Chiesa sia ormai abbastanza antico.
Una «frattura democratica»
Riflettendo sull’esito delle elezioni, gli osservatori notano una vera e propria «frattura democratica» tra l’Africa dell’Ovest e l’Africa centrale. Se all’Ovest le elezioni in Benin, nelle Isole di Capoverde e, più recentemente, in Ghana hanno suscitato l’entusiasmo degli osservatori politici, per il modo con cui si sono svolte, sono invece causa di giusta inquietudine in Africa centrale e orientale. Esse sono state contestate in Gabon, segnate da violenze in Congo-Brazzaville, oppure sono state semplicemente cancellate nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) e in Somalia. È vero che nella RDC esse sono state nuovamente “promesse” grazie al dialogo tra l’opposizione e il governo di Kabila, patrocinato e promosso dalla Conferenza episcopale del paese, dopo mesi di violenza soprattutto nella capitale Kinshasa.
Questa diversità tra le due Afriche appare anche a livello di sotto-regione. La Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (CEDEAO) mantiene una posizione molto ferma nei confronti del presidente del Gambia, Yahya Jammeh, un despota al potere da vent’anni, che brilla per la sua politica corrotta e che ha riempito le prigioni di oppositori, mentre nell’Africa centrale i mediatori designati dalla Comunità dell’Africa orientale (EAC), nella persona prima del presidente dell’Uganda Museveni, e poi dell’ex presidente della Tanzania Mkapa, difendono l’insostenibile legittimità del presidente del Burundi, Pierre Nkurunziza, contro l’opinione di quasi tutti gli organi internazionali.
«Autoritarismo e brutalità»
La «frattura democratica», il diverso atteggiamento nei confronti della legalità politica possono essere spiegati a partire da diverse letture dei fatti. Lo storico senegalese Mamadou Diouf, professore alla Columbia University di New York, vi vede la conseguenza di differenti «percorsi storici». Egli scrive infatti che «l’amministrazione coloniale ha agito in modo molto diverso nelle due regioni. In Africa occidentale il sistema coloniale ha permesso agli africani di evolvere e di aprire spazi d’espressione che non ci sono stati in Africa centrale dove sono prevalsi l’autoritarismo e la brutalità. In seguito, al momento dell’indipendenza dei diversi stati, le grandi crisi in Africa occidentale hanno dato origine a classi politiche capaci di negoziare in vista di trovare delle soluzioni ». L’Africa centrale, invece, è piombata molto presto in una serie di ricorrenti guerre civili, segnate dall’intervento delle forze armate. «Molti militari o capi di partito hanno preso il potere con un colpo di stato», spiega Christopher Fomunyoh, camerunese, direttore del think-tank americano, National Democratic Institute (NDI). «In Africa occidentale una simile generazione [di militari o capi di partito] sta scomparendo», continua l’osservatore camerunese, «mentre in Africa centrale molti ex militari si sono dichiarati democratici (!), ma conservano antichi riflessi militari e mettono in atto dei sistemi che frenano l’organizzazione di elezioni credibili».
L’eccezione del Niger
Come in tutte le regole, anche in questo caso ci sono delle eccezioni che confermano la «frattura democratica» del Continente. All’Ovest, se si mette da parte il Gambia, dove la personalità imprevedibile di Yahya Jammeh mantiene il paese nell’incertezza, l’eccezione riguarda il Niger. Lo afferma Christian Bouquet che dal suo laboratorio Les Afriques dans le Monde della facoltà di Scienze politiche di Bordeaux, esamina la «credibilità» delle elezioni africane. Egli ritiene che il secondo turno delle elezioni presidenziali del 22 marzo scorso in Niger sia stato «surreale» a causa dell’imprigionamento del leader dell’opposizione Hama Amadou e dell’introduzione del «voto di testimonianza». E commenta: «Non si spiega come il presidente Mahamadou Issoufou possa aver avuto tanti suffragi espressi (92,4%). Questo è il punto nero dell’Africa occidentale e noi l’abbiamo registrato come tale, sottolineando che quelle elezioni son sono state credibili».
In Africa centrale l’eccezione, che conferma la «frattura democratica» è invece la Repubblica Centroafricana dove le elezioni si sono volte senza violenze grazie all’aiuto degli organismi internazionali, anche se – bisogna ricordarlo – il primo turno delle legislative era stato annullato per brogli elettorali
L’importanza dei social network
Dopo quella che è stata chiamata la «primavera democratica» dei paesi del Nord Africa, dove aveva giocato molto l’uso dei social network per sollecitare la gente, soprattutto i giovani, a manifestare per la democrazia, oggi si tende a proibire l’uso di questi mezzi di comunicazione durante la campagna elettorale. Gli SMS e le reti sociali sono particolarmente controllati e proibiti in molti stati, come il Chad, l’Uganda, il Congo e il Gabon. «L’obiettivo è di stornare l’attenzione della comunità internazionale impedendo la circolazione dell’informazione», dice Julie Owono, direttrice dell’ONG Internet sans frontières. «Se si impedisce la circolazione dell’informazione, vuol dire che c’è qualcosa da nascondere. Questo vale per tutti i paesi, o perché ci sono da nascondere delle frodi elettorali o perché si vuole reprimere le manifestazioni popolari. Oggi il diritto dell’informazione digitale è fondamentale. Quando si taglia internet, è segno che si stanno per perpetrare cose ben più gravi», aggiunge la militante.
Questa repressione dell’informazione digitale delude senza dubbio quelli che pensavano che la democratizzazione della telefonia mobile e l’introduzione della biometria avrebbero prodotto in Africa un’era di trasparenza. Non è giusto tirare questo genere di conclusioni. Con Mamadou Diouf crediamo che «non è la tecnologia che cambia il mondo, ma la presa di coscienza e la mobilitazione popolare. E quest’ultima progredisce nettamente in Africa».
Questa è la speranza che dobbiamo coltivare. L’Africa si sta sempre più svegliando e non accetta più passivamente i capricci dei suoi governanti. Ma questo impegna tutti a proseguire nella formazione della popolazione, nell’impegno per la scolarizzazione e l’istruzione della gente in vista di farla crescere nella responsabilità politica. Il cammino è certamente ancora lungo, e varia da nazione a nazione, ma ormai i segni di questo risveglio sono visibili e irreversibili ovunque. Su questo cammino non sarà più possibile fare marcia indietro, anche se in questo momento i governi autoritari sembrano rialzare la testa.
Anche a livello di chiesa la formazione politica rimane una delle grandi sfide dell’evangelizzazione in Africa, come ricordava già vent’anni fa Giovanni Paolo II in Ecclesia in Africa n. 75: «Il programma di formazione includerà, in modo particolare, la formazione dei laici a svolgere appieno il loro ruolo di animazione cristiana dell’ordine temporale (politico, culturale, economico, sociale), che è impegno caratteristico della vocazione secolare del laicato. Non si mancherà, a questo proposito, di incoraggiare laici competenti e motivati ad impegnarsi nell’azione politica, nella quale, mediante un degno esercizio delle cariche pubbliche, potranno provvedere al bene comune e, al tempo stesso, aprire la via al Vangelo».
Il cammino da percorrere è ancora lungo…