Paura, ansia, smarrimento… Sono molte le parole che potremmo scomodare per definire il tumulto dei sentimenti che attraversano ciascuno di noi dentro un dramma tanto grande che ha investito l’umanità intera e, con una sconvolgente intensità, il nostro paese. Ci vorrà tempo per riflettere e metabolizzare il senso di tale tsunami e le sue conseguenze.
Ma, sin d’ora, ancorché in via provvisoria, a tentoni, avvertiamo l’esigenza di dotarci di una prima bussola. In questa prospettiva, mi sono appuntato qui un piccolo decalogo.
- Umiltà. È la prima parola che mi sento di proporre a me stesso. Dentro la bufera abbiamo letto e udito tante, troppe parole. Alcune anche sagge e stimolanti, altre stonate e fastidiose. Specie quelle intessute di presunzione e pronunciate a voce troppo alta, nel segno dell’esasperazione polemica. Mai come oggi mi è parso di avvertire che quel poco di verità che ci è dato di attingere in un tempo che scuote tutti i nostri paradigmi presuppone l’umiltà della ricerca. L’opposto di chi ostenta certezze.
- I limiti di un malinteso antropocentrismo, la vulnerabilità e la fragilità della nostra condizione umana. Ce n’eravamo scordati, ci eravamo illusi circa la nostra onnipotenza di uomini moderni. Del comando biblico abbiamo trattenuto il verbo “dominare” trascurando il verbo “custodire” (e i suoi corollari “rispettare” e “contemplare”). Abbiamo ignorato la circostanza che la natura è madre ma anche matrigna. Suppongo alludesse a questo papa Francesco quando, con il volto impietrito, ci ha ammonito a convertirci, ad aprire gli occhi su un mondo malato ma ignaro della sua malattia.
- Tale lezione non è affatto in contrasto con il richiamo a tenere in gran conto il portato della scienza e, segnatamente, della scienza medica per fronteggiare e sconfiggere la pandemia. Pur consapevoli dei limiti immanenti alla scienza: la sua fallibilità e il suo silenzio circa il perché metafisico della malattia e della morte. Così come i suoi limiti – se ne discute vivacemente – in rapporto al compito proprio della politica. Cui precipuamente compete assumere la decisioni mirate al bene comune. Ripeto: tenendo in gran conto dei dati e delle proiezioni degli scienziati, ma infine operando una sintesi che armonizzi varie esigenze, i molti beni in gioco.
- Si situa qui il “principio di precauzione”, una declinazione della virtù cardinale della prudenza. Merita rileggere come il Catechismo universale della Chiesa cattolica definisce quel principio: «Le autorità chiamate a prendere decisioni per fronteggiare rischi sanitari e ambientali talvolta si trovano di fronte a situazioni nelle quali i dati scientifici disponibili sono contraddittori oppure quantitativamente scarsi: può essere opportuna allora una valutazione ispirata dal “principio di precauzione”, che non comporta una regola da applicare, bensì un orientamento volto a gestire situazioni di incertezza. Esso manifesta l’esigenza di una decisione provvisoria e modificabile in base a nuove conoscenze che vengano eventualmente raggiunte. La decisione dev’essere proporzionata rispetto a provvedimenti già in atto per altri rischi. Le politiche cautelative, basate sul principio di precauzione, richiedono che le decisioni siano basate su un confronto tra rischi e benefici ipotizzabili per ogni possibile scelta alternativa, ivi compresa la decisione di non intervenire. All’approccio precauzionale è connessa l’esigenza di promuovere ogni sforzo per acquisire conoscenze più approfondite, pur nella consapevolezza che la scienza non può raggiungere rapidamente conclusioni circa l’assenza di rischi. Le circostanze di incertezza e provvisorietà rendono particolarmente importante la trasparenza nel processo decisionale» (n. 469).
- Fiducia nelle istituzioni, che sono di tutti, la casa comune. Tanto più dentro l’emergenza è saggio solidarizzare con esse, obbedire all’autorità legittima e a chi, pro tempore, la rappresenta, relativizzando il suo colore politico. Si possono discutere le sue determinazioni, non però applicarsi alla loro delegittimazione con critiche corrosive. Nei regimi democratici, viene poi il tempo dei bilanci e i cittadini potranno giudicare e sanzionare politicamente l’azione dei loro governanti. Ma intanto si deve portare rispetto a chi fa del suo meglio per fronteggiare una sfida che fa tremare le vene e i polsi.
- La presidente della Corte costituzionale ha osservato che la nostra Carta non menziona lo “stato d’eccezione”, ma che essa contempla norme atte a farvi fronte. È utilmente rigida nei principi e nei diritti, ma flessibile nell’applicarli alle situazioni. In concreto: sia negli strumenti normativi da ricondurre alla “riserva di legge” quando si è costretti a limitare libertà costituzionali (come la libertà di riunione o di movimento sul territorio nazionale); sia nella previsione di deroghe allorquando si ha a che fare con un’emergenza sanitaria (art. 16, 17, 32 Cost.); sia nello stabilire un compito di coordinamento del legislatore nazionale rispetto alle competenze regionali in tema di sanità.
- Abbiamo imparato che allo Stato spetta un compito di regolazione, di indirizzo, ma anche di erogazione di prestazioni universali come appunto nel caso del sistema sanitario nazionale. Una certa sussidiarietà malintesa (anche in campo cattolico) forse ha concorso a produrre derive verso una visione aziendalistica e corriva con interessi privati nel campo della sanità. Si pensi al modello lombardo decantato sino a ieri. I conflitti tra governo e regioni suggeriscono altresì di riflettere sull’opportunità, a tempo debito, di introdurre la “clausola di supremazia” in capo allo Stato che figura negli ordinamenti federali.
- Uno Stato regolatore e anche attivamente impegnato ad assicurare un welfare universalistico non potrà mai tuttavia sostituirsi ai cittadini e all’esercizio di un’etica della responsabilità personale e sociale che loro compete. La Fase 1 dominata da stringenti regole e divieti ci è costata sacrifici. E tuttavia la controversa Fase 2 che ora si apre e che ci tiene con il fiato sospeso per l’incognita di un nuovo picco dei contagi sarà vieppiù difficile. Ma soprattutto è affidata a noi assai più che ai pubblici poteri. A tutti e a ciascuno individualmente. Siamo noi a doverci dare la regola. Dunque, una più grande responsabilità. Che Dio ci assista.
- La pandemia ha investito il mondo intero. Le frontiere esterne sono state chiuse. Così anche quelle interne da regione a regione. L’istinto e un’intelligenza corta – perché negarlo? – potrebbero spingere a elevare e a cristallizzare i muri. Ma, basta riflettere un attimo, per comprendere che la globalità dell’epidemia prescrive la ricerca ancor più impegnata della cooperazione internazionale. Dalla ricerca dei vaccini e delle terapie, all’immane opera di ricostruzione delle basi dell’economia e della società che attende noi e i nostri figli. Il contrario del sovranismo. Del resto, checché ne dicano i miopi sovranisti nostrani, pur con i loro limiti, le istituzioni europee ci stanno dando una mano.
- Infine, la collaborazione tra Stato e Chiesa italiana. Si può confidare che l’incomprensione di un giorno sia alle spalle. Che il Concordato possa essere richiamato non per rivendicare la libertà di culto mai in discussione, ma per il suo positivo preambolo, laddove le due parti si impegnano a «collaborare per la promozione dell’uomo e il bene paese». Del resto, la Chiesa si è saggiamente uniformata alle disposizioni del governo non per soggezione o cedimento a un neo-giurisdizionalismo (una sciocchezza!), ma perché di suo sollecita della vita e della salute delle persone; e lo Stato, per parte sua, si è mostrato aperto a concordare con essa i modi per garantire le celebrazioni liturgiche in condizioni di sicurezza anche perché consapevole del valore della cosiddetta “laicità positiva”. Ovvero del positivo contributo delle comunità cristiane alla qualità etica e sociale della convivenza. Un buon esempio, in mezzo a tanti esagitati attori politici e istituzionali sordi al richiamo del presidente Mattarella a una ben intesa unità del paese dentro la prova più difficile dal dopoguerra.
Possibili vie del traboccamento
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