Abbiamo recentemente riflettuto su come un atteggiamento definito “equidistante”, o che comunque si limiti, come ha fatto il card. Bagnasco lo scorso 26 settembre a margine dei lavori della Conferenza episcopale italiana, a raccomandare genericamente ai cittadini di «informarsi di persona», rischi di essere per la Chiesa un approccio sterile.
Questa “equidistanza”, nel contesto che stiamo vivendo, rischia di essere un atteggiamento che in realtà non è “equo”, perché non invita neanche ad entrare davvero nel merito, ma genericamente ad informarsi (quindi, su altri referendum gli elettori potevano anche non informarsi di persona e votare come capitava? Mah…), ma che si rivela comunque “distante” dalla realtà odierna, nella quale invece sarebbe sempre più necessario, anche da parte della Chiesa, un orientamento civile.
Preso atto comunque di questo stato dell’arte e del fatto che difficilmente la CEI cambierà orientamento da qui al 4 dicembre, e preso atto che comunque ci sono altri “equidistanti silenti” come l’ex premier Romano Prodi, che pur aveva spinto nei suoi mandati governativi sulla necessità di agire verso una riforma costituzionale, prima di affrontare meglio nel merito il quesito referendario, preme rilevare qualche riflessione di contesto.
È indubbio che, per quanto si cerchi di spersonalizzare i referendum, l’orientamento di molti continui, impropriamente, ad essere se sostenere o sfiduciare il governo Renzi proprio in una delle sue riforme più importanti. Ma anche se si volesse continuare a tenere questo elemento personalistico (Renzi sì Renzi no) come inadeguato “driver” per una scelta, sarebbe perlomeno opportuno valutare il contesto in cui il Paese si trova, vale a dire valutare se è vero che l’Italia ha bisogno di riforme solo perché lo dice l’Europa o se questo è un dato oggettivo; o, ancora meglio, se non solo abolire il CNEL (cosa su cui si fa fatica a dissentire), ma anche intervenire sul bicameralismo perfetto post-bellico, sia uno sfizio “modernista” o una necessità per un Parlamento che legifera a colpi di “decreti legge” e non è in grado di approvare pressoché mai una legge di iniziativa popolare.
Meglio guardare avanti
Non c’è nessuno che pensi che la burocrazia sia virtuosa di per sé, né si sentono particolari proteste quando si varano semplificazioni che facilitano la vita ai cittadini limitando sprechi di denaro e di tempo, ma molte volte, quando si pongono in essere dei cambiamenti, anche le battaglie che sembrano più giuste e opportune, nel momento in cui toccano interessi particolari, diventano complicate… È l’enorme e perenne sfida del riformismo.
Fare riforme è spesso complicato quanto necessario. Ed è per questo che il referendum del 4 dicembre 2016 non viene da paragonarlo ai referendum su divorzio o aborto degli anni ’70, ma nemmeno a quelli sulla legge elettorale di Segni negli anni ’90. So di dare una visione originale e per questo ancor più opinabile di quanto già scritto fino ad ora, ma il referendum del 4 dicembre 2016 assomiglia, a mio modesto avviso, al referendum sull’abolizione della “scala mobile” del 1985.
I tempi sono diversissimi, sono passati più di trent’anni, siamo nell’era del web, ma… ora come allora il Paese si gioca l’osso del collo, ora come allora c’è qualcosa che, secondo alcuni, “non si tocca” (allora la “scala mobile”, ora la Costituzione), ora come allora c’è un premier che scommette il suo futuro su un referendum.
E su quest’ultimo punto potrebbero partire parallelismi impropri tra il premier di allora e quello di oggi che nulla hanno in comune se non l’allergica antipatia da parte di una sinistra che, più si definisce o si pone su posizioni “radicali”, più si mostra conservatrice o comunque diffidente verso qualsiasi cambiamento.
E, forse, ora come allora, il Paese si spaccherà in due, ma, anche se prevalesse un risultato di conservazione, difficilmente si potrebbe tornare indietro e pensare che le riforme costituzionali saranno affidate a Commissioni parlamentari inconcludenti composte da uomini del passato che guardano al passato. Perché, comunque sia, il contesto Paese è cambiato, noi non siamo più gli stessi e l’equidistanza su temi di questo tipo appartiene perlomeno al secolo scorso.