Il 4 luglio ho visitato Auschwitz con Fritzie Fritzshall, presidente del Museo dell’Olocausto dell’Illinois e del Centro di Formazione di Skokie, una sopravvissuta al campo di sterminio nazista.
«Come è potuto accadere?» mi ha chiesto poco dopo il nostro arrivo. «Come hanno potuto delle persone accanirsi così tanto contro il loro prossimo?». La mia prima reazione è stata di dire che effettivamente non c’è nessuna risposta al fatto che dei membri del genere umano possano essere così crudeli e brutali al punto da prendere di mira delle persone per sterminarle a causa del loro passato e della loro religione.
Ma questa non è un risposta soddisfacente. Una brutalità del genere non è insita nella natura umana, viene insegnata progressivamente attraverso la creazione di una falsa narrazione nei riguardi degli altri, che, poco alla volta, è accettata come vera.
Il best seller della saggistica scritto da Erik Larson «In the Garden of Beasts: Love, Terror and an American Family in Hitler’s Berlin» (Nel Giardino delle Bestie: amore, terrore e una famiglia americana nella Berlino di Hitler) apre una finestra unica per capire come si sviluppa una narrazione del genere. Larson si propone di mostrare il motivo per cui c’è voluto tanto tempo per riconoscere la grave minaccia che Hitler rappresentava per il mondo.
Egli racconta la storia di William E. Dodd, uno storico americano dell’università di Chicago, scelto dal presidente Roosevelt per essere il primo ambasciatore dell’America presso la «Germania nazista». Assieme alla sua famiglia rimase inizialmente affascinato dalla «Nuova Germania» che emergeva delle ceneri della prima guerra mondiale, vedendo un paese devastato dalla guerra pieno di energia, di entusiasmo e di eccitazione per un nuovo futuro.
Ma quando l’ascesa al potere di Hitler giunse a una crescente persecuzione contro gli ebrei, l’entusiasmo di Dodd si tramutò in paura. Egli telegrafò al Dipartimento di Stato dei resoconti di prima mano riguardanti gli attacchi contro gli ebrei, la censura della stampa e la promulgazione di nuove leggi che limitavano i diritti del popolo ebraico e delle minoranze. Si allarmò quando i suoi superiori mostrarono indifferenza nei confronti dei suoi comunicati. Le sue relazioni furono considerate troppo sensazionali per essere affidabili.
Descriveva anche come i suoi interlocutori nel governo nazista, Göring e Goebbels, usassero del loro prestigio per distrarre i suoi colleghi diplomatici dal terrore che stavano progettando e mettendo in atto. Le sue speranze iniziali di usare la ragione per dissuadere i nazisti dal loro regime di terrore si trasformò in disperazione, una disperazione che si accentuò quando molti che riteneva affidabili minimizzavano, tolleravano e persino ignoravano i crescenti atti di brutalità commessi dal regime nazista contro gli ebrei.
Ciò che apparve chiaro a Dodd fu che l’ascesa al potere di Hitler e le politiche che portarono all’olocausto si svilupparono attraverso tappe calcolate. Anzitutto si cominciò con l’uso di un linguaggio settario contro una minoranza. Ma esso fu ignorato dalla società perché inizialmente era usato da poche persone. Con il tempo altri ribadirono questo messaggio incrementando la sua credibilità. Pur non trovando appoggio nella società, il numero crescente conferì a questo linguaggio una parvenza di accettabilità.
La fase successiva giunse quando coloro che erano presi di mira furono chiamati l’«altro». L’«altro» divenne presto il capro espiatorio, responsabile – si disse – dei rancori della gente, specialmente pensando all’esperienza della sconfitta in seguito alla prima guerra mondiale.
Ciò consentì il diffondersi nella nazione di una narrazione secondo cui la grandezza si sarebbe potuta raggiungere solo con l’eliminazione di coloro che contrastavano quel sogno.
Dobbiamo ascoltare attentamente la domanda di Fritzie: «Come è potuto accadere?». Tutto cominciò con le parole. Parole che chiamavano le persone gli «altri», considerandole tali da incutere paura, e quindi, alla fine, una minaccia al prestigio della nazione che bisognava eliminare.
L’anno prossimo il mondo ricorderà il 75° anniversario della liberazione dei campi di sterminio che i nazisti usarono per imprigionare e sterminare 6 milioni di ebrei e innumerevoli altri. Abbiamo il dovere di non dimenticare mai coloro che perirono e le loro famiglie.
Ma dobbiamo farlo anche per noi stessi che viviamo in un’epoca che sta conoscendo un drammatico aumento di antisemitismo e di un linguaggio carico di odio. Lo vediamo nel barbaro assalto alla sinagoga di Pittsburgh, nella profanazione di cimiteri ebraici in Europa imbrattati di svastiche, nel discorso di odio che si diffonde rapidamente su internet collegando dei fanatici che la pensano allo stesso modo e nelle menti deliranti di coloro che continuano a negare la realtà dell’olocausto.
Sì, bisogna alzare la voce in difesa dei nostri fratelli e delle nostre sorelle ebrei. Ma come ci ricorda Jonathan Sacks, ex capo rabbino del Regno Unito: «L’odio che comincia con gli ebrei, non termina mai con gli ebrei». Dobbiamo mostrare la medesima intolleranza per i discorsi di odio che prendono di mira anche altri che sono facilmente emarginati nella società: – musulmani, migranti e rifugiati – allo scopo di alimentare la paura di coloro che si sentono insoddisfatti in un mondo che cambia.
Certo, non siamo negli anni ’30 dell’ambasciatore Dodd. Tuttavia ci sono delle somiglianze che non possono essere ignorate. Dobbiamo continuare ad essere vigilanti ed essere pronti ad alzare la voce. L’agghiacciante poesia del pastore luterano Martin Niemöller è un forte richiamo a ciò che è in gioco: «Prima di tutto sono venuti per i socialisti e io non ho parlato, perché non ero socialista. Poi sono venuti per i sindacalisti e io non ho parlato, perché non ero un sindacalista. Poi sono venuti per gli ebrei e io non ho parlato, perché non ero ebreo. Poi sono venuti per me, e non era rimasto nessuno che parlasse per me».
Oltre ad alzare la voce, dobbiamo anche sforzarci di insegnare ai nostri figli le lezioni del passato. Le statistiche dicono che circa il 60% dei nostri adolescenti oggi non hanno mai sentito parlare di Auschwitz o di nessun altro campo di sterminio dei nazisti. Spetta a noi insegnare ai nostri figli ad amare prima che altri insegnino loro a odiare.
Le statistiche dicono che circa il 60% dei nostri adolescenti oggi non hanno mai sentito parlare di Auschwitz o di nessun altro campo di sterminio dei nazisti.
Non so a che paese stia parlando, ma non è l’Italia: da noi la giornata della memoria viene ben celebrata (almeno prima della pandemia), con visioni di film, dibattiti, conferenze, che spesso non trattano solo della Shoa ma anche di altri genocidi, come Bosnia e Ruanda: il grido che si innalza è ‘mai più!’
Come può accadere che non ci siano commenti? Certamente un articolo che ci aiuta ad essere vigili su ciò che accade intorno a noi e a prendere posizione in difesa delle minoranze , perché può essere che un giorno quella minoranza potremmo essere noi. Certamente aiutare i nostri figli ad amare e aiutare piuttosto che odiare e scartare. Quello che sento in giro quando si parla di olocausto è quello del ” non posso vedere e sentire ” , ” mi fa troppo effetto ” , ” non riesco a guardare , basta vedere quelle cose” , ” ci basta il male che vediamo oggi ” ma così facendo neghiamo a noi stessi e facciamo come g gli struzzi. Grazie! Parliamone e ricordiamo perchè non debba riaccadere. Non dimenticare e non essere indifferenti come ci suggerisce la senatrice Liliana Segre.