Il calcolo di Macron

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Photo: Jan Woitas/dpa via AP

Il sondaggio elettorale continentale ha sostanzialmente confermato quello che i sondaggi pre-elettorali avevano anticipato. Da questo punto di vista, dunque, nessuna sorpresa.

Tra le prefiche del lunedì vi sono tutti coloro che non hanno colto l’onda lunga della “grande paura” del 2008, lo sgomento delle popolazioni dei paesi “ricchi” di fronte al rischio – anzi: alla certezza – di dover rinunciare a una parte dei privilegi accumulati nei secoli del loro dominio del mondo.

È noto che la paura di perdere quel che si ha è assai più dirompente della paura di non conquistare quel che non si ha ancora. E dà luogo a manifestazioni di ipocondria sociale, di ripiego su di sé e di cruda ostilità verso chi può essere facilmente additato come responsabile del tramonto del benessere. Da qui, il crescente successo dei populisti, banditori di facili soluzioni e procacciatori di facili capri espiatori.

Fin qui, dunque, niente di nuovo. Se non, forse, l’arretramento del partito di Viktor Orbán in Ungheria, del partito di Jarosław Kaczyński in Polonia e del partito di Robert Fico in Slovacchia, segno, forse, che promettere cose che non si possono mantenere, alla lunga, non paga.

Ma non bisogna farsi illusioni: più i debiti pubblici busseranno alla porta, più le pulsioni protezioniste si estenderanno, più le tensioni internazionali si aggraveranno e più si intensificherà nella massa elettorale la tendenza a prestar fede agli spacciatori di miracoli.

Troppa sorpresa

La vera sorpresa della giornata elettorale viene da Parigi: non per il risultato, previsto con sorprendente esattezza dai sondaggi da almeno sei mesi, ma per la decisione del presidente Emmanuel Macron di sciogliere l’Assemblea nazionale e di convocare le elezioni anticipate.

Siccome l’esito del voto era già noto da prima che gli elettori si recassero alle urne, è lecito pensare che la mossa sia stata dettagliatamente pensata e accuratamente preparata.

Ma prima di speculare su quali possano essere le intenzioni di Macron – esercizio sempre arduo, vista la sua tendenza alle svolte repentine – affidiamoci a qualche dato certo.

Innanzitutto, la vittoria del Rassemblement national (RN), l’ex-Fronte nazionale, non è poi così «storica», visto che il partito dell’estrema destra è arrivato in testa anche alle due elezioni europee precedenti.

Certo, le proporzioni sono diverse: nel 2014 aveva ottenuto il 24,9 per cento dei voti validi e nel 2019 il 23,3 per cento, mentre nel 2024 è arrivato al 31,5% (risultati provvisori), più del 36 per cento se si aggiungono gli oltranzisti dell’estrema estrema destra di Éric Zemmour et Marion Maréchal. Ma questo, tradotto in cifre reali, cioè tenendo conto degli aventi diritto, significa ha votato per l’estrema destra un francese su dieci nel 2014, 1,2 su dieci nel 2019 e 1,6 su dieci nel 2024 (1,8 con l’estrema estrema destra).

In termini di popolarità reale, siamo ancora lontani dal plebiscito o dalla valanga. In termini politici, però, l’impatto è forte, soprattutto se si tiene conto che il partito di Macron è stato votato da meno di 0,8 francesi su dieci, la destra «perbene», ex-gollista, da meno di 0,4 su dieci, e i socialisti – che celebrano il loro «ritorno» sulla scena politica – da 0,7 su dieci. I Verdi, solo da 0,25 francesi su dieci, conformemente a una psicologia sociale sempre meno orientata alle preoccupazioni ambientali e sempre più alle preoccupazioni militari – le due essendo difficilmente compatibili.

Quattro ipotesi sulla nuova cohabitation

Per passare dai dati certi alle speculazioni dobbiamo tener conto di una quasi certezza: le elezioni che il presidente francese ha convocato per fine giugno inizio luglio saranno vinte – questo sì, per la prima volta – dall’estrema destra. Il che vuol dire che Macron sa fin d’ora che sarà costretto alla cohabitation con un primo ministro del Rassemblement national. Muovendo da questa quasi certezza, si possono quindi avanzare quattro ipotesi, non necessariamente mutualmente esclusive.

Prima ipotesi: Macron non aveva altra scelta. Il suo mandato scade nel 2027 e già adesso non aveva la maggioranza in parlamento.

Era una specie di «anatra zoppa», come dicono gli americani, ma con la differenza che il presidente in Francia ha poteri molto più ampi del presidente degli Stati Uniti. In ogni caso, il percorso parlamentare della sua politica (si veda la seconda ipotesi) sarebbe stato sempre più difficile, fino alla possibilità di sue dimissioni.

Resta il fatto che, dopo il 7 luglio, la pattuglia parlamentare del partito di Macron sarà quasi sicuramente ancora più esile, e comunque di certo non maggioritaria.

Seconda ipotesi: Macron vuole passare la patata bollente della legge finanziaria 2025 a quelli che gli hanno fatto vedere i sorci verdi per la finanziaria del 2024.

Secondo alcuni economisti, lo stato dei conti pubblici è «il peggiore della Quinta repubblica» e il quotidiano l’Opinion del 10 marzo scorso stima a 20 miliardi di euro i tagli necessari. Il presidente potrebbe quindi scaricare su un governo e un parlamento ostili un fardello che, secondo alcuni, avrebbe provocato un’altra crisi politica e rotto comunque la schiena all’esecutivo in carica.

Il rovescio della medaglia è il rischio che un governo populista ignori i vincoli di spesa e vada allo scontro frontale con Bruxelles come aveva fatto il governo italiano tra il 2018 e il 2019.

Terza ipotesi: Macron punta direttamente alla coabitazione con l’estrema destra per cercare di addomesticarla, di facilitare la sua normalizzazione, di trasformare Marine Le Pen in una sorta di Giorgia Meloni francese, più compatibile con gli imperativi europei e internazionali di Parigi.

Persistendo caparbiamente con un governo minoritario fino al 2027, la vittoria dell’ex-Fronte nazionale contemporaneamente alle presidenziali e alle politiche nel 2027 avrebbe portato i dilettanti allo sbaraglio, con esiti probabilmente più simili a quelli inflitti dai dilettanti italiani al loro paese nel 2018-2019 che a quelli che li hanno poi rimpiazzati nel 2022.

Quarta ipotesi: Macron vuole aizzare Jordan Bardella (il ventottenne “leader” ufficiale del Rassemblement national) contro la sua mentore Marine Le Pen, separare il grano dal loglio e proseguire così la droitisation, lo spostamento a destra, del suo partito imbarcando la «parte sana» dell’RN.

Se così fosse, sarebbe un calcolo azzardato, oltre che meschino. Meschino, come tutti i calcoli di chi, sapendo di non poter vincere, punta a sabotare gli avversari. Azzardato, non solo perché rischia di non funzionare, ma anche perché la droitisation ha portato il partito di Macron dal 28,2 per cento dei votanti nel 2017 al 15,2 nel 2024, e l’estrema destra dal 13,2 per cento nel 2017 al 31,5 nel 2024 (più del 36 per cento addizionando i transfughi di Zemmour-Maréchal).

Stabilità o disordine?

Nell’annuncio televisivo della sera del 9 giugno, Macron ha affermato che «la Francia ha bisogno di una chiara maggioranza per agire con serenità e concordia».

Non poteva dire niente di diverso, certo; tuttavia, sembra più un wishful thinking che un programma, anche perché se la vittoria dell’RN il 7 luglio è quasi certa, è quasi certo anche che il partito dell’estrema destra non otterrà una «chiara maggioranza».

È molto più probabile che si estenda invece proprio quel «disordine che vi sconcerta e vi preoccupa» cui Macron asserisce di voler porre fine con le elezioni anticipate.

Comunque sia, nel caotico contesto internazionale in corso il prestigio della Francia subisce un altro duro colpo. Simbolizzato, se si vuole, dal fatto che tre giorni prima delle elezioni europee Volodymyr Zelens’kyj ha pronunciato un discorso traboccante di speranze e gratitudine di fronte al parlamento francese. Un parlamento che, tre giorni dopo, non esiste più.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 11 giugno 2024

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Un commento

  1. Riccardo 11 giugno 2024

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