Il 18 gennaio, a Milano, si sono riunite oltre 500 persone, all’insegna del rilancio del «cattolicesimo democratico». La data scelta non era casuale: anniversario dell’appello sturziano ai «liberi e forti», 106 anni fa. L’iniziativa è stata organizzata da Graziano Delrio per «Comunità democratica», una sigla di cui ancora non si può dire se sarà un partito (lo si è escluso risolutamente), una corrente del PD o un network tra laici impegnati in politica.
«Creare legami, guarire la democrazia» il tema proposto, con la partecipazione di Pierluigi Castagnetti, il collegamento a distanza di Romano Prodi e l’attesissimo intervento di Ernesto Maria Ruffini, figlio di un noto resistente cattolico e poi ministro DC, direttore uscente di Agenzia Entrate e, prima ancora, di Equitalia. Accreditato, Ruffini, di una possibile leadership in un movimento di rinascita della presenza cattolico-democratica nello scenario politico italiano: leadership su cui, col suo intervento a Milano, forse tatticamente, ha gettato ampia prudenza, se non acqua gelata.
Proviamo allora a collocare questa importante iniziativa, ancora in parte da mettere a fuoco, nella storia politica degli ultimi trent’anni del cattolicesimo democratico.
La diaspora cattolica
La storia è nota: la Democrazia Cristiana fu investita tra 1992 e 1993 da Mani Pulite e dalla richiesta di autorizzazione a procedere contro Giulio Andreotti per concorso esterno in associazione di tipo mafioso (accuse terminate parte in prescrizione, parte in assoluzione, dieci anni dopo).
Il partitone cattolico, guidato da Mino Martinazzoli, sbandò pesantemente, anche nei risultati elettorali, sotto i colpi della magistratura. Votò la sua rifondazione come Partito Popolare (mentre Ermanno Gorrieri usciva fondando i Cristiano Sociali) ma all’atto di nascita del nuovo soggetto, sempre il 18 gennaio 1994, Pierferdinando Casini e Clemente Mastella fondavano il Centro Cristiano Democratico, col disegno alternativo di aderire ad una coalizione di centro-destra con la nascente Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega Nord.
Finiva così la storia di unità politica dei cattolici in Italia: una unità che in realtà era stata profondamente dialettica nelle varie anime, correnti e strategie politiche interne alla DC, luogo magistrale di complexio oppositorum. Dialettica che ora emergeva in modo deflagrante nella «stagione del maggioritario», che invitava ciascuno a schierarsi a destra o a sinistra, specie dopo la celebre «discesa in campo» (datata 26 gennaio 1994) della figura divisiva di Silvio Berlusconi.
Da allora non vi fu mai più unità per i cattolici italiani in politica, finiti a dividersi in varie sigle (se ne contano almeno una ventina in trent’anni) in costante evoluzione, prima di «spalmarsi» individualmente in tutte le forze politiche dell’attuale centro-destra e in buona parte di quelle del potenziale «campo largo» a centro-sinistra. Così nessuno, e da molti anni, pensa più seriamente che sia possibile, auspicabile o teoricamente legittimo riunire politicamente i cattolici. Il tema è del tutto fuori dai radar, giustamente, persino per gran parte delle gerarchie ecclesiali.
Fenomenologia della crisi del cattolicesimo democratico
In questo quadro caotico, la crisi politica del cattolicesimo democratico ha finito per presentarsi con due facies ben distinte e tipologizzabili: nel centro-destra, sotto forma di una rivendicazione diffusa dei valori «tradizionali» cristiani in tutte le forze dell’alleanza, così diffusa da risultare o un vuoto proclama ineffettuale o una mera strumentalità; nel centro-sinistra, e in particolare nel PD, rimanendo più aggregata tra 2008 e 2016, ma finendo per spegnersi lentamente dopo il tracollo politico di Renzi (che peraltro mai fece del cattolicesimo democratico una cifra politica del suo esperimento, se non sul piano puramente storico/personale).
Oggi, a sinistra, a parte una buona schiera di amministratori formatisi nel mondo cattolico, a parte qualche «residuo» parlamentare nazionale (Delrio, Guerini e pochi altri), non si riconosce più nessuna identità collettiva e iniziativa autonoma; del resto, nel PD di Elly Schlein a nessuno mai verrebbe riconosciuto uno spazio politico come rappresentante della cultura o dell’elettorato cattolico in quanto tale.
Vari tentativi di rinascita
Va ricordato per onestà che i tentativi di ridare visibilità alla presenza cattolica, negli ultimi anni, sono già stati diversi. A parte vari maldestri tentativi di rifondare una «Democrazia Cristiana», più per esigenze personali che per altro (Rotondi, Fontana, Cuffaro…), meritano di essere ricordate – senza pretesa di completezza – alcune iniziative politiche «cattoliche» di maggior spessore.
Andrea Riccardi (Comunità di S. Egidio) concentrò attorno a sé alcune attese in questo senso, nella sua breve esperienza come ministro del Governo Monti (2011-2013) e poi nel breve percorso del partito «montiano» di Scelta Civica.
Qualche anno prima, nel 2008, erano stati Savino Pezzotta e Bruno Tabacci a tentare un soggetto di ispirazione dichiaratamente cattolica, centrista, che si sottraesse alla affiliazione ai due poli (Rosa bianca o Rosa per l’Italia).
Più recentemente, nel 2020, Marco Bentivogli – altro figlio d’arte ed ex segretario dei metalmeccanici della CISL – venne accreditato di obiettivi di ricostruzione di una area politica di ispirazione cattolica, con la fondazione dell’associazione «Base Italia», che riuniva – come comitato scientifico – nomi di prima grandezza del pensiero cattolico sociale italiano, tra cui Leonardo Becchetti, Alessandro Rosina, Mauro Magatti e vari altri. «Non un partito, ma un network per superare la notte della politica», la definirà Bentivogli.
In nessuno di questi tentativi, scelti tra altri che avremmo potuto ricordare, il «decollo» politico avviene, per scelta o per necessità.
La differenza abissale tra azione socio-culturale e azione politica
A Milano nessuno ha chiaramente sostenuto di voler dare corpo ad una soggettività politica. Piuttosto ad una «azione politico-culturale», giocata sul «fare rete» tra le molte figure di estrazione cattolica che ancora popolano i corpi elettivi e le amministrazioni italiane, o − al limite − sul fare «cartello» in alcuni momenti salienti, mentre si rilancia e si mantiene alta una elaborazione culturale di livello, di cui indubbiamente in Italia si sente oggi enorme mancanza.
Non vi è dubbio che il «mondo cattolico» (concetto da usare con tanta prudenza) esprima ancora, tra i pochissimi, idee ed elaborazioni sociali di rilievo, nel nostro Paese. Il magistero sociale di papa Francesco, in primis, ma anche le tante riflessioni di matrice cattolica sull’inverno demografico, i flussi migratori, la generatività sociale, la salvaguardia del creato, la difesa della democrazia partecipativa e dei valori personalistici della Costituzione Italiana: sono queste rare oasi di pensiero che ancora popolano il desertificato panorama del dibattito politico italiano. E le dobbiamo spesso a cattolici.
Da tutta questa ricchezza culturale e di analisi sociale, che ancora il cattolicesimo italiano sa esprimere, non emerge però da tempo una efficacia, una progettualità capace di incidere realmente nella società, a livello politico-decisionale (mentre rimane molto dinamica e incisiva la progettualità a livello di volontariato e di solidarietà sociale).
Il motivo è semplice, ma anche drammatico sul piano della prospettiva storica. Il fatto è che esiste una differenza netta tra azione-culturale e azione-politica vera e propria. Una cesura, un fossato: quello che da almeno due decenni impedisce di trasformare il lavoro formativo e «pre-politico» (come si diceva una volta) tipico del mondo cattolico in una reale capacità di guidare processi di trasformazione della società italiana.
Questo «fossato» è determinato dal controllo delle leve del cambiamento sociale. Non nel senso bieco di occupare spazi (e poltrone), ci ammonirebbe Francesco dalle pagine della Evangelii gaudium, ma di saper iniziare (e gestire) processi anche di tempo lungo, che sbocchino ad una qualche efficacia per la malconcia società italiana, in un qualsiasi mega-trend decisivo (educazione, demografia, industria, tecnologia ecc.).
In altri termini: non basta fare una massa di formazione, di reti o di convegni; nemmeno fare volontariato e azione solidale è di per sé sufficiente, se manca un chiaro ed efficace strumento di messa a terra dei valori e delle idee nelle scelte politiche, che possono valorizzare o vanificare in un attimo ogni iniziativa nata dal basso.
DC docet (e altri fattori di crisi)
A riprova di quanto sia assolutamente necessario sapere e volere gestire i processi di cambiamento sociale, si può tornare per un attimo al tracollo della DC, tra 1992 e 1994. Se ne possono dare infinite letture, come è avvenuto. Ma certamente una delle letture possibili è questa: la DC aveva perso da tempo capacità propulsiva e – soprattutto – il controllo dei fattori di progettualità sociale. Produzione culturale, scuola, università, giustizia: dagli anni Settanta erano ormai radicalmente sfuggite di mano ai cristiano democratici, per incanalarsi su altre progettualità, spesso confuse o tra loro confliggenti.
L’aver fallito altri appuntamenti storici essenziali per mantenere effettualità politica, condannò la DC (e tutta la Prima Repubblica). Tra questi appuntamenti mancati, citerei l’irrisolta e centralissima questione della regolamentazione della forma-partito (in applicazione dell’art. 49 della Costituzione), quindi del finanziamento della politica come strumento base per una equa democrazia dell’alternanza.
Aggiungiamo, ancora, il non aver colto sul nascere come la trasformazione della comunicazione mass-mediatica avrebbe rivoluzionato lo scenario politico. Intuizione che invece ebbe − da tecnico del settore − Silvio Berlusconi col suo staff, compiendo una abilissima operazione di segmentazione tra destra e sinistra del «mercato politico» – altra tecnica professionale degli esperti di marketing – di cui vive ancora oggi la politica del Paese, senza che questa cesura polarizzante accenni a perdere energia.
A completare la perdita delle leve di gestione dei processi sociali, per il «mondo cattolico», arrivò l’azione politica della gerarchia. Con un magistrale esempio di eterogenesi dei fini, nel momento in cui si dichiarò, fin dal Convegno di Loreto del 1985, la prevalenza della strategia della «presenza» su quella della «mediazione», si andò a completare la perdita, per il laicato cattolico, degli strumenti essenziali di effettualità politica.
Quando le gerarchie, col magistero dei valori «non negoziabili», scavalcando la mediazione laicale, preferirono l’accordo col potere politico di turno, piuttosto che il faticoso discernimento quotidiano del fare politica, completarono la cessione dei processi complessivi di governo, fino allora detenuti dal laicato cattolico, in cambio di occasionali riconoscimenti su temi di «bandiera» (come il referendum sulla procreazione medicalmente assistita del 2005, o la battaglia contro i DICO del 2007. Battaglie di cui, a distanza di quasi due decenni, si potrebbe ben soppesare il reale valore storico…).
Per dirla in breve: tra crisi culturale della DC e stagione del «ruinismo», il cattolicesimo italiano – a partire dalla fine degli anni Ottanta – ha perso la capacità trainante di dare una lettura complessiva della società italiana, e di trasformarla tramite leve opportune in governo strategico, rinchiudendosi nel ruolo di gestore di limitati temi identitari.
La breve esperienza renziana – seppure mai rubricabile esplicitamente alla voce del cattolicesimo democratico – rappresenta forse l’ultima espressione epigonica di una capacità di riforma e di progettualità complessiva del Paese, espressa da un laico cattolico, seppure in modo a tratti confuso e dal finale amarissimo.
Tornando a Milano…
L’esito desertificante dei trent’anni (con poche parentesi) di delega sul controllo dei processi essenziali del «fare politica», da parte dei cattolici, è sotto gli occhi di tutti. A sinistra, tanti laici credenti impegnati ed eletti, ma privi di «copertura» sistemica e di strategia di azione comune. A destra, assimilazione dei valori cattolici ad un generico tradizionalismo «teocon» (fatto di crocefissi, presepi e rosari, magari branditi a Pontida), inserito ad arte in visioni sociali che di evangelico hanno spesso ben poco.
Uscire ora da questo lungo processo di marginalità e insieme di svuotante strumentalizzazione, per il cattolicesimo democratico, di destra o di sinistra, sarà difficilissimo. Quasi impossibile.
Fare network, allearsi, «confrontarsi tutti assieme», la «mobilitazione dal basso», rischia di non essere sufficiente per salvare la nostra democrazia e l’umanesimo della nostra Costituzione dai processi evidenti di aristocratizzazione oligarchica dei poteri economici e mass-mediali, in atto a livello globale. L’analisi è correttissima, il bisogno storico è messo a fuoco: ma lo strumento è insufficiente.
Lo strumento politico serve, non c’è nulla da fare. Inutile girarci intorno.
Senza, si può salvare qualche «poltrona», influenzare qualche processo di riforma isolato (come nel caso virtuoso, spesso citato anche a Milano, dell’assegno familiare unico, nato tutto nel perimetro cattolico): ma per iniziare processi e portarli avanti nel tempo, con una progettualità sociale complessiva, serve un partito, o una seria e organizzata presenza di governo.
Un nuovo partito?
Il punto è che oggi generare nuove soggettività politiche è difficilissimo. Serve grande potenza tecnologica (social, ad esempio, in attesa di capire cosa farà anche in politica l’intelligenza artificiale) e quindi economica. Servono kairos opportuni, colti al volo, come forse andava fatto nel 2017, all’esito della crisi renziana, quando la presenza di laicato cattolico «di peso» nel centrosinistra era ancora cospicua.
Lo stesso magistero di papa Francesco, unica voce profondamente politica nel panorama nazionale su temi planetari e sociali di enorme rilievo, non è stato utilizzato a fondo dal mondo cattolico per riprendere a mano processi di protagonismo progettuale. Occasioni storiche perse, che forse non torneranno più.
Anche perché, specie dopo il Covid, il «mondo cattolico» italiano è preoccupantemente in difficoltà. I gruppi giovanili parrocchiali sempre più irrisori, i progetti formativi sempre più evanescenti e leggeri, la stessa frequenza religiosa in crisi: il problema, ormai, è se qualcuno in politica riconosca ancora la centralità e l’esistenza stessa di un «elettorato cattolico» in quanto tale.
Servirebbe dunque una azione concertata, sincronica e convergente, sia dal basso che dall’alto, uno sforzo comune del «mondo cattolico» o di ciò che ne resta.
Una idea di progetto politico, che non porti mai nel nome il titolo di «cristiano» o di «cattolico», ma che sappia mettere a terra la capacità di pensiero e di azione sociale ed educativa che ancora residua in quel mondo, prima che sia tardi. Per il bene del Paese.
Dall’alto …
Un progetto che può sposare, dall’alto, varie strategie: un centro mobile, ad esempio, capace di attrarre voto moderato dal centrodestra, o di dialogare con esso regalando meno servilità a quell’elettorato, rispetto allo strapotere delle «nuove destre», nell’attuale maggioranza. Oppure, capace di una seria interlocuzione a sinistra, nel «campo largo», che soprattutto offra l’occasione per ridiscutere radicalmente la falsa partenza renziana e calendiana, sfociata in un nulla paralizzante al centro.
Ma anche l’idea di una franca collocazione a centro-sinistra, per quanto ancora iscritta in schemi divisivi – assunto che unità e trasversalità non ci saranno mai più – potrebbe quanto meno fare uscire dall’attuale irrilevanza e afasia i cattolico-democratici, contribuendo con la loro forza (culturale, almeno) alla ricostruzione di una alternativa di governo di cui, oggi, non si vede nemmeno l’ombra. Alternativa che possa essere nutrita non tanto di «cattolicesimo», ma di una nuova visione umanistica e del recupero del personalismo della nostra Costituzione.
Per tacere delle possibilità che -cinicamente- una svolta «semipresidenziale» (ben ripensata da Stefano Ceccanti in termini di «premierato» nel contestuale convegno tenuto a Orvieto) offrirebbe ai laici cattolici, da sempre serbatoio di personalità decisive per le sorti della Repubblica (si pensi, da ultimo, al Presidente Mattarella).
… e dal basso
Ma non si fa politica davvero, se alle spalle c’è il nulla. Dunque, contemporaneamente e in modo sinergico, occorre ricostruire dal basso nel perimetro culturale cattolico con nuovi modelli di comunità, di sinodalità, di progetto educativo, a partire dai giovani e dai laici, nelle parrocchie e nei movimenti.
Occorrerebbe dare una interlocuzione politica all’enorme serbatoio di ricchezza ideale e di energie dato ancora dal volontariato e dalla iniziativa sociale cattolica di base. Occorrerebbe bussare alla porta delle grandi organizzazioni collettive «bianche» – in parte ancora vive – per chiedere loro se il richiamo alla «dottrina sociale della Chiesa» è solo un residuo demodé nel loro Statuto, o può ricevere ancora un qualche significato, nel confrontarsi con Francesco I più con Leone XIII.
Occorre che anche i sacerdoti aiutino, con le loro omelie, spesso unico abbeveratoio per molti credenti, non certo per inaccettabili e antistorici collateralismi, ma per trarre dal Vangelo temi di educazione alla responsabilità collettiva e sociale, e non solo a quella etica e spirituale, quasi esclusivamente individuale o familiare.
Uscire dai temi identitari e avere il coraggio di proporre un disegno di società per il Paese, certo come servizio nel dialogo, e non come imposizione dai sapori veritativi.
Ma è davvero possibile? (Forse, un contenitore «neo-umanistico»)
Molto dipenderà dalle dinamiche collettive. Se dopo la sbornia social dell’ultimo decennio, ci sarà un rimbalzo, una reazione (di cui qualche accenno si coglie, specie tra i giovani) verso nuovi stili di vita, verso nuove sostanzialità e verso il rifiuto di modelli «capitalistici» di superficialità esistenziale assoluta, una finestra potente potrebbe aprirsi per una forza politica capace di parlare i linguaggi della solidarietà, della sostenibilità, della sussidiarietà e della forza del locale-globale. Un nuovo umanesimo, una nuova promozione umana, senza la pretesa di metterci sopra la «targa» aggettivale cattolica e quindi capace di includere pensiero laico e nuovi modelli sociali.
Se si daranno almeno alcune di queste condizioni, allora un luogo, un contenitore politico sarà indispensabile. Che a Milano, giustamente, viene escluso con prudenza e saggezza, speriamo solo per non bruciarlo prematuramente, come già avvenuto in passato. Ma che deve poter essere almeno pensabile, traguardabile nelle idee, oltre l’odierno «fare network», che non farebbe altro che riproporre il fare lobby, o l’ineffettuale lavoro culturale del «pre-politico».
Un contenitore politico che, con coraggio e ambizione, senza paura di perdere le poche poltrone residue, lasciando ogni sottintesa volontà di salvarle facendo solo «corrente» nelle attuali forze politiche o nel PD, sciolga con coraggio le vele per un progetto che potrà essere piccolo, ma dovrà essere autonomo, coraggioso, «libero e forte».
Il cattolicesimo (democratico e non) italiano è ormai minoranza, ne va preso atto.
Ma la storia, da sempre, che piaccia o no, la scrivono le minoranze creative.
L’ambito della persona è un valore che il cattolicesimo non ha mai rinnegato e dal momento che ciò che è importante nell’agire sono le premesse e i fatti, dotati di contenuti e finalità chiari, a me sembra che non ci sia da escludere in linea di principio la formazione di “correnti” politiche che incidano sulla realtà schierandosi a sinistra. Le occasioni in cui il cristiano come qualsiasi elettore (e, prima ancora di attendere la scadenza elettorale, come chiunque ora lavori o semplicemente qui in Italia risieda o abiti) si trova a dover optare per comportamenti socialmente e umanamente solidali e non connotati in senso inequivocabilmente di stampo fascista ogni volta che si pongono dei problemi – di maggiore o minore gravità – in materia di amministrazione o di giustizia. Ricordiamoci che l’ideologia che da quasi tre anni è qui insediata al governo si ispira dichiaratamente a quella del Ventennio in cui, dal 1922, Benito Mussolini ha diretto in maniera totalitaria e univocamente oscurantista e reazionaria il governo dell’ultima fase del regno dei Savoia, per concludere la propria avventura condannato con infamia alla pena capitale per aver portato il paese alla rovina bellica una volta alleatosi alla follia omicida nazista. Non mi è parso superfluo riandare anche a ciò con la memoria, dopo il ricordo delle vicende conclusive della prima fase storica della Repubblica nata con il referendum del 1948. Al momento attuale, mentre la destra sfoggia – qui come in altre repubbliche parlamentari a cominciare dai territori di quelle che nel secolo scorso erano conosciute quali “grandi potenze”, in primis gli USA e, a Est, Mosca e l’intero impero sovietico – il piglio aggressivo e addirittura squadrista che il clima di belligeranza diffuso soprattutto a detrimento del Sud del mondo e nelle sue “periferie” (anche in questo caso come dice nell’articolo G. Boschini il riferimento politico più immediato lo offrono senza discontinuità gli inviti o le suppliche pressanti di papa Francesco), l’intera sinistra democratica rischia di essere messa all’angolo dalla stessa deterrenza politica istituzionalizzata. Così i quotidiani attacchi alla magistratura, nazionale o sovranazionale che sia, e, parallelamente e in corrispettivo, l’omaggio al braccio prevaricatore dei governi stranieri siano essi europei o non, ex imperiali o nostalgicamente ex colonizzati, anche se un po’revanscisti questi ultimi. E come non capirli, tra le condizioni ataviche di abbandono culturale e le squallide memorie di regime sicuramente in maggioranza obtorto collo ricevute in condivisione (così la Libia, ma anche l’Albania)? Col vento che tira bisogna come non mai non fare differenze settarie sulla base della provenienza delle buone volontà consociative, sia in quanto pacifiche che perché volte a non approfondire l’esclusione (dei molti) dal potere con ciò creando di nuovo solo degli ulteriori squilibri e inimicizie. Sembrerebbe un messaggio trasversale e invece è già connotato – per lo meno questo – in senso alquanto “liberal”, senza distinzioni di sesso, razza, o religione.
Se manca lo Spirito cosa pensiamo di poter fare? In tutto il commento non c’ è neppure lontanamente un accenno al Paraclito…
Condivido: senza uno “strumento” (importante definire quale) le buone idee e i buoni progetti rischiano di essere insufficienti, inefficaci, irrilevanti. il convegno del 18/1 di Milano ha dimostrato che c’è (ancora) un mondo ampio pronto a sostenere una nuova progettualità/soggettività del cattolici democratici. Servirebbe un gruppo dirigente rappresentativo ed autorevole in grado di elaborare un progetto politico serio e di vasta portata e di esprimere uno o più volti capaci di “bucare lo schermo” (serve anche questo oggi, purtroppo).
L’elettorato cattolico non esiste più , nessuno vota più come una volta , su consiglio del parroco, per fortuna. Alla fine il clero ci ha imposto scelte ( vedi aborto , divorzio , DICO , procreazione medicalmente assistita) che non condividevamo . E le abbiamo stupidamente difese come ordini dall’Alto . Se si vuole stare al centro sinistra si deve avere un progetto condiviso , non ci si può fare eterodirigere. E bisogna condividerne il progetto fondo . In una parola , ci vuole lealtà nei confronti dei propri partner politici, costi quel che costi anche in termini di rottura con la gerarchia cattolica, che è sempre indietro di un paio di secoli . Dal punto di vista sociale Papa Francesco è un parroco di campagna dei primi del 900 ( l’ultima frase la potete cancellare ma io la penso così ).
La realtà è superiore all’ idea, verrebbe da dire. E personalmente temo che la realtà sia dissonante rispetto a buona parte delle riflessioni teoriche che vengono formulate sul tema ‘cattolici in politica “. Ho impressione che si tratti di riflessioni autoreferenziali e quasi autoconsolatorie che dicono poco e nulla allo stesso elettorato cattolico (ammesso che esista ancora un elettorato cattolico). E non si tratta solo del fatto incontestabile che buona parte dei politici presentatisi recentemente come cattolici abbiano dato alla prova dei fatti una mediocre prova sul piano istituzionale ed etico (Renzi docet), ma sono le stesse categorie usate a lasciare perplessi. Ad esempio, cosa vuol dire concretamente “nuovo umanesimo”? Perché sembra un’espressione feticcio, che ai più (specie giovani) non dice assolutamente nulla. E poi di quale umanesimo si sta parlando. Perché nell’ epoca dell’intelligenza artificiale non è affatto chiaro…..
In presenza di una radicalizzazione della vita politica, rinunciato al partito unico, forse è l’ora dell’unità di metodo, ancora tutta da chiarire. La Chiesa deve avere il coraggio di ristabilire il valore della proposta. Ci vogliono poi testimoni credibili nei propri campi, nei comportamenti, nella preparazione e nell’azione. E ci vogliono preti generosi, formati, santi, con visione. Un aneddoto: Giulio Pastore (Cisl) e Paolo Bonomi ( Coldiretti ) incontrarono nel Novarese un giovane parroco che guidò entrambi. Chi era : Ugo Poletti , quello che diventerà il vicario di Roma e presidente della CEI.
Il passaggio dell’agire culturale/sociale all’agire politico però non riguarda solo il mondo cattolico, ma il mondo del sociale largamente inteso.