L’«alba» del modello democratico che oggi sembra tramontare è abbastanza remota e un tempo le molte correnti ideali (comprese le due Chiese cristiane latine: il che, almeno dal punto di vista storico, è a dir poco curioso) rivendicavano il proprio contributo a questa storia. Io però restringo molto il campo, limitandolo all’orizzonte generato dalla Seconda guerra mondiale e dagli Accordi di Yalta.
Già in tal modo si chiarisce che questa storia non presenta chissà quali «radici cristiane» o anche umanistiche, bensì nasce da stermini di massa, bombardamenti di inedita violenza (e quelli «convenzionali» non hanno avuto nulla da invidiare a quelli nucleari, almeno per chi li ha subiti), spartizioni territoriali assolutamente ciniche.
Questo tipo di democrazia, inoltre, è cresciuto sotto l’ombrello nucleare statunitense, il quale ha sponsorizzato contemporaneamente diverse e sanguinarie dittature; infine, la democrazia ha non solo tollerato, ma in un certo senso promosso e ideologicamente benedetto, una sostenuta sperequazione sociale, ritenuta necessaria a sostenere lo sviluppo economico.
Peraltro, il «controcanto» potrebbe cominciare proprio da questo punto: la (social-) democrazia ha reso possibile, in alcuni Paesi, livelli di riequilibrio dei redditi sconosciuti alla Storia dell’umanità. E poi tutto il resto: ha contenuto la violenza dello Stato, ha prodotto meccanismi non sempre inefficaci di bilanciamento dei poteri e, in generale, una qualità della vita non raggiunta da altre soluzioni.
Dopo il 1989, qualcuno ha addirittura visto in un simile modello «la fine della storia», cioè il compimento del cammino dell’umanità. Pur senza unirsi a tale delirio, le Chiese cattolica e protestante, dopo averlo sostanzialmente rifiutato, hanno fatto proprio, spesso con convinzione, questo progetto di società, ritenendo anch’esse che fosse destinato a un perfezionamento magari lento, ma costante.
Non è invece improbabile che questo modello sia esposto a una crisi dalle conseguenze non ancora ponderabili. La ragione è che l’opinione pubblica di molti Paesi ritiene che altre formule, più autoritarie, possano garantire una migliore qualità della vita alla maggioranza della popolazione, con la quale quelle che un tempo si sarebbero chiamate «masse popolari» si identificano. Ciò determina, in Europa, le proposte al potere in Paesi come Polonia, Ungheria e Italia; potrebbe essere presto il caso della Francia e chissà, dell’Unione nel suo insieme. Soprattutto, però, c’è un Trump che ha imparato la lezione: se accetti il gioco «democratico», avrai problemi. Meglio liquidarlo appena puoi.
Una simile transizione, ovviamente, non può essere considerata una normale alternanza interna allo schema «veterodemocratico», bensì configura un cambio di paradigma.
Se si prescinde (ammesso che sia possibile…) dalla banale constatazione che i «sovranismi» finiscono necessariamente per essere tra loro conflittuali, essi presentano una retorica comune (stile generale Vannacci, variamente modulata a seconda di gusti e opportunità politica), ma soprattutto un programma chiaro: definitiva demolizione dello stato sociale, scuola orientata a riprodurre le classi dirigenti al potere, esasperata socializzazione di costi e perdite e altrettanto radicale privatizzazione dei profitti. Cioè il programma di ogni Destra, anche democratica, a maggior ragione se autoritaria.
La «religione» svolge spesso in tale programma un ruolo assai classico: stabilizzare ideologicamente la retorica sistemica. Le società europee e anche quella americana sono significativamente secolari, ma le Chiese sono ancora ben radicate anche e proprio nelle fasce socioculturali che sospingono la svolta postdemocratica.
Nel Cristianesimo occidentale, però, si riscontrano anche impulsi critici, a volte motivati teologicamente in termini non banali. Forse le frontiere prossime venture non saranno, ad esempio, tra cattolici e protestanti, ma tra chi, trasversalmente, ritiene che la democrazia sia il contesto meno peggiore per l’annuncio evangelico e chi invece pensa che l’ideologia «Dio, patria, famiglia», conduca a una nuova cristianità.
Non è detto che manchi molto tempo.
Fulvio Ferrario è professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma. Pubblicato sul sito della rivista Confronti, 22 gennaio 2024
«Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato»
Gregorio XVI Mirari Vos.
Questo a dimostrazione che la chiesa ancora nel 1800 aveva una pessima idea dell’ libertà e della democrazia. Ritengo quindi che una parte della chiesa ancora oggi sia nemica della libertà.
Prepariamoci allo scontro dunque.
Non si si tratta di essere amici o nemici della democrazia quanto di rendersi conto che di suo la democrazia e una scatola vuota. C’è differenza tra una social-democrazia e una liberal-democrazia e il populismo attuale e6 una forma di democrazia diversa ancora. Certo puoi mettere alcuni principi nelle carte costituzionali ma sono volate teste di re per la democrazia si potrebbero togliere quei principi in nome di qualche cosa di diverso, che corrisponde allo spirito del tempo. Chi ci dovrebbe assicurare che lo spirito del tempo rimanga sempre uguale? Come quello dei favolosi anni ’60 piuttosto che come quelli cupi attuali? I cristiani possono fare la differenza come possono omologarsi..
Ma lei vuole o non vuole la democrazia. Dal suo intervento non si capisce e la cosa è piuttosto inquietante.