Dopo mesi di navigazione tranquilla, i contatti tra Pechino e Santa Sede sembrano aver subito una battuta d’arresto. Negli ultimi giorni, il vecchio “padrino” dei cattolici della Cina, Liu Bainian, ha rilasciato un’intervista al quotidiano di Hong Kong South China Morning Post criticando un recente saggio del cardinale di Hong Kong, John Tong.
Tong aveva scritto che Pechino e Santa Sede erano vicini ad un accordo. Ha sostenuto che le parti erano vicine ad un’intesa sulla nomina dei vescovi e su un meccanismo per ufficializzare i circa 30 vescovi cinesi non registrati con l’Associazione Patriottica ufficiale (PA). Liu ha replicato che c’è ancora una certa distanza sulla nomina dei vescovi e i 30 vescovi fuori dalla PA sono patriottici e quindi non affidabili per la Cina.
Questi commenti suonavano come l’immagine speculare a osservazioni parallele dell’ex cardinale di Hong Kong, Joseph Zen, il quale nei mesi scorsi ha affermato che un’intesa con la Cina comunista sarebbe stata contro Cristo.
Un’analisi delle argomentazioni
In effetti, le argomentazioni di Liu e di Zen hanno entrambe i loro meriti. Liu ha sottolineato che i vescovi dovrebbero lavorare per la Cina, mentre Zen ha rimarcato l’importanza del loro servizio a Dio. In entrambi i casi, sia la Cina che la Chiesa capiscono l’importanza dei cattolici cinesi, che altrimenti, a causa del loro numero, sarebbero quasi insignificanti.
Liu si preoccupa ragionevolmente che i cattolici non siano una sorta di quinta colonna dell’imperialismo straniero. Zen ha a cuore che i cattolici cinesi non rimangano staccati dalla Chiesa universale e perdano la loro vera fede.
Queste prospettive erano molto importanti per tenere la Cina e la Chiesa insieme in tempi molto delicati. Ma il mondo è cambiato, e la guerra fredda, che ha generato queste visioni conflittuali, si è conclusa. Ora tutto è diverso.
Negli ultimi anni, la Santa Sede e la Cina hanno capito il peso della tesi della controparte. Questo è accaduto valorizzando i cattolici cinesi nella “propria parrocchia”, si chiami Cina o Chiesa cattolica.
I passi della Santa Sede
Il cambiamento radicale è iniziato circa allo stesso tempo a Pechino e a Roma. Nel 2007 papa Benedetto XVI ha pubblicato la sua Lettera ai Cinesi incoraggiando i cattolici ad essere patriottici. Lo stesso anno, al congresso del partito, il presidente Hu Jintao ha elogiato il ruolo di alcune “figure religiose” per il loro contributo nel creare una società armoniosa.
Più di recente, il presidente Xi Jinping ha lanciato la sua iniziativa One Belt One Road (OBOR), che idealmente ha ripreso l’antica Via della Seta, la strada di comunicazione e di scambi tra il vecchio impero cinese e l’Italia, la sede del papa.
Inoltre, in un paio d’anni, la leadership cinese ha compreso che la questione cattolica non è semplicemente un affare nazionale. La Santa Sede è una superpotenza lieve; quindi, se Pechino vuole avere un ruolo globale, non può ignorare il Vaticano.
In parallelo, papa Francesco ha ulteriormente messo a punto la “politica estera” del Vaticano. Egli ha sostenuto che la missione della Santa Sede è di aiutare il bene del popolo di ogni paese, e il bene del popolo di ogni paese è il bene del mondo e la gloria di Dio, e viceversa, come ha dichiarato lo scorso anno in un’intervista.
In quell’intervista si legge che il papa ha a cuore il popolo cinese e la crescita della Cina nel mondo, non semplicemente dei cattolici cinesi. Allo stesso modo, la leadership cinese è divenuta più consapevole dell’influenza geopolitica del Vaticano, e non c’è solo un piccolo gruppo di cinesi convertiti.
Infine, non vi è alcuna contraddizione tra Dio e il patriottismo. I cattolici cinesi devono essere buoni cattolici e buoni cinesi, e quindi non vi è più alcuna opposizione tra Liu e le preoccupazioni di Zen. Pechino si sta rendendo conto che la tradizione cristiana della Cina è un bene nel rapporto con il mondo.
Infatti, nell’agosto scorso, il presidente Xi ha inviato in dono al papa una copia della stele nestoriana di Xi’an del VII secolo, dimostrando che il cristianesimo è parte dell’antica tradizione cinese.
Ciò sta creando un quadro più ampio che ha consentito di superare molti ostacoli del passato. Il fatto che un accordo non sia stato ancora firmato mostra che ci sono ancora molti dettagli da precisare. Ma, in linea di principio, è evidente, per esempio, che è stato raggiunto un accordo di massima sulla nomina dei vescovi.
Abbandonare i vecchi schemi
Negli ultimi anni molti vescovi sono stati nominati con il placet di entrambe le parti. L’accordo è stato applicato, non è stato applicato, è stato applicato bene, è stato applicato male…, ma è lì.
La situazione è simile con i vescovi non ufficiali. Essi lavorano e predicano e alcuni hanno partecipato anche all’assemblea dei cattolici a Pechino lo scorso dicembre.
Molti dettagli rimangono irrisolti, e forse sono troppi per essere risolti attraverso le riunioni di una commissione che fa la spola tra Roma e Pechino.
Ora è il momento in cui entrambe le parti devono decidere dove tirare la linea, e questo ha a che fare con le obiezioni delle proprie “parrocchie”.
Qui ci sono due livelli di dubbi, e bisogna essere chiari. Uno è legittimo: bisogna affrontare le preoccupazioni del passato su Dio e patria, e questi dubbi devono essere risolti. L’altro è illegittimo, qualora si tratti di proteggere interessi acquisiti, sia a Roma sia a Pechino, interessi sostenuti dalle cricche dei cattolici “patriottici”, da una parte, e da quelli “anti-comunisti”, dall’altra. Entrambi i gruppi si siedono su miliardi di proprietà, e hanno potere di ricatto e di influenza su milioni di persone. Entrambi possono avere interessi a minare papa Francesco o il presidente Xi, mettendosi alla guida di campagne di riforma “muscolari” all’interno dei propri apparati.
Ciò avviene mentre Santa Sede e Cina stanno trovando nuovi ruoli internazionali in un mondo in rapida evoluzione, in cui il vecchio ordine sta cadendo a pezzi e il nuovo non ha ancora preso forma.