«Democrazia È partecipazione» è il titolo del corso di formazione sociopolitica organizzato dalla Diocesi di Mantova a partire da sabato 13 aprile scorso. Il primo incontro è stato aperto da una relazione di Rosy Bindi, che ha parlato di «Partecipazione in Italia ieri e oggi – La democrazia in una società che cambia».
Testimoniare
L’intervento di Rosy Bindi è stato introdotto dalla lettura e dall’analisi dei primi 8 versetti del cap. 1 degli Atti degli Apostoli, a sottolineare quanto l’impegno politico della relatrice sia animato dalla sua formazione cristiana e dal suo essere credente.
In questo passo, Gesù appare ai discepoli che, smarriti e paurosi, sono chiusi nel Cenacolo. Egli si mostra loro vivo dopo la passione e le molte prove vissute e li istruisce sulle cose da fare: diffondere l’evento della Resurrezione.
È attraverso la parola che Gesù spiega ai discepoli le «cose riguardanti il regno di Dio», dà loro l’ordine di non allontanarsi da Gerusalemme e di attendere la venuta del Paraclito: da lui riceveranno la forza per essere suoi testimoni attraverso un percorso che, iniziando da Gerusalemme – là dove tutto è accaduto –, li condurrà in Giudea e in Samaria, fino ai confini della terra.
Ai discepoli, però, non appare ben chiaro di cosa debbano dare testimonianza; la domanda che essi rivolgono a Gesù riguarda, infatti, il tempo nel quale sarà ricostruito il regno di Israele: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno di Israele?». Sembra che Gesù abbia affidato il suo messaggio, per altro implicito nelle parole e nei gesti stessi della sua vicenda terrena, a uomini non resi consapevoli dalla sequela.
La sua risposta – «non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere» – evidenzia tutta la complessità del progetto di salvezza di Dio, certamente non comprensibile a chi comunque dovrà rendergli testimonianza.
Da questa introduzione di carattere spirituale si sono aperti tre ambiti di riflessione riguardanti il rapporto democrazia e partecipazione, democrazia e parola, democrazia e benessere.
Democrazia e partecipazione
La partecipazione è doverosa soprattutto per il credente che, proprio in virtù e in forza dell’Incarnazione, non può esimersi dal farsi costruttore della propria storia attraverso l’agire politico. I cristiani, che – come si dice nella Lettera a Diogneto – non sono di questo mondo, ma sono nel mondo, proprio per questo sono chiamati ad operare nel mondo con la leggerezza e il discernimento infusi in loro dallo Spirito Santo.
Al valore della partecipazione si collega l’art. 3 della Costituzione che, in virtù del diritto all’uguaglianza e alla pari dignità di tutti i cittadini, afferma che è compito dello Stato rimuovere ogni ostacolo che impedisca la realizzazione di tale principio. Ma nella prospettiva del dettato costituzionale, la realizzazione della persona trova compimento in un obiettivo più specifico e più nobile, ossia quello di rendere ogni cittadino in grado di partecipare alla costruzione della democrazia.
Poiché, nello spirito dell’art. 3 della Costituzione, la promozione umana è universale, il cittadino non partecipa alla cosa pubblica individualmente ma all’interno di una collettività, fatta di movimenti, associazioni, partiti e sindacati.
Ripercorrendo la storia dell’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale e dall’approvazione della Carta costituzionale a oggi, l’ex ministra osservava come fino agli anni Settanta il dinamismo della vita pubblica era stato caratterizzato da una brulicante presenza di movimenti, associazioni e partiti all’interno dei quali il cittadino trovava non solo risposte ai propri bisogni, ma anche la possibilità di esprimersi e di contribuire alla costruzione del tessuto democratico.
Tutto ciò si è concluso negli anni Ottanta, all’indomani dell’assassinio di Moro che, di quel periodo fecondo di partecipazione democratica, era stato il più acuto e lungimirante interprete.
La sua idea di una alternanza dei partiti al governo del Paese, in particolare della Democrazia cristiana e del Partito comunista italiano – allora il più forte partito comunista europeo – doveva, da un lato, rappresentare democraticamente il consenso popolare, che per il 30 per cento votava PCI e, dall’altra, rendere responsabile questa forza politica delle scelte urgenti riguardanti il mondo del lavoro, l’economia e le riforme sociali.
Il naufragare del progetto politico del leader della DC determinò quanto egli profeticamente aveva previsto: tutti i governi pentapartiti che si sono succeduti a partire dagli anni ’80 hanno via via indebolito la DC e lasciato spazio a una dilagante corruzione, sfociata negli anni ’90 in Tangentopoli e nella fine della cosiddetta Prima Repubblica.
Anche con il berlusconismo è necessario fare i conti: il populismo in politica, il liberismo in campo economico, una concezione della donna lesiva della sua dignità, il controllo dei media e di tutta la comunicazione sono solo alcuni dei prodotti tossici di quella stagione politica con cui ancora oggi ci confrontiamo.
Con la fine dei partiti la politica si è ingessata: le liste dei candidati vengono bloccate e a fare carriera sono coloro che, riesumando l’antica pratica del nepotismo, hanno collegamenti con i potenti.
E questo è l’oggi, caratterizzato da disaffezione e sfiducia nella politica e dall’ascesa al potere di coalizioni riconosciute come maggioritarie pur essendo state, paradossalmente, scelte da una minoranza di votanti.
Democrazia e parola
L’approfondimento del tema ha preso avvio da un passo di Montaigne nel quale lo scrittore francese afferma che la parola, come quella biblica, deve essere verità. Se la parola non è veritiera, tutte le relazioni sono compromesse in una spirale peggiorativa che giunge a guastare le società nel loro complesso.
Agganciandosi a Montaigne, Bindi – pur ritenendo inutile soffermarsi sulle modalità offensive che caratterizzano l’attuale confronto politico – sottolinea che se nella politica la parola non è vera l’analisi dei problemi lascia il posto al populismo e all’ideologia.
E qui entra in gioco la complessità che richiama quella evocata nei versetti iniziali degli Atti degli Apostoli, una complessità che, per essere compresa, richiede si parta dai dati di realtà. E, dunque, statistiche corrette e non interpretate strumentalmente stanno alla base di ogni sana riforma e di risposte adeguate alle richieste sociali.
Sono strumentalizzati i numeri relativi all’immigrazione, che stoltamente ci privano di una risorsa irrinunciabile nell’inverno demografico che il paese attraversa, così come quelli della spesa sanitaria che hanno giustificato interventi e tagli le cui conseguenze sperimentiamo tuttora ma che soprattutto abbiamo testato durante il Covid.
Inoltre, il populismo lascia spazio alla riforma costituzionale che vorrebbe introdurre l’elezione diretta del premier, cosa che non solo verrebbe a sminuire il ruolo del Presidente della Repubblica, ma anche quella dello stesso Parlamento. È strumentale e ideologico pensare che un uomo forte alla guida possa risolvere da solo la complessità dei problemi legati a una realtà globalizzata, in cui la mancanza di regole e di norme rende la finanza e le grandi multinazionali più potenti degli stessi Stati.
Tutto ciò risulta ancora più paradossale se si pensa che tale riforma è voluta da chi, in una sorta di assurda autosufficienza, considera i confini del proprio Stato come un limite invalicabile da proteggere.
Democrazia e benessere
Negli anni Ottanta la democrazia ha coinciso con il benessere, ma già in quel decennio si erano create le condizioni perché questo rapporto venisse meno. Governi deboli, corruzione, disoccupazione, decremento demografico, insufficienza di strutture a sostegno della famiglia e della maternità, tensioni sociali, disagio del mondo femminile e delle minoranze omosessuali rivendicanti diritti che garantiscano una diversa visibilità: segnali evidenti del fatto che il binomio democrazia e benessere non funzionava più. Si annunciano così nuove proposte di governo e nuove soluzioni per i problemi: inizia l’era Berlusconi.
A chi prova fastidio e, il più delle volte, disgusto nel sentire come la politica, sulla bocca degli esponenti di turno, si riduce a puro slogan, mentre le questioni complesse vengono risolte attraverso rimedi sbrigativi e superficiali, dà speranza ascoltare le parole di una donna che ha inteso la politica come servizio.
Lucidità e chiarezza hanno fatto da sfondo a una trattazione sempre argomentata e documentata e – quasi fosse animata dalla leggerezza dello Spirito evocata in Atti – cosciente che le realtà complesse chiedono il tempo lungo della pazienza e, soprattutto, l’onestà dell’impotenza che sa rinviare ad altro tempo comprensione e soluzioni.
Rosy Bindi ha davvero incarnato il magistero di Paolo VI che fa della politica «la forma più alta di carità», mentre il suo ritiro a vita privata, in un momento contrassegnato da successi e da incarichi prestigiosi, conferisce alla sua figura tutta la nobiltà di un Coriolano.