Dall’11 al 22 novembre 2024 si è svolta a Baku in Azerbaijan la 29-esima Conferenza delle Parti − in breve, COP29 − per il conseguimento degli obiettivi fissati nell’accordo di Parigi nel 2015 (COP21). Come in altre occasioni la trattativa, molto controversa, si è risolta in un documento ufficiale raggiunto in extremis, a tempo scaduto, all’alba del 24 novembre (cf. qui).
Come osservato da Ecco, think tank italiano per il clima, la conferenza di Baku è arrivata in un momento storico molto difficile, per le numerose guerre in corso e per la recente ri-elezione di Donald Trump, con la sua dichiarata volontà di far uscire gli USA dagli accordi di Parigi (cf. qui).
L’accordo globale, articolato in 38 punti, è dedicato quasi esclusivamente alla finanza. Ma si riconosce, anche in questa occasione, che è necessario mantenere l’obiettivo di Parigi 2015: non raggiungere un aumento termico globale di 2°C rispetto all’era preindustriale e, anzi, limitarlo possibilmente a 1,5°C, per ridurre i rischi e gli impatti del cambiamento climatico. Parimenti occorre aumentare la capacità di adattamento e di resilienza agli impatti del cambiamento climatico e favorire, anche con la finanza, uno sviluppo a basse emissioni di gas climalteranti, senza mettere a rischio la produzione di cibo (art. 1).
Si evidenzia, perciò, che i bisogni dei paesi in via di sviluppo sono stimati in circa 455-584 miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Per far fronte a queste necessità occorre aumentare di molto il finanziamento per l’adattamento e per la mitigazione, riservando la priorità ai paesi più vulnerabili, più poveri, oltre che ad alcuni stati ubicati in piccole isole. Attori pubblici e privati potrebbero intervenire versando almeno 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, ma le Parti si impegnano a contribuire solo con (almeno) 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 (art. 3-8). I restanti articoli del documento sono tutti dedicati alle modalità di erogazione dei finanziamenti per far fronte alle perdite e ai danni prodotti dal cambiamento climatico.
Nel commentare la conclusione di COP29, Ferdinando Cotugno su Domani osserva che:
«I soldi che i paesi vulnerabili portano a casa sono pochi rispetto ai bisogni, arriveranno nella loro interezza a metà del prossimo decennio, quando la crisi climatica sarà molto più grave di quella che sperimentano oggi, e da fornitori incerti e costosi per quel che riguarda la parte privata. La ventinovesima conferenza dell’ONU sui cambiamenti climatici di Baku doveva essere la COP dei soldi e, come sempre quando si parla di soldi, tutte le parti che hanno accettato l’accordo finale tornano a casa sentendosi defraudate. L’approvazione del documento finale più politicamente delicato di COP29, quello sulla finanza climatica, è avvenuta alle 3.00 della notte tra sabato e domenica: il martelletto del presidente Mukhtar Babayev ha sigillato il risultato: i paesi in via di sviluppo riceveranno una quota crescente di aiuti climatici che deve arrivare a 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, tra undici anni. Nel documento viene menzionata anche un’altra cifra, quella che il sud globale ritiene più vicina ai propri bisogni, e che era stata calcolata da tre economisti del clima (Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern) all’inizio di questa COP: 1.300 miliardi di dollari all’anno […]. Ma i 1.300 miliardi sono una vaga aspirazione, quasi un auspicio, niente che abbia valore legale» (cf. qui).
Quindi, di certo, vi sono solo i 300 miliardi annui entro il 2035 che «verranno non solo dai bilanci pubblici ma “da un’ampia varietà di fonti”, una formula che piace ai paesi ricchi (perché scarica i budget da parte degli obblighi) e spaventa quelli poveri, che vedono i loro bisogni climatici affidati alle incertezze del mercato, dei tassi di interesse, delle banche multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale» (cf. qui ).
Sul Corriere della Sera, Sara Gandolfi sottolinea la delusione dei paesi poveri:
«Protestano anche i piccoli stati insulari (Aosis) e il gruppo dei paesi meno sviluppati (Lcd) che addirittura se ne vanno sbattendo la porta dalla stanza del negoziato. “Ci siamo ritrovati continuamente insultati dalla mancanza di inclusione, le nostre richieste sono state ignorate”, ha commentato Cedric Schuster, presidente dell’Alleanza dei piccoli stati insulari. “Questo pacchetto è un affronto per noi. Siamo i Paesi che corrono i rischi maggiori. Così com’è, il pacchetto non ci dà nulla per proteggerci mentre altri continuano a trarne vantaggio a nostre spese”, ha rincarato Tina Stege, inviata per il clima delle isole Marshall. “I piccoli Stati insulari vulnerabili e i Paesi meno sviluppati non hanno alcuna garanzia che la misera somma fornita arriverà a Paesi come il nostro”» (cf. qui ).
Luca Bergamaschi così commenta su Ecco:
«La COP rimane il luogo principe per trovare soluzioni comuni per il clima. Questa è una buona notizia. Nonostante sia stato raggiunto il massimo compromesso sulla finanza, registriamo che i Ministri dell’Ambiente stanno esaurendo il loro raggio d’azione. Senza il coinvolgimento dei Ministri delle finanze, dell’industria e dei Capi di Stato e di Governo, l’azione per il clima rimarrà inadeguata. Serve una trasformazione profonda della finanza, di come produciamo e consumiamo e di come garantire che le categorie sociali più deboli non restino escluse dalla transizione e siano aiutate a difendersi dagli impatti devastanti del cambiamento climatico. L’influenza degli interessi legati all’economia dei combustibili fossili, attraverso i Paesi produttori come Arabia Saudita e Russia e le imprese fossili, che insieme predicano la neutralità tecnologica per mantenere lo status quo, hanno prevalso sia alla COP29 che al G20 di Rio, bloccando le azioni necessarie per la transizione verde. La spinta verso false soluzioni, che vediamo fortemente anche in Italia sul gas, biocombustibili e nucleare, blocca l’innovazione, mettendo a rischio la competitività industriale, e limita l’accesso sociale alla transizione, a favore di pochi ma forti interessi economici» (cf. qui).
In conclusione, quello che più è mancato a questa COP29 è stato un approccio ampio alle problematiche ambientali: sono rimaste escluse dal documento finale le iniziative necessarie per ridurre le fonti fossili fino alla loro messa al bando entro il 2050. Questo obiettivo era invece stato riaffermato, solo un anno fa, nella COP28 di Dubai, dove si era anche deciso di triplicare la potenza da fonti rinnovabili entro il 2030.
Inoltre, la voce degli scienziati è stata presa poco o per nulla in considerazione. È paradossale: in questa COP29 sul clima si è parlato pochissimo di clima.
Si potrà recuperare il terreno e il tempo perduto con la prossima COP30 del 2025 a Belém in Brasile?