Dopo anni di divisione tra le due Coree, questa divisione è diventata sempre più profonda. La distanza psicologica, spirituale, sociale e politica è tale che ci vorrà un cammino lungo e ben condotto se vogliamo la pace vera.
Pace vuol dire comunicazione libera (sia pure con un certo controllo), ma sostanzialmente libera. Pace significa anche fratellanza, sentirsi un’unica famiglia, comprendendo che ci sono differenze di vedute e di atteggiamenti verso i valori più profondi della vita, come, per esempio, la religione. Pace significa lavorare ad un futuro comune.
La mia proposta sarebbe che, dopo un cammino ben coordinato e concreto, si arrivi a stabilire dei rapporti tra i due stati. Non è necessario che si formi una nazione unica, ma due nazioni sorelle. Questa è la mia speranza, e la vedo realizzabile.
Il popolo del Sud sarà capace di accogliere la gente del Nord come fratelli veri? Le ferite, lungo la storia, sono tante. Vediamo già ora che i nordcoreani che già vivono nel Sud – persone che, in un modo o nell’altro hanno attraversato la frontiera – non sono accolti con cordialità. Esiste una certa diffidenza, esiste paura: «gli si può credere?», «che cosa cercano: il nostro lavoro, il nostro benessere…, ma accetteranno la nostra apertura mentale e la nostra crescita spirituale e intellettuale, oltre alla nostra libertà di spirito?».
Sono certo che la Chiesa ha un ruolo importante da giocare, e lo farà senz’altro. E per Chiesa intendo sia la cattolica sia la protestante.
La mia grande speranza sta proprio nella fede. Le Chiese che sono nella Corea del Sud hanno la forza di intervenire in maniera decisiva sulla mentalità, sullo spirito, sulla diaconia del popolo, di modo da integrare passo dopo passo la gente del nord, ben sapendo che, politicamente, dovrebbero rimanere due nazioni differenti che si capiscono e che collaborano particolarmente nel campo economico e sociale.
Con un saluto cordiale.
Luc Van Looy
vescovo di Gent