Carlo Invernizzi-Accetti è professore ordinario di Scienze politiche alla City University of New York e visiting professor alla Columbia University. Esperto di politica comparata e di storia delle ideologie, collabora con diverse testate italiane e internazionali». È autore di numerose pubblicazioni, tra cui What is Christian Democracy? Politics, Religion and Ideology (Cambridge University Press, 2019) e Technopopulism. The New Logic of Democratic Politics (Oxford University Press, 2021). Per Mondadori ha appena pubblicato il libro Vent’anni di rabbia – Come il risentimento ha preso il posto della politica. Da quel libro prende spunto il dibattito lanciato sul Substack di Stefano Feltri, «Appunti»: Come rispondere alla rabbia.
Le crepe nell’edificio della democrazia liberale messe a nudo dai risultati delle elezioni legislative francesi, ma anche di quelle parlamentari europee, e da ciò che si sta profilando alle presidenziali statunitensi di quest’autunno, non dovrebbero sorprendere.
Sono più di vent’anni, ormai, che da pressoché ogni parte delle società occidentali emergono segnali di una rabbia diffusa nei confronti dell’establishment politico e dell’ordine delle cose in generale.
La prima volta che il partito dell’estrema destra francese, allora guidato dal padre di Marine Le Pen, Jean Marie, passò al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi fu nella primavera del 2002.
Erano i tempi del movimento anti-globalizzazione e delle mobilitazioni di massa contro la cosiddetta «guerra al terrorismo». Nella primavera del 2005 ci furono i «No» nei referendum sulla proposta di Trattato costituzionale europeo, poi roghi nelle banlieues francesi e, solo due anni più tardi, cioè prima dell’inizio della crisi finanziaria globale del 2008-2011, il «Vaffanculo Day» di Beppe Grillo.
Negli anni successivi, le manifestazioni di rabbia collettiva non hanno fatto che susseguirsi in un crescendo sempre più incalzante: dal movimento degli Indignados e Occupy Wall Street alle più recenti proteste contro il sostegno internazionale alle operazioni del governo israeliano a Gaza, passando per Brexit, la prima elezione di Donald Trump, #MeToo, #BlackLivesMatter, i discorsi di Greta Thunberg, il movimento dei Gilets Jaunes e quello dei NoVax, fino all’attacco al Campidoglio americano del 6 gennaio 2021.
Ciascuno di questi eventi ha una storia particolare e vanta una propria specificità; ma c’è anche un filo rosso che li collega, un umore di fondo che ha infuso tutta la storia degli ultimi vent’anni, trascendendo le tradizionali distinzioni ideologiche tra «destra» e «sinistra»: la rabbia nei confronti delle istituzioni e dell’establishment politico.
Per rispondere a questa rabbia non basteranno le trovate elettorali o le manovre di palazzo che si stanno elaborando in queste settimane a Parigi, a Bruxelles e anche a Washington. Bisogna risalire alle radici del «ventennio di rabbia» che stiamo vivendo.
Dall’economia al riconoscimento sociale
I limiti delle analisi esclusivamente economiche del malcontento diffuso emergono nettamente dal contributo di Stefano Feltri a questo scambio. Se, nel 2016, l’anno della Brexit e della vittoria di Trump, si poteva ipotizzare ancora che bastasse ridistribuire più equamente i benefici materiali dell’economia globalizzata, oggi non è più così.
L’amministrazione Biden ha messo in pratica molte delle ricette economiche auspicate dai critici dell’austerità e della globalizzazione del periodo precedente, investendo massicciamente nella reindustrializzazione e nella transizione ecologica degli Stati Uniti, con un occhio di riguardo particolare per le zone geografiche e gli strati sociali più disagiati.
È riuscita anche a domare l’inflazione tenendo bassi i livelli di disoccupazione. Eppure, tutti i sondaggi davano Donald Trump in netto vantaggio alle elezioni di novembre, già prima dell’attentato.
Anche in Europa, il grande piano di investimenti pubblici lanciato durante la pandemia di Covid-19 ha segnato una discontinuità con le politiche di austerità del decennio precedente, conseguendo risultati economici abbastanza dignitosi. L’economia francese è cresciuta di vari punti percentuali tra il 2021 e il 2023, come del resto quella della zona euro nel suo insieme.
Allo stesso tempo, sono state applicate un po’ ovunque manovre di redistribuzione socio-economica: dall’aumento del salario minimo in Francia al reddito di cittadinanza in Italia (poi in seguito decurtato dal governo Meloni). Eppure, l’estrema destra ha fatto un salto in avanti in tutte le ultime tornate elettorali, arrivando a un soffio del potere anche in Francia.
Ovviamente, c’è chi dirà che non è stato fatto abbastanza. Né si vuole qui negare o sottovalutare il peso del portafoglio in politica. Ma, di fronte a una divergenza così marcata tra la direzione complessiva delle politiche macroeconomiche e l’umore collettivo del nostro tempo, conviene almeno chiedersi se non sia necessario guardare (anche) altrove per far fronte alla rabbia diffusa.
Gli slogan delle principali mobilitazioni politiche degli ultimi vent’ anni – dall’«Uno Vale Uno» del Movimento 5 Stelle, al «Make America Great Again» di Donald Trump, al «Les Français D’Abord» del Rassemblement National, ma anche il concetto di stesso di «Black Live Matter» e di «Me Too» – non puntano in primo luogo a rivendicazioni di tipo economico. Chiamano invece in causa la sfera del riconoscimento sociale, cioè il modo in cui ampi strati della popolazione si sentono percepiti, e quindi valutati, dal resto della società.
È questo il problema dei cosiddetti «forgotten men» a cui fa riferimento Feltri. Ma non si tratta solo dei famigerati «uomini bianchi» che soffrono per un presunto declassamento nell’ordine dei valori del mondo globalizzato, né solo delle zone rurali o peri-urbane, di cui si è molto parlato per spiegare l’avanzata elettorale delle estreme destre. Anche le minoranze etniche, le donne e – come dimostrano gli scioperi scolastici contro il cambiamento climatico e le più recenti proteste universitarie – le giovani generazioni soffrono tutti di un senso di invisibilità e marginalizzazione.
L’esempio forse più eclatante – ma anche rappresentativo del nostro «ventennio di rabbia» – è stato quello del movimento dei Gilets Jaunes francesi: una mobilitazione che le scienze sociali hanno avuto difficoltà a interpretare, proprio per la sua eterogeneità sociologica e il rifiuto di avanzare richieste esplicite ai rappresentanti politici.
Eppure, almeno una cosa era chiara: i «gilet gialli» sono i capi di abbigliamento che si indossano letteralmente per «farsi vedere» sulle strade, quando si è in panne. Si manifestava quindi un desiderio diffuso di visibilità, cioè l’ultima analisi di riconoscimento, da parte del resto della società.
Oltre il populismo e la tecnocrazia
Le risposte che ha fin qui dato la politica a questo senso diffuso di mancanza di riconoscimento ritornano, nella maggior parte dei casi, a una delle due principali «formule» politiche che hanno segnato la storia degli ultimi vent’anni: il populismo e la tecnocrazia. Invece che lenire rabbia sociale, esse hanno però contribuito esacerbarla ulteriormente.
Il populismo identifica correttamente la radice del problema, in quanto cerca di dar voce a un senso diffuso di esclusione, o almeno di marginalizzazione, dall’esercizio del potere politico.
Tuttavia, questa soluzione si rivela controproducente perché consiste in una semplificazione dei princìpi e delle procedure della democrazia costituzionale che finisce per concentrare ancora più potere nelle mani della leadership, riducendo di fatto la «base» a un ruolo passivo di approvazione plebiscitaria del suo operato.
La parabola del Movimento Cinque stelle è illuminante da questo punto di vista: coloro che avrebbero dovuto «aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno» (secondo una famosa affermazione dell’allora leader, Beppe Grillo, prima delle elezioni del 2013) sono alla fine diventati, essi stessi, «tonno», cioè oggetto della rabbia di cui si era precedentemente nutrito il Movimento.
La tecnocrazia, invece, pretende di praticare il «buon governo», ma prescinde completamente dalla dimensione della partecipazione collettiva. In questo senso, propone apertamente ciò che il populismo dice di combattere ma nei fatti riproduce: la riduzione del popolo al ruolo di ricezione passiva dell’operato di governo.
Nella misura in cui la rabbia del nostro tempo deriva da un senso di esclusione o marginalizzazione dall’esercizio del potere politico, ciò non può che contribuire ad esacerbarla ulteriormente, indipendentemente dalla qualità delle decisioni così prese – come dimostrano le due esperienze di «governo tecnico» in Italia nel corso degli ultimi decenni: quella di Mario Monti tra il 2011 e il 2013 e quella di Mario Draghi tra il 2021 e 2022, entrambe bocciati sonoramente dagli elettori alla prima scadenza elettorale, nonostante i risultati oggettivamente dignitosi da essi conseguiti.
Non escono da questo orizzonte di alternanza (e a volte anche commistione) tra il populismo e la tecnocrazia neanche le quattro ipotesi di risposta alla rabbia del nostro tempo avanzate da Feltri nel suo contributo a questo scambio. I limiti di ciò che Feltri chiama le «risposte di policy» volte ad affrontare «le cause materiali della rabbia» sono il punto di partenza del suo ragionamento.
Ma anche l’idea di «rispondere al fuoco con il fuoco» – cioè di «utilizzare ogni leva rimasta a disposizione del potere, da quella mediatica a quella culturale a quella giurdiziaria» per «neutralizzare quelli che non sono normali avversari politici ma nemici interni» – ritorna, in fin dei conti, a una logica tecnocratica.
Rimane infatti da stabilire chi sono i «normali avversari politici» e chi invece i «nemici interni», e non è chiaro quali potrebbero essere gli arbitri al di sopra delle parti capaci di determinarlo in modo oggettivo, o almeno consensuale.
È il vecchio problema dei «filosofi re» di cui parlava Platone nella Repubblica: potrebbe anche essere una buona idea, se solo si sapesse a chi confidare quest’immensa autorità.
Tutti i concorrenti nell’agone politico se ne dicono degni, ma è proprio a questo che serve la democrazia: a decidere chi tra essi è legittimato ad esercitarlo, almeno temporaneamente.
È invece l’essenza stessa del populismo l’idea che si possa far fronte alla rabbia del nostro tempo con risposte «simboliche» quali l’elevazione di «figure diverse» che «incarnano nella loro biografia un messaggio politico netto», o lo «spostamento della competizione politica della sfera dei valori» attraverso «una nuova retorica che definisce il perimetro del confronto con le forze antidemocratiche».
Per quanto il riconoscimento sociale appartenga alla sfera del «simbolico» (concepito per opposizione a quella del benessere materiale) la sua mancanza è fin troppo reale per ampi strati delle società contemporanee.
Non basta quindi trasferire il desiderio di riconoscimento a un leader carismatico o a una retorica battagliera: servono risposte concrete alla rabbia del nostro tempo, non solo nella sfera rarefatta della simbologia politica.
Il che ci porta alla quarta e ultima proposta di risposta avanzata da Feltri. «Per neutralizzare o almeno incanalare la rabbia di cui parla Carlo Invernizzi-Accetti», scrive, «serve ricostruire canali di una partecipazione democratica che non può più passare per partiti ormai decaduti … Dunque, chi ha a cuore la democrazia deve lavorare su due fronti: ricostruire una coscienza di classe, per usare un’espressione dimenticata, tra le varie categorie degli arrabbiati, e offrire loro occasioni per sviluppare identità collettive che offrano un’alternativa alla atomizzazione alienante che alimenta la frustrazione».
È effettivamente quello che ho cercato di sostenere nel mio libro sui Vent’Anni di Rabbia. Ma voglio qui considerare qualche elemento di (auto)critica al fine di contribuire ad aprire nuovi spazi alla riflessione.
C’è, in fin dei conti, qualcosa di un po’ velleitario nell’idea che la politica possa suscitare la partecipazione collettiva, semplicemente invocandola o predisponendone le condizioni.
A rigore, dovrebbe essere il contrario, cioè la partecipazione collettiva a dare corpo e direzione all’attività politica.
Lo stesso tipo di «pensiero magico» è anche una caratteristica distintiva del populismo, nella misura in cui esso mira a creare (l’illusione di) un «popolo unito» attraverso un esercizio di rappresentanza politica.
Non si esce quindi dall’orizzonte di alternanza tra il populismo e la tecnocrazia neanche invocando un ritorno alla partecipazione collettiva.
Cambio di paradigma
Le difficoltà che incontriamo tutti (io compreso) nel dare una ‘risposta politica’ alla rabbia del nostro tempo non sono accidentali, né il frutto di una mancanza di ingegno o creatività.
Tutte le ipotesi di soluzione identificate da Feltri nel suo intervento sono già state, in un modo o in un altro, sperimentate nel corso degli ultimi vent’anni. Ma se esistessero soluzioni già pronte, probabilmente, non ci sarebbe più neanche il problema.
Forse, allora, conviene affrontare la questione in modo diverso. Un elemento che hanno in comune tutte le ipotesi di soluzione fin qui considerate è il presupposto che «la politica» debba offrire una risposta alle molteplici espressioni di rabbia sociale che hanno puntellato gli ultimi vent’anni. E se invece fosse proprio la distinzione tra «politica» e «società» l’origine del problema?
Nella sua Fenomenologia dello Spirito Hegel sosteneva che il riconoscimento sociale non è una cosa che può semplicemente essere data da un individuo a un altro, o dalla società nel suo insieme ai suoi membri. Esso deve per forza essere ottenuto dagli individui (o dai gruppi) in prima persona, attraverso una «lotta per il riconoscimento».
Ciò che mi pare interessante e ancora attuale in questa tesi è l’intuizione secondo cui la rabbia del nostro tempo non può semplicemente essere «curata», come una malattia, da un agente esterno. Sono gli individui e i gruppi arrabbiati a doverla superare attraverso uno sforzo specifico, in prima persona.
L’errore starebbe dunque nel continuare a supporre che debba essere un «altro» – nella fattispecie un establishment il politico concepito come esterno e perciò stesso alieno e lontano – a darci un riconoscimento di cui ci sentiamo al tempo stesso in difetto e diritto. Il potere non ha mai dato nulla a chi non se l’è preso.
Il nucleo di verità nell’idea che la rabbia si supera attraverso la partecipazione collettiva non è quindi l’esortazione alla politica di suscitarla, quanto l’idea che serve un cambio di paradigma nel modo di pensare l’azione politica stessa: non più come qualcosa che fanno «altri» su un palcoscenico remoto, ma come qualcosa di cui ci dobbiamo prendere responsabilità noi stessi.
Si dirà forse che anche questo è velleitario, o perfino ingenuo. Dopo tutto, le molteplici manifestazioni di rabbia collettiva degli ultimi vent’anni non vanno già in questo senso? Non erano cioè già tentativi di «Take Back Control», come recitava uno dei famosi slogan in favore del voto per la Brexit?
È proprio qui, però, che la riflessione teorica può tornare utile: non per dire ai cittadini cosa devono fare, ma per aiutarli è meglio perseguire i propri obbiettivi.
La rabbia è solo l’inizio di un processo di politicizzazione. Ciò che è mancato alle mobilitazioni collettive degli ultimi vent’anni sono il senso di una finalità concreta e l’organizzazione interna capaci di trasformarle da reazioni emotive a progetti politici indirizzati e duraturi. A questo servivano i partiti, i sindacati, gli organismi della società civile, ma anche gli organi di informazione e gli altri meccanismi di intermediazione politica del secolo scorso.
Per quanto sia d’accordo con Feltri che questi veicoli di partecipazione collettiva sono «ormai decaduti», la rabbia del nostro tempo dimostra che c’è ancora una forte domanda di partecipazione politica. Si tratta quindi di un inventare di nuovi canali di partecipazione collettiva, più adatti alle nostre esigenze, senza aspettare che siano «altri» a farlo per noi.
In una parola: se sei arrabbiato (o arrabbiata), organizzati!
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 16 luglio 2024