Come usciremo dalla pandemia? Sicuramente cambiati. In meglio o in peggio? Dipenderà dalle lezioni che abbiamo imparato da questa emergenza.
Ho esitazioni a scrivere. Sento ogni parola inadeguata, di fronte alle proporzioni del dramma che ci ha investito. Una «tempesta furiosa», secondo la metafora di papa Francesco che, in una preghiera dal tenore biblico, in mondovisione, davanti a una Piazza San Pietro deserta (un deserto evocativo della condizione del nostro animo), si è spinto sino a chiedere a Dio di svegliarsi (e a noi di convertirci).
Al modo degli antichi profeti. Noi possiamo solo balbettare. Abbiamo incassato un ceffone sconvolgente per le nostre sicurezze: non siamo invincibili, padroni della vita e della civiltà; misuriamo la nostra vulnerabilità, la nostra precarietà personale e collettiva.
Smarrimento e interpretazione
Circolano letture complottiste. Quella di un virus coltivato in laboratorio da qualche mente malata o commissionato da qualche lobby mondiale mossa da interessi economici o geopolitici. La sola lettura complottista che mi convince è che la natura è madre e matrigna. È sorgente di vita ma anche di malattia e di morte. E noi, nella nostra ottusa presunzione di uomini moderni, ce l’eravamo scordati.
Smarriti, angosciati ci affacciamo su territori incogniti, su un futuro oscuro e incerto. Ciascuno di noi deve interrogarsi in profondità circa il proprio rapporto con la vita e con la morte.
Nel mentre ci lasciano amici, persone a noi care. Con lo strazio aggiuntivo di non poterle accompagnare neppure alla sepoltura.
Oggi, dentro l’emergenza drammatica (lunga, quanto non sappiamo) siamo ammirati e profondamente grati a chi si spende e rischia la propria vita sul fronte sanitario e di quei servizi essenziali alla comunità. Ci sentiamo un po’ in colpa. Noi, disciplinatamente chiusi in casa, patiamo l’imbarazzo di non potere essere utili se non appunto rispettando la regola di starcene appartati. Dunque, privilegiati.
Cambieremo, ma come?
Cambierà il mondo, cambierà l’Italia; cambieranno economia, società, politica.
Su figli e nipoti ricadrà il compito immane di una ricostruzione, di un nuovo inizio. Probabilmente simile a quello cui ha atteso la generazione dei nostri nonni e che è stato risparmiato a noi che solo ne abbiamo beneficiato.
La politica, mi si chiede. A ben vedere, anche chi per essa nutre interesse e passione, in questo tempo sospeso, ne misura il carattere relativo e subordinato ad altre e più importanti dimensioni della vita. Certo, si discute circa la gestione politica dell’emergenza. Circa i rapporti tra le istituzioni, tra Stato e regioni, tra maggioranza e opposizioni. Ci sta. Vi saranno stati errori e ritardi.
Ma come non considerare che si è trattato di una sfida inedita che ha spiazzato e diviso anche gli uomini di scienza, ai quali giustamente ci si è affidati? A fronte di essa – diciamo la verità – sono suonate strumentali e fastidiose certe critiche troppo manifestamente ispirate al rituale gioco delle parti politiche quasi potessimo permetterci una dialettica convenzionale da tempi ordinari. Più saggio, dentro l’emergenza, nutrire fiducia e cooperare con le istituzioni chiamate a gestirla. Conformandoci, noi cittadini, alle regole di comportamento che esse ci prescrivono. Verrà poi il tempo della discussione e del giudizio circa la loro adeguatezza. Intanto, impariamo a distinguere tra le istituzioni (di tutti) e le parti politiche.
Sono bastate due settimane e l’agenda è radicalmente cambiata: sanità pubblica (colpevolmente mortificata negli anni), lavoro, povertà, dopo la sbornia di antipolitica e l’ossessione per l’immigrazione cavalcata dagli imprenditori politici della paura. Altro che quota cento, si è dovuto richiamare in servizio medici e infermieri in pensione! Semmai ripensamento ed estensione del reddito di cittadinanza per chi non ce la farà.
Cambieranno probabilmente anche il sistema politico e i suoi attori, personali e collettivi. Cambieranno – si spera – i loro valori di riferimento e le qualità loro richieste.
Meno superficialità, improvvisazione, demagogia, più sobrietà e competenza. Meno ricerca del facile consenso, più serietà e responsabilità. Meno corporativismo, chiusure e partigianeria, più spirito di solidarietà e senso del bene comune. Meno pigrizia e stanca reiterazione dei modelli di vita e di società del passato, più creatività e discontinuità imposte dalla lezione del passato e dalle urgenze del presente e del futuro. Che di sicuro sarà molto, molto diverso dal passato.
Il rischio della cittadella assediata
Ma attenzione. Le prove drammatiche che ci attendono potrebbero sortire anche l’effetto contrario: egoismo, chiusure, arroccamenti, conflitti. Già lo si sconta anche nelle relazioni tra le nazioni. A cominciare da quelle transatlantiche ed europee di fronte a un virus che non conosce frontiere e che non ammette una terza via: o un balzo in avanti nella cooperazione, magari dopo comprensibili titubanze e oscillazioni, o una regressione senza rimedio ai nazionalismi. Quelli – giova rammentarlo – che, nel secolo scorso, condussero alle guerre.
È da sperare che almeno, da questa prova, noi si esca più maturi e più umani nelle relazioni brevi, quelle familiari e amicali. Da quanto non sentivamo con altrettanta intensità il bisogno e la gioia delle relazioni quotidiane oggi mortificate dalla distanza che ci è imposta?
Da figli, nipoti, amici, vicini di casa, che, talora per la prima volta, salutiamo dalla finestra. La distanza che ci è imposta ci fa sentire come non mai l’esigenza del contatto e della vicinanza. È un paradosso e una lezione preziosa: nella civiltà che ha posto al centro l’individuo, d’improvviso scopriamo che l’uomo è, nella sua intima e incoercibile natura, un animale sociale e che riusciremo a salvarci solo insieme.
Ripeto: possiamo solo balbettare parole radicalmente inadeguate. Una sola cosa possiamo affermare con relativa certezza: ai grandi bivi della storia l’umanità è posta di fronte a dilemmi etici ineludibili che decidono del suo destino.
L’insostebile leggerezza della quarantena
Come gli altri, anche il mio nonno paterno (Gabriele, analfabeta, 1864) fu messo in quarantena al suo arrivo negli Stati Uniti: nel 1894 e poi nel 1900.
Anche mio papà (Mariano, 1897) a causa del tifo, fu obbligato alla quarantena, severamente impostagli perché militare autiere. Era cioè una delle poche preziose patenti di guida di allora, e le truppe al fronte dovevano essere regolarmente rifornite con gli autocarri da chi stava nelle retrovie.
La mia quarantena durò poco più di due anni; bambino di otto anni lasciai il sanatorio antitubercolare di Valledrane dov’ero restato dal 1946 al 1948.
Autoquarantene affettive o relazionarie seguirono mie scelte di libertà e di coscienza, alle quali non volli rinunciare. Perciò la quarantena attuale comune a tutti gli Italiani non mi impedisce di vivere (quasi) serenamente le odierne giornate. Finirono le precedenti imposte a nonno Gabriele, a papà Mariano, a me, finirono bene.
Sarà così anche ora. Se non per me, per altri dopo di me. E non solo in Italia.