Quella del rapporto tra i cristiani e la guerra è questione antica che oggi si ripropone facendo registrare divisioni che non devono sorprendere. Più specificamente, una divisione si è prodotta sul diritto alla difesa armata e, in concreto, sul rifornimento di armi alla resistenza ucraina. Di tali divergenze non ci si deve scandalizzare per due ragioni.
Criteri per la legittima difesa
La prima è l’indice di formalità-astrattezza che, per definizione, scontano i criteri che presiedono alla legittima difesa nel magistero della Chiesa e che, di riflesso, dischiudono a diverse possibili loro interpretazioni-attualizzazioni circa il caso concreto. Rammentiamoli quei quattro criteri:
- che si tratti a tutti gli effetti di extrema ratio dopo avere esperito tutte le vie negoziali;
- che a deliberare la difesa in armi sia l’autorità legittima;
- che vi sia la retta intenzione di limitarsi a ripristinare la giustizia offesa;
- che si dia una proporzionalità tra il male che si è costretti a infliggere e quello cui si intende porre rimedio.
Un’evoluzione-articolazione della vecchia dottrina della «guerra giusta» che, giustamente, si predilige non nominare più così, per quanto, va rammentato, essa fosse stata elaborata non già per incoraggiare le guerre ma semmai per circoscrivere i limiti della sua legittimità.
La seconda ragione per cui si spiega un certo pluralismo di giudizi e di opinioni tra cristiani sta in una doppia incrociata dinamica.
Da un lato, una chiara linea di sviluppo del magistero della Chiesa e, segnatamente, dei papi (specie a partire dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII), che approda a una condanna sempre più netta della guerra moderna a sua volta riconducibile a due circostanze:
- lo sviluppo delle tecnologie belliche sino alle armi di distruzione di massa che inficiano in radice il criterio della proporzionalità;
- l’evoluzione e l’affinamento degli strumenti del diritto e delle sedi preposte a dirimere i conflitti che dovrebbero «archiviare» la guerra quale mezzo grezzo e anacronistico.
Ma, dall’altro, in senso per così dire estensivo, la suggestione dell’istituto del «diritto di proteggere» (così denominato dal diritto internazionale umanitario), della «ingerenza umanitaria» della comunità internazionale a fronte di genocidi, crimini contro l’umanità, gravi violazioni dei diritti inferte a persone e comunità che autorizzerebbero l’intervento anche coercitivo della comunità internazionale.
Ad esse fece un’apertura Giovanni Paolo II nel caso della Bosnia. Naturalmente solo quando ricorrono precise e accertate condizioni. Una tensione, un equilibrio tra opposte esigenze che si rinviene anche sul terreno «laico» della lettura-interpretazione dell’art. 11 della Costituzione: ripudio della guerra di offesa, eccezione per la guerra di difesa, cessione di sovranità a istituzioni internazionali che operano per la pace e la giustizia.
Naturalmente con la cura di definire quali e quando esse agiscono in concreto a quell’alto fine. Per esempio, distinguendo tra tali organizzazioni. Esemplifico: ONU, UE, NATO non sono la stessa cosa, hanno statuto e missioni diverse.
Esiste una differenza cristiana?
Dunque, si spiega un legittimo pluralismo delle opinioni tra i cristiani. Ciò non ci esonera dal domandarci se esista un unum necessarium, una «differenza cristiana». Un interrogativo pertinente in via generale che, a fortiori, ci si deve porre su una materia quale la pace e la guerra ove sarebbe singolare un totale allineamento al pensiero dominante, al senso comune, al giudizio mondano.
Solo qualche esemplificazione dello specifico (ancorché non esclusivo) cristiano: la pace è un valore («Cristo nostra pace»), la guerra un male estremo; la pace deve mettere le radici nel cuore e plasmare le relazioni brevi e lunghe (mediate dalle strutture sociali); si deve perciò contrastare il bellicismo degli animi, della cultura, del linguaggio; va esercitata una severa, attiva vigilanza su tutto ciò che può generare l’humus delle guerre ovvero ingiustizie, sopraffazione, produzione e commercio delle armi (opus iustitiae pax); vanno condannati la fabbricazione, il possesso e l’uso delle armi di distruzione di massa (andando oltre la sintesi conciliare della Gaudium et spes che lasciò insoddisfatti Lercaro e Dossetti) e dunque, in positivo, si devono sostenere i negoziati volti al disarmo degli arsenali chimici e atomici. Con la sua consueta franchezza, Francesco ha bollato come «follia» la corsa al riarmo.
Nel dibattito che attraversa la cattolicità italiana si dovrebbero evitare le semplificazioni e i paragoni azzardati. Un paio di esempi.
Antonio Polito, vicedirettore del Corriere, con intenti positivi, ha scritto che i «cattolici democratici» sarebbero i più decisi nel sostegno armato alla resistenza ucraina, ma, come spesso accade, par di capire – e con molta approssimazione – intendeva gli ex DC.
Per converso, il politologo Angelo Panebianco – è un suo vecchio mantra – bolla i cattolici come inclini a un pacifismo ingenuo e impolitico che, a suo dire, contribuirebbe a minare l’affidabilità atlantica del nostro paese.
Semplificazioni, appunto.
È auspicabile un confronto
Così pure, taluni amano dare una rappresentazione schematica delle articolate posizioni cattoliche sulla guerra in Ucraina come l’eredità lunga della dialettica De Gasperi-Dossetti. Di nuovo una semplificazione.
Vero è che Dossetti, da politico, si smarcò da un atlantismo acritico e, come accennato, da religioso, si mostrò insoddisfatto della sintesi conciliare che, a suo dire, avrebbe dovuto operare un coraggioso scatto evangelico nella più risoluta condanna delle guerre. Eppure Dossetti partecipò da protagonista alla lotta di liberazione. Dunque, non un cristiano ignaro della circostanza che la libertà talvolta va conquistata con la lotta armata.
Così pure è molto tirata la tesi di chi fa appello all’autorità di De Gasperi a sostegno delle tesi più interventiste di oggi. Basti un interrogativo: in quel contesto internazionale, da capo del governo (e per di più di un paese sconfitto), egli non poteva che essere decisamente atlantista e tuttavia, in quanto riconosciuto «padre dell’Europa» e fautore (inascoltato) della difesa comune europea, chi può dire con sicurezza come si regolerebbe oggi dentro un conflitto che manifestamente certifica una subalternità-irrilevanza della UE?
Ripeto: meglio non indulgere a schematismi e a paragoni fuorvianti. La comprensione delle ragioni per le quali, nel quadro di una comune e impegnativa tensione alla pace, si dà una legittima pluralità di opinioni anche tra cristiani su come regolarsi circa la guerra in corso gioverebbe alla qualità (e persino al tenore fraterno) del confronto.
Non capisco, francamente, di cosa stia parlando Franco Monaco. La questione l’ha affrontata papa Francesco una volta per tutte: nella “Fratelli Tutti” si dice chiaramente che la guerra giusta non esiste. Sono i paragrafi 255-262, collocati nel più ampio affresco di un modello nuovo di relazioni tra i popoli, unendo teologia morale e dottrina sociale. Questo è un passo avanti del Magistero. Perché nasconderlo? E’ un approccio che va assolutamente preso sul serio, invece di incastrarci su questioni oramai superate. Monaco è deludente questa volta e tutto il “calderone” di “politici” o esponenti “cristiani” che non considerano il Magistero di questo Papa (in linea tra l’altro, con i pontificati precedenti nella legittima evoluzione storica delle problematiche), ebbene non rendono un buon servizio alla causa dell’umanità. Penso che la direzione di “Settimana” non dovrebbe solo limitarsi a pubblicare: di fronte alla drammaticità dei fatti di oggi, di fronte al cambiamento epocale che stiamo vivendo, la direzione dovrebbe anche intervenire. Si ospitano articoli, certamente, ma non è tutto uguale e c’è una responsabilità editoriale da esercitare.
Non si avverte alcun bisogno che la direzione di Settimana “prenda posizione”: i suoi lettori hanno giudizio sufficiente per comprendere, valutare, farsi la loro posizione da sé. Settimana ospiti la pluralità – come sta facendo: di altro non abbiamo bisogno.
Quanto a Monaco, certo l’uomo è capace di testi molto più sostanziosi e robusti sul piano concettuale, ma quel che ha scritto in questo articolo basta e avanza per far comprendere – se lo si vuole, ovvio – quanto articolate siano le posizioni tra i cattolici, ciascuna con la sua ragionevole (e inevitabilmente parziale, cioè prospettica) legittimità.
Presentare e dare prospettive per capire la complessità è il compito di ogni giornalismo degno del nome. Il resto lo fa il lettore.
Grazie Settimana.