Il 4 febbraio 2016 il Parlamento europeo ha approvato una Risoluzione sullo sterminio sistematico delle minoranze religiose da parte del cosiddetto ISIS/Daesh. Viene così ribadita una «risoluta condanna del cosiddetto ISIS/Daesh e delle gravi violazioni dei diritti umani di cui si è reso responsabile, che equivalgono a crimini contro l’umanità e crimini di guerra ai sensi dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, come pure la necessità di adottare misure affinché il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite riconosca tali violazioni come genocidio (…)». Con questa deliberazione il Parlamento europeo è stata la prima istituzione politica a definire le violenze terroristiche di Daesh contro i gruppi cristiani, yazidi, turcomanni, sciiti, shabak, sabei, kakai e di quei sunniti che non si riconoscono nella sua rappresentanza dell’islam come genocidio.
Genocidio
Nel diritto internazionale il termine genocidio è fissato nell’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948). I criteri per poter parlare di genocidio, e prendere le misure corrispondenti a livello politico e giuridico internazionale, sono così descritti nell’articolo della Convenzione: «Si intendono per genocidio tutti gli atti riportati in appresso, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) imposizione deliberata al gruppo di condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) imposizione di misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di bambini da un gruppo all’altro». L’articolo III della medesima Convenzione afferma inoltre come perseguibili non solo gli atti che mirano direttamente al genocidio, ma anche la cospirazione e l’incitamento diretto e pubblico a commetterlo.
L’iniziativa del Congresso USA
Su questa base del diritto internazionale, e tenendo in considerazione tra l’altro tutta una serie di elementi e documentazioni prodotte tra il 2014 e il 2016, così come di testimonianze dirette, delle affermazioni di papa Francesco sulla sofferenza di «una violenza inumana» patita da cristiani, yazidi e altre minoranze nella regione, la Camera dei rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti, con l’adesione del Senato, ha approvato il 14 marzo 2016 una risoluzione in cui si afferma che «le atrocità perpetrate dal Daesh contro cristiani, yazidi e altre minoranze etniche e religiose in Iraq e Siria costituiscono crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio». Già il 7 dicembre 2015 la Commissione sulla libertà religiosa internazionale degli Stati Uniti aveva chiesto al governo federale «di designare le comunità cristiane, yazide, sciite, turcomanne e shabak dell’Iraq e della Siria come vittime di genocidio per mano del Daesh». Richiesta accolta, e ampliata a livello della comunità internazionale e delle Nazioni Unite, dalla risoluzione che chiede a «tutti i governi, incluso quello degli Stati Uniti, e alle organizzazioni internazionali, di chiamare le atrocità del Daesh con il loro giusto nome: crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio».
La risoluzione è consapevole che non ci si può fermare a livello di condanna giuridica, ma bisogna contribuire attivamente e concretamente con quei governi della regione interessata che si stanno adoperando per far fronte alla crisi umanitaria provocata dalla violenza terroristica del Daesh: «Il Regno di Giordania, la Repubblica libanese, la Repubblica della Turchia e il Governo regionale del Kurdistan in Iraq sono da encomiare e supportare nei loro sforzi per accogliere e proteggere le persone che fuggono davanti alla violenza del Daesh e di altre forze di combattimento, fino al momento in cui esse potranno tornare in tutta sicurezza alle loro case in Iraq e Siria».
In difesa della libertà religiosa
Da ultimo anche la Casa dei Comuni britannica si è espressa con una mozione indirizzata al governo Cameron in data 20 aprile 2016. «Questa camera crede che cristiani, yazidi e altre minoranze etniche e religiose in Iraq e Siria stiano soffrendo un genocidio per mano di Daesh. Essa chiede al governo di indirizzarsi immediatamente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con lo scopo di conferire l’appropriata giurisdizione in materia alla Corte penale internazionale così che i perpetratori possano essere portati davanti agli organi di giustizia».
Sulla base di una serie di iniziative già prese a partire dal 2014, e facendo leva su queste prese di posizione a livello internazionale, la sezione italiana della Fondazione di diritto pontificio «Aiuto alla Chiesa che soffre» ha aperto una campagna per richiamare «l’attenzione delle istituzioni italiane anzitutto perché la questione diventi centrale nella discussione in Parlamento e nelle altre sedi rappresentative. (…) Quel che accade oggi nelle aree descritte va riconosciuto come “genocidio”. Non è una battaglia confessionale: è una difesa della libertà religiosa, e quindi della libertà senza aggettivi. Ignorare quanto accade equivale a essere complici» (Il Foglio, 8 giugno 2016).
Nei vari interventi, come nel dibattito che ha dato forma alle varie e convergenti prese di posizione qui esposte, si può rinvenire un tratto comune: quello che unisce la questione, in regime di democrazia, tra la libertà di tutti e il diritto di esercizio da parte di alcuni della propria fede religiosa inscritta in tradizioni e costumi legati alla propria singolare storia culturale, spesso marginale e minoritaria all’interno del contesto in cui essa continua a radicarsi. Il significato strategico di questo intreccio per un’adeguata visione e gestione della politica estera e internazionale è stato colto da tempo nell’ambito delle istituzioni politiche e governative statunitensi.
Con l’International Religious Freedom Act (IRFA) del 1998 si sono creati gli strumenti necessari per collegare l’attività politica e diplomatica estera degli USA all’esercizio e salvaguardia della libertà religiosa nel mondo. L’IRFA ha infatti permesso la creazione di un Ufficio per la libertà religiosa internazionale, al quale è preposto un ambasciatore ad hoc, presso il Dipartimento di Stato del governo statunitense; la creazione di una Commissione indipendente sulla libertà religiosa internazionale per monitorare all’estero il diritto universale di libertà religiosa e confessione della fede; e chiede al Dipartimento di Stato di presentare annualmente un rapporto al Congresso sulla situazione effettiva della libertà religiosa a livello globale. Alla Commissione viene inoltre richiesto di proporre raccomandazioni sulle politiche estere statunitensi in materia che possono essere rivolte al presidente, al segretario di Stato e al Congresso.
Una politica comune europea?
A partire dalla situazione attuale in Medio Oriente, in particolare in Siria e Iraq, la Risoluzione del Parlamento europeo raccoglie, almeno in parte, l’esperienza quasi ventennale in atto presso le istituzioni governative statunitensi. Infatti essa «chiede all’Unione Europea di nominare un rappresentante speciale permanente per la libertà di religione e di credo». Si tratta certo di un primo e importante passo su questo tema a livello di politiche comuni europee, dove la religione era stata sostanzialmente lasciata a livello delle nazioni membro. Riconoscendo che «la persecuzione in atto dei gruppi religiosi ed etnici nel Medio Oriente è un fattore che contribuisce alla migrazione di massa e agli sfollamenti interni», si riconosce come la questione della libertà religiosa al di fuori dell’Unione Europea ha ripercussioni notevoli sui fragili equilibri raggiunti al suo interno; e che, quindi, anche in materia di religione sia necessario mettere mano a procedure e politiche di carattere unitario. È possibile che la pressione esercitata dalla condizione internazionale possa indurre a sviluppare un approccio veramente comune anche all’interno dei territori dell’Unione Europea. Cosa auspicabile, e direi quasi necessaria, dato il carattere oramai trans-nazionale che caratterizza la religione nella stagione globale e digitale.
Ma uno dei perni dell’IRFA si è rivelato essere la Commissione sulla libertà religiosa, nella sua indipendenza dal Dipartimento di Stato e al tempo stesso nella sua inserzione indiretta all’interno di esso – l’ambasciatore ad hoc che presiede l’Ufficio per la libertà religiosa internazionale è infatti ex officio membro senza diritto di voto della Commissione stessa. Già a livello dei membri della Commissione, nominati dal presidente degli Stati Uniti e dai leader dei due partiti presso il Congresso, la scelta «politica» ricade su persone con competenze professionali e organizzative in materia di religione e politiche internazionali. Aspetto questo che diviene preponderante, poi, nella composizione dello staff chiamato a supportare il lavoro della Commissione, dove si possono trovare anche competenze specifiche tra le varie teologie e nel campo delle scienze della religione, così come negli ambiti delle politiche e del diritto che toccano questioni religiose. Ed è probabile che un istituto di questo genere potrebbe rivelarsi significativo nell’accompagnamento del lavoro di un «rappresentante speciale permanente per la libertà di religione e credo» all’interno della Commissione europea, nel caso che gli stati membro dell’Unione raccolgano la richiesta esplicita in merito formulata dal Parlamento.
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