I lombardi al 40% e i veneti al 60% hanno votato. Per l’autonomia, come proclamano i vincitori e come titolano i giornali. L’esito era scontato, anche se le proporzioni, specie per il Veneto, reclamano grande attenzione. A partire dalla differenza dei risultati tra le due aree.
Certo, nei territori della Serenissima è più radicata la memoria della gloriosa indipendenza d’un tempo. Ed è noto che la rivendicazione leghista si è manifestata prima in Veneto che in Lombardia. Ma forse, mettendosi dalla parte degli elettori, non è stata ininfluente la presentazione del problema su cui si chiedeva il voto.
Reti larghe e reti a strascico
Come s’è notato alla vigilia, il quesito lombardo era relativamente circostanziato nella formulazione delle richieste da presentare a Roma in caso di vittoria: «ulteriori forme e condizioni di particolari di autonomia, con le relative risorse» in riferimento ad «ogni materia legislativa» per la quale la Costituzione (art. 116) prevede la possibilità di passaggio dalla “concorrenza” con lo Stato all’attribuzione in via esclusiva alle regioni.
Al contrario, il quesito veneto si fermava alla richiesta delle «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» senza altre specificazioni. Come dire: un po’ più di autonomia, ma senza circoscrivere l’ambito.
Applicando le tecniche della pesca, si potrebbe dire che a Milano avevano predisposto una rete a maglie larghe, mentre quella di Venezia era del tipo “a strascico”, di quelle che catturano anche i pesciolini. E in effetti l’elettore veneto era logicamente invogliato ad esprimersi con il “sì” su una suggestione che suonava come un “vuoi stare un po’meglio”? Come tirarsi indietro?
I “nove decimi”
Ad ogni modo, l’esito del voto è tale da non lasciare margini di incertezza. L’indicazione c’è stata ed è politicamente robusta. E ora si scoprono le carte, anche quelle tenute coperte durante il confronto elettorale.
Il più esultante, e a buon diritto, è il governatore veneto Luca Zaia, il quale non ha mancato di aprire subito l’involucro del quesito. Ha spiegato, infatti, che il Veneto chiederà al governo di demandare alla regione tutte le «materie di legislazione concorrente». E inoltre ha annunciato che chiederà di trattenere in Veneto i 9 decimi del gettito fiscale raccolto in regione. Ciò in ragione del fatto che la regione stessa non se la sente più di «finanziare gli sprechi di territori ormai tecnicamente falliti».
Priorità in trattativa
Meno dirompente, almeno nella forma, è il governatore lombardo, Roberto Maroni, per il quale è doveroso formulare la richiesta per tutte le 23 competenze finora «concorrenti», ma poi precisa di voler puntare su tre priorità: l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, nell’ottica del sostegno alle imprese e, soprattutto quello che chiama «il coordinamento del sistema tributario», che poi vuol dire «ridurre le tasse».
Sull’insieme dei problemi ora si aprirà un contronto-trattativa con il Governo ed è francamente difficile immaginare a quale esito potrà pervenire. Un riferimento utile potrà essere quello del “negoziato” già avviato con la Regione Emilia-Romagna, che peraltro è stato attivato, come la Costituzione consente, senza bisogno di consultazioni referendarie ma con una semplice deliberazione.
Il nodo del fisco
Per il momento l’unica linea di resistenza visibile è quella che riguarda il fisco, un capitolo che la Costituzione colloca tra le materie di esclusiva competenza statale. L’articolo 117 menziona espressamente in proposito il «sistema tributario e contabile dello stato» e la «perequazione delle risorse finanziarie».
Su questo fronte tuttavia – è facile prevederlo – avverranno i confronti più aspri, dato che, in fondo, il cuore della rivendicazione referendaria era quello dell’acquisizione di una maggiore quantità di risorse.
Ma, a parte l’ostacolo costituzionale, basterebbe un richiamo al buon senso per mantenere le prerogative dello Stato in materia di prelievo e redistribuzione delle risorse. L’argomento fu oggetto di polemiche quando, sotto l’impulso della Lega, allora al governo, si discusse a lungo di «federalismo fiscale» nell’ambito di una devolution di poteri mai effettivamente presa in considerazione.
Un vero federalismo
Volendo argomentare, ci sarebbe da valutare che cosa accadrebbe se ogni regione pretendesse di trattenere per sé la quasi totalità dei tributi riscossi sul suo territorio. E da considerare se non ne deriverebbe una violenta trasgressione dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» scolpiti nell’art. 2 della Costituzione; e che riguardano non solo le persone ma anche le comunità e le istituzioni che le governano.
Altro potrebbe essere il discorso se si ragionasse attorno ad un sistema compiutamente federale, intendendo però il vincolo federale (foedus) non come un modo di dividere ma di unire diverse entità autonome. In tal caso, effettivamente ogni regione imporrebbe e riscuoterebbe i tributi, ma dovrebbe versarne una quota ad un Fondo di solidarietà nazionale amministrato centralmente per garantire il bene comune.
Dentro la Lega
Il tema della solidarietà non dovrebbe essere estraneo ai due protagonisti della vicenda, Zaia e Maroni, che hanno ricoperto in passato responsabilità di governo nazionale. E non dovrebbe lasciare indifferente lo stesso più giovane leader della Lega, Matteo Salvini se non vuole entrare i collisione con il disegno (nazionale) che propugna: una «lega dei popoli», che tale non sarebbe se non oltrepassasse le chiusure particolaristiche.
Alcuni commentatori hanno letto nell’iniziativa referendaria leghista, e ora nel suo risultato, una sorta di ritorno alle origini del «secessionismo padano» annacquato dalla pratica di governo e dalle convenienze offerte dalla coabitazione berlusconiana. Alcuni toni della campagna e qualche eccesso declaratorio autorizzano a pensarlo, anche se tutti dicono che la Catalogna è altra cosa e che il loro atteggiamento è totalmente legalitario e costituzionale.
Le “piccole patrie”
Quello che è certo, anzi garantito, è che le percentuali dei due referendum saranno utilizzate senza risparmio nella prossima campagna elettorale. In due modi: se la “trattativa” darà i risultati sperati, si vanterà il successo ottenuto per via del peso del voto popolare; se i risultati mancheranno, si attribuirà l’intera colpa all’incapacità del governo di leggere gli autentici bisogni del popolo.
Il contesto non è favorevole alle istanze della solidarietà. È in atto un evidente declino dell’idea stessa degli stati-nazione così come si sono costituiti e strutturati nell’Ottocento; e, nel contempo, non si sviluppa la tendenza a superare le contraddizioni nel quadro più ampio di un federalismo intelligente a scala europea.
Il moto di protesta verso quelle che sono vissute come le prevaricazioni degli stati unitari si indirizza piuttosto o verso (ed è l’ipotesi più dolce) un’istanza di autonomie amministrative o verso (ed è l’altra ipotesi) il miraggio delle “piccole patrie”, immaginate come le isole felici nell’oceano di una globalizzazione senza bussola.
Tenacia e fantasia
In queste condizioni riuscire a leggere in spirito di autenticità l’indicazione delle due consultazioni settentrionali è impresa oggettivamente ardua sia per i vincitori sia per gli sconfitti, che peraltro… non esistono o quasi perché il più delle volte si sono allineati sulle posizioni dei promotori.
Lo stato delle forze politiche e delle energie culturali, anche in campo cattolico, non lascia intravedere una prospettiva di superamento della logica degli interessi contrapposti. Ma avere coscienza del fatto che il problema esiste e che occorre uno sforzo straordinario di energia (e di fantasia) per affrontarlo è già un incamminarsi sul giusto sentiero.