Sia l’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, sia l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, sono state interpretate dai governi e dalla grande maggioranza dei mezzi di comunicazione occidentali come un attacco alla democrazia.
Due attacchi alla «società aperta»
Già il 15 ottobre 2023, pochi giorni dopo il massacro in Palestina, il noto opinionista Sergio Fabrini, sul Sole24Ore – anticipando quasi alla lettera quanto avrebbe detto, qualche giorno dopo, il presidente americano Biden nel suo messaggio alla nazione –, segnalava che il vero obiettivo di Putin e del capo militare (ora anche politico) di Hamas, Yahya Sinwar, era in realtà l’eliminazione di due democrazie che li sfidavano proprio ai loro confini.
«Putin e Siwar», nota Fabrini, «condividono il disprezzo per le società aperte, dove gli individui sono protetti da diritti inalienabili rispetto a chi detiene il potere (secolare e religioso) (..). Ucraina e Israele sono democrazie, seppure imperfette, che sono l’opposto dei regimi autocratici (sia secolari che religiosi) che quei leader rappresentano».
Da qui la conclusione operativa: «Se la democrazia è la posta in gioco delle due aggressioni militari, allora è evidente che le altre democrazie non possono che sostenere Kiev e Tel Aviv».
È su questo assunto che si è fondata tutta la politica degli Stati Unti e dei suoi alleati della NATO nei confronti di questi conflitti. E ad esso hanno incessantemente fatto appello i due leader delle democrazie aggredite, il presidente ucraino Zelensky e il premier israeliano Netanyahu, instancabili nel ricordare all’Occidente che la posta in gioco delle rispettive guerre non era solo la difesa del loro paese, ma la causa della democrazia.
L’Occidente in difesa delle democrazie aggredite
Si spiega in quest’ottica l’appoggio incondizionato dell’Occidente e degli altri paesi del G7 che gli sono vicini, alla guerra degli ucraini per difendere la loro terra e a quella – anch’essa considerata sostanzialmente difensiva – contro Hamas nella Striscia di Gaza.
Per quanto riguarda la prima, le atrocità commesse dai soldati russi a Buča e le altre violenze contro i civili sono state coralmente denunziate. Un vero e proprio «cordone sanitario» di sanzioni economiche e di esclusioni dalla comunità mondiale è stato teso intorno alla Russia, fino all’esclusione dei suoi atleti da tutte le gare sportive internazionali.
Cifre astronomiche sono state investite – soprattutto dal Congresso americano, ma anche dai paesi europei – per dotare l’esercito ucraino dei più sofisticati armamenti, rendendolo competitivo con quello russo.
Quanto alla guerra condotta da Israele a Gaza, gli Stati Uniti hanno fin dall’inizio fornito miliardi di dollari di armamenti, per consentire all’aviazione israeliana di tempestare per dieci mesi, la Striscia (un territorio poco più grande di metà della città di Madrid) con 78.000 tonnellate di bombe (15.000 tonnellate sono l’equivalente della bomba nucleare che colpì Hiroshima) e condurre una campagna di terra che ha richiesto, data la sua durata, un continuo rifornimento.
Senza contare il sostegno politico e diplomatico dato dai governi occidentali, in particolare dal presidente Biden, che all’ONU ha bloccato con il veto ogni mozione di censura nei confronti di Israele.
Una differenza inquietante
Eppure, tra le due guerre «difensive» che l’Occidente sta sostenendo, c’è una differenza profonda. Perché nella seconda, di atrocità è accusato lo Stato democratico aggredito.
E non senza fondamento, stando alla sentenza con cui il 26 gennaio scorso la Corte Internazionale di Giustizia ha riconosciuto l’esistenza di un reale e imminente rischio, a Gaza, di genocidio nei confronti dei palestinesi, e alla richiesta avanzata il 20 maggio dal procuratore capo della Corte Penale Internazionale – il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità – di un mandato di arresto, nei confronti del premier israeliano Netanyahu e del ministro della Difesa Gallant, per «aver provocato lo sterminio, l’aver usato la fame come metodo di guerra, compreso il rifiuto delle forniture di aiuti umanitari e l’aver deliberatamente preso di mira i civili durante un conflitto».
E sempre nuovi dati si aggiungono ogni giorno a quelli drammatici già ampiamente accertati da tutte le organizzazioni internazionali indipendenti.
È stata pubblicata in questi giorni dal quotidiano israeliano Haaretz, l’unico grande giornale dello Stato ebraico critico nei confronti del governo, un’inchiesta che documenta l’uso sistematico di prigionieri civili palestinesi come «scudi umani» nella perlustrazione di tunnel sotterranei o altre zone a rischio nella Striscia di Gaza. Una pratica severamente condannata dalla comunità internazionale come un grave crimine di guerra.
A inizio luglio Al Jazeera aveva già mandato in onda un video dove si vedevano civili con le mani legate, mandati in avanscoperta tra le macerie di case distrutte. E anche allora aveva fatto grande impressione lo spettacolo delle condizioni miserabili di queste disgraziate cavie umane, di cui alcuni erano in mutande, altri indossavano l’uniforme dell’esercito israeliano, altri ancora avevano una telecamera legata addosso per permettere ai soldati fuori di vedere che cosa c’era all’interno del tunnel.
Ora però è un giornale d’Israele a denunciare coraggiosamente il ricorso a questi metodi, sulla base di un’inchiesta ampiamente documentata e suffragata da numerose testimonianze di soldati dell’esercito ebraico.
E tuttavia nei confronti di Israele, a differenza della Russia, da parte dell’Occidente non c’è stata alcuna condanna ufficiale, non si è mai parlato di sanzioni, né vi è stata alcuna esclusione a livello internazionale. Anzi, quando pochi giorni fa il sindaco di Nagasaki ha ritenuto preferibile, per evitare contestazioni, non invitare il rappresentante israeliano alla commemorazione della tragedia della sua città, quelli del G7 per protesta hanno disertato la cerimonia.
Certo, da parte dei governi amici – a cominciare da quello americano che spesso si è detto «dispiaciuto» e «preoccupato» – davanti ai dati innegabili c’è un certo imbarazzo e l’invito a chiudere al più presto questa spiacevole vicenda, ma i rapporti restano ottimi e Netanyahu è stato molto applaudito, durante la sua visita Stati Uniti, da deputati e senatori riuniti per ascoltarlo.
Quanto all’Italia, Giorgia Meloni, nel recente incontro con il presidente israeliano Herzog, «ha ribadito la vicinanza del Governo italiano ad Israele e la ferma condanna del terrorismo di Hamas», pur esprimendo «la forte preoccupazione per la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza», tacendo però pudicamente sul fatto che questa «situazione» era stata provocata da qualcuno e che questo «qualcuno» era precisamente il suo ospite.
Stiamo davvero salvando la democrazia?
Evidente il doppio standard di fronte a comportamenti che violano l’etica e il diritto internazionale. Questa diversità di atteggiamento, secondo le fonti occidentali ufficiali, è dovuta al fatto che la Russia è stata l’aggressore, mentre Israele è l’aggredito. E questo è sicuramente vero e va tenuto in conto. Ma, secondo l’etica e il diritto, la legittimità del comportamento di un paese in guerra non si può ridurre alla responsabilità o meno nel darle inizio (jus ad bellum), ma include il rispetto delle regole fissate dalle convenzioni internazionali circa il rispetto dei diritti umani (jus in bello).
Del resto, tutti ricordiamo perfettamente che gli Stati Unti del presidente George Bush Jr, nel marzo 2003, aggredirono unilateralmente l’Iraq, in base a prove dimostratesi poi del tutto false, senza che la comunità internazionale li isolasse e demonizzasse come sta facendo ora con la Russia.
No, il motivo di fondo del doppio standard dell’Occidente verso le due guerre è quello che si diceva all’inizio: Israele, come gli Stati Uniti, come gli Stati del G7, è una democrazia e perciò va difesa ad ogni costo.
E proprio l’inchiesta di Haaretz, per certi versi, è una conferma di questa tesi: nella Russia di Putin un simile servizio giornalistico non avrebbe mai potuto vedere la luce, anzi i suoi autori sarebbero finiti in Siberia.
Ma è sufficiente, perché una società sia definita «aperta», che solo una parte dei suoi cittadini siano «protetti da diritti inalienabili», per usare le parole di Fabrini? Già la legge costituzionale approvata nel luglio 2018, stabilendo «Israele come Stato nazionale del popolo ebraico», ha confinato gli arabi, che pure giuridicamente ne fanno parte, in un ruolo subordinato di cittadini di serie B.
Emblematica l’esclusione della lingua araba da quelle ufficiali dello Stato. «Israele è del popolo ebraico e di nessun altro», ha detto il primo ministro Netanyahu in quella occasione. Ed è di questi giorni un servizio di Francesca Mannocchi su La Stampa, dove si denunziano le condizioni spaventose in cui si trovano i non ebrei detenuti delle carceri israeliane.
Il punto è, come dimostrano le stragi di Gaza, che per gli israeliani i palestinesi sono esseri umani di una categoria inferiore. Non vogliono ucciderli – come facevano i nazisti nei loro confronti – perché li odiano. Ai loro occhi, evidentemente, contano troppo poco per essere oggetto di odio.
Per questo, in uno scambio di prigionieri, sono arrivati a liberarne mille in cambio di un solo israeliano. Per questo non sembra loro eccessivo averne uccisi 40.000, per vendicare i 1.200 morti del 7 marzo e liberare i loro 200 ostaggi.
È questa la democrazia che l’Occidente sta salvando, ad ogni costo. Ma siamo sicuri che corrisponda a ciò che intendiamo con questo nome? Non dovrebbero, i governi occidentali, proprio in nome della democrazia, decidersi finalmente ad imporre a Tel Aviv, con ferme misure – sospensione delle forniture militari, sanzioni economiche –, un radicale cambiamento di stile, sostenendo le forze culturali e politiche, che pure esistono all’interno dello Stato ebraico, decisamente critiche verso la politica di Netanyahu e degli ultra ortodossi?
Questo vale anche nell’ipotesi che i negoziati in corso portino a un cessate il fuoco. Il capitolo che in questo caso si aprirà non sarà meno problematico della guerra guerreggiata.
Non sarà facile far restituire ai legittimi proprietari le terre usurpate in tutti questi anni dai coloni israeliani e arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche quando le armi finalmente taceranno, e prima o poi accadrà, la violenza del «democratico» Stato ebraico continuerà ad operare in altre forme.
Anche a questo punto sarà necessaria una svolta da parte dell’Occidente, per tradurre nei fatti i valori a cui dichiara di ispirarsi. Altrimenti, invece di difendere il principio democratico, finirà per squalificarlo definitivamente, dimostrando che esso non mette al riparo chi lo sbandiera dal tradirlo nella realtà.
- Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 16 agosto 2024
Analisi e timori condivisibili, quando le armi taceranno (auguriamoci il prima possibile) sarà forse possibile fare il bilancio di responsabilità, omissioni e ipocrisie di fronte a una delle più terribili guerre che io ricordi, una guerra condotta da entrambe le parti senza alcun ritegno etico (oltreché legale) e senza alcun rispetto per le vite dei civili. Il lascito di odio e morte di questa guerra continuerà ancora a lungo a destabilizzare il Medio Oriente e a porre Usa ed Europa nella difficile condizione di dover spiegare il perché di tante ambiguità