Diario di guerra /54. Fumo nero nei polmoni

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hussein julood

Hussein Julood (Foto: Jess Kelly/BBC)

L’uomo dell’anno in Medio Oriente è, a mio avviso, l’iracheno Hussein Julood. Dopo aver speso tutto quello che aveva per curare e poi seppellire suo figlio Alì ventunenne, Hussein ha deciso di portare in tribunale la BP, ritenendola responsabile della morte per leucemia del figlio: malattia contratta, secondo i medici, per via della pratica – assurda anche dal punto di vista energetico – del gas flaring che inquina l’aria di chi vive nei pressi degli impianti, come i Julood vivono.

Questa tecnica consiste nel bruciare all’aperto i gas liberati dalla estrazione del petrolio. I prodotti della combustione sono, oltre alla solita anidride carbonica, l’ossido di carbonio, il carbonio (fuliggine), il metano incombusto, il benzene (cancerogeno) e altro ancora. L’odore che si diffonde nell’aria dalle torce del gas flaring è quello tipico dei copertoni bruciati.

La BP gestisce, insieme alla compagnia irachena Basra Oil Company, il più grande giacimento petrolifero iracheno, quello di Rumalia, a 50 chilometri dal confine con il Kuwait, capace di produrre fino a un milione e mezzo di barili al giorno. Il gas flaring è evitabile, ma è più facile e, evidentemente, conveniente fare così, piuttosto di lavorare e commercializzare i gas eccedenti o recuperarne l’energia: alla faccia del contenimento dei gas serra!

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Consapevole dei danni alla salute umana, la legge prevede che la vampa di questi gas non possa aver luogo a meno di dieci chilometri di distanza dai centri abitati. Il villaggio dove vive la famiglia Julood dista meno di cinque chilometri dai pozzi, da dove enormi colonne di fuoco e di fumo si levano verso il cielo per 24 ore al giorno.

Il piccolo Ali ha giocato a lungo a pallone, come tanti suoi amici, a due passi dalle colonne del fumo nero. A quindici anni si è ammalato. Il padre, per curarlo – sei anni di chemioterapia! – ha venduto tutto quello che aveva. Si è ridotto in miseria. Ma per suo figlio non c’è stato nulla da fare. La morte di Alì non sorprende, posto che, nella zona, il tumore causato dalle inalazioni è diffuso quanto l’influenza.

Hussein Julood ha speso i suoi soldi per assicurare a suo figlio un funerale come si deve, con una degna sepoltura. Poi ha deciso di rivolgersi a uno studio legale e ha fatto causa alla BP. Nessuna somma di denaro gli restituirà il figlio, ma lui ora vuole che altri genitori non vivano il dramma che lui ha vissuto. Dopo aver raccolto la documentazione necessaria, ha dato preventiva comunicazione alla compagnia, con una lettera del 22 aprile scorso: ma non ha avuta risposta. Così Hussein Julood ha deciso di procedere per le vie legali.

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Il muro innalzato dalla BP non si è dimostrato, però, impenetrabile. Benché neppure l’Agenzia France Presse sia riuscita ad ottenere riscontri dalla società petrolifera, la BBC – britannica come la British Petroleum – sì.

Il gigante petrolifero ha, infatti, dovuto spiegare alla BBC di non gestire direttamente il campo petrolifero di Rumaila, bensì di ricevere un canone per l’assistenza tecnica prestata ai suoi partner locali, ossia, soprattutto, l’irachena Basra Oil Company. La BP si definisce «appaltatore principale» del giacimento.

Hussein Julood ha fatto notare, in una lettera inviata al quotidiano The Guardian, che, nel solo 2020, i profitti messi a bilancio dalla BP per Rumaila ammontano a 358 milioni di dollari.

I vertici aziendali sono, naturalmente, al corrente dei pericoli derivanti dalla pratica del gas flaring e – hanno affermato – di stare stanno operando con i soci per modificare la situazione, precisando di aver già ridotto la combustione all’aria aperta del 65%, negli ultimi sette anni, e di lavorare con determinazione per ridurla ulteriormente. Ma ad oggi in Iraq i gas bruciati nell’aria dagli impianti di estrazione raggiungono i 18 miliardi di metri cubi: solo in Russia se ne bruciano di più.

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Sul tema, è intervenuto lo stesso premier iracheno, al Soudani, che ha promesso di portare a zero l’incendio di gas eccedenti entro un triennio, al massimo entro cinque anni. Poco dopo, il ministro della salute ha reso noto di aver convenuto con la Basra Oil Company di costruire un centro per la cura dei tumori, proprio nel sud del Paese, dove viveva Alì.

Il padre chiede che le compagnie petrolifere «provvedano assistenza medica gratuita a chi si ammala e si aiuti la popolazione indigente che non può andare a vivere altrove».

Ma ancora, ogni giorno, i bambini respirano i gas venefici che consentono alle compagnie petrolifere di incrementare i loro profitti dalla estrazione del petrolio. Un altro mondo è possibile? La sfida di Hussein Jalood è di quelle che – se hanno successo – fanno la storia.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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