Diario di guerra /57. Voci dal Libano (2)

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Porto al diario le voci dei miei amici di Beirut: abituati a convivere con la guerra e il suo possibile riapparire – in ogni momento − da tanti decenni, lo loro sono sorprendentemente voci serene, che non lasciano trasparire agitazione alcuna, sebbene il loro futuro non sia certamente colorato di rosa.

«Cosa c’è rimasto del mondo che conoscevamo? L’Occidente non esiste più, completamente dimentico dei valori che lo avrebbero fondato e sorretto. Anche il Global South non c’è più, posto che non pensa più di farsi fattore di trasformazione e, al più, cerca una camera di compensazione. Le classi sociali poi non sono più tali da tempo. Per non parlare di quello che per decenni è stato il nostro mito, l’Europa, che ora si ricorda di noi solo per fare passerelle elettorali, come recentemente ha fatto Ursula Von Der Leyen con la sua visita a Beirut, nella quale, con una bustarella di un miliardo di dollari spalmati su tre anni, ha inteso trasformarci in guardiacoste per fermare quei profughi che l’Europa contribuisce a causare, non capendo come si combattono i mercanti d’uomini. Tutto ciò che c’è rimasto è la Chiesa, quella cattolica, cioè l’universale. Lo dico io che sono cristiano, ma non cattolico. Per restare noi stessi e ritrovarci abbiamo solo la fratellanza di Francesco».

«Dovevi esserci pochi giorni fa, quando è venuto il nuovo facente funzioni di ministro degli esteri iraniano. Ha esordito ricordando che loro non condividono il piano di pace per Gaza presentato da Biden. Quella non è una pace accettabile, ha detto, quindi ha affermato che c’è solo la resistenza, cioè Hezbollah e la sua lotta senza quartiere a Israele e agli Stati Uniti. Il Libano deve esserne fiero e il mondo ci sarebbe grato di questo. Successivamente, in un inciso, verso la fine del suo discorso, ha aggiunto che il tavolo negoziale indiretto recentemente creato in Oman tra Iran e Stati Uniti resta funzionante nonostante la morte di Raisi, ma non ci sono novità al riguardo. Dunque, noi dovremmo essere fieri di morire per la guerra santa contro l’America mentre loro trattano con gli americani! E cosa trattano? Magari un assetto regionale in cui il Libano sia ancor di più nelle loro mani».

«Io non credo a scenari devastanti. Israele conosce benissimo il potenziale bellico di Hezbollah. Se non sono riusciti a sconfiggere Hamas in tutti questi mesi non capisco perché dovrebbero mettersi in una guerra totale e impossibile con Hezbollah. Neanche nel 2006 sono riusciti ad averne ragione. Possono colpirli, indebolirli, ma sanno benissimo che non hanno la possibilità di distruggerli».

***

Gli argomenti qui addotti dai miei amici sono, nella sostanza, non dissimili da quelli che molti analisti israeliani attribuiscono al premier Netanyahu, refrattario, in realtà, a nuove avventure.  E la conferma – giunta in queste ore – che il comandante in capo dell’esercito libanese, generale Joseph Aoun, sta partendo per Washington conferma che la gravità della situazione è indiscutibile, ma non tale da impedirgli di partire.

«Escludo che gli israeliani arriveranno a Beirut, questo lo ritengo fuori da ciò che è realistico. Siccome loro sanno che Hezbollah non si allontanerà dal confine, come richiesto dagli accordi internazionali vigenti, potrebbero pensare di rendere una fascia meridionale del Paese di fatto inabitabile, così da impedire ai miliziani di nascondersi tra i civili. Ma il loro problema è sapere che esiste Hezbollah e doversi regolare di conseguenza, non è meno grave del nostro, che dobbiamo conviverci quotidianamente, strada per strada. Noi sappiamo che il male non si estirpa dal mondo: bisogna ridurlo, contenerlo. Perché, alle volte, si pensa di averlo estirpato mentre ritorna sotto altre forme, magari anche peggiore di prima».

«Nessuno sa cosa accadrà, ma io temo che Hezbollah cominci a pensare più che alla guerra, per la quale ha già perso già 350 miliziani, alcuni dei quali di alto grado, al dopo guerra, quando vorrà mettere le mani sulla Presidenza della Repubblica del Libano, vacante da un ottobre 2022. Per eleggere il Presidente occorre un accordo parlamentare che non c’è. Loro – quelli di Hezbollah – non sono disponibili ad un accordo che non sia sul loro unico nome. Così siamo nella paralisi e continueremo a starci. Ma l’altro giorno il loro leader, Hasan Nasrallah, ne ha detta una che mi ha fatto tremare. Ha detto che loro sono di più e quindi hanno diritto ad esprimere il presidente. A chi si riferiva? Agli elettori della sua coalizione? Non credo proprio, loro sono di meno, non di più. Si riferiva agli sciiti, di cui si ritiene la sola legittima espressione. Questo linguaggio prepara la guerra di cui nessuno parla: una guerra civile».

Nel disastro di ciò che è stato il grande Levante – uno dei polmoni, da sempre, dell’umanità, oggi ridotto in macerie – recupero, nelle voci dei mei amici, la traccia di quella antica saggezza che non produce solo un po’ di sangue freddo, ma anche la consapevolezza che si vive, da sempre, in bilico: col peggio sempre in agguato, anche quando il pericolo appare appena scampato.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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