Il popolo sovrano che ha votato il 4 marzo ha ripartito il grosso dei consensi tra due forze politiche: il Movimento 5 Stelle e la coalizione di destra. Grande sconfitto il PD, che striscia al di sotto del livello del 1913.
L’analisi o, se si vuole, l’autopsia del voto non rivela molto di più di questi elementi. Il primo del quale è dunque che, da un punto di vista numerico, vi sono due vincitori, uno come partito singolo e uno come alleanza di partiti. E il secondo è che tali due vittorie non producono niente di efficace se non il fatto che nessuno dei due poli riesce, sulla carta, ad avere una maggioranza per formare il governo.
Il precedente del 1976
Non è una situazione inedita. Molti ricordano che nel 1976 fu Aldo Moro (memento: il 16 marzo sono quarant’anni dall’eccidio di Via Fani, antefatto del suo assassinio) a parlare dei “due vincitori” per descrivere l’esito elettorale che aveva premiato sia la DC che il PCI, i due partiti impegnati allora in un confronto che avrebbe dovuto condurre a un’intesa anche di governo.
Contesto diverso dall’oggi: altre tensioni, altre preoccupazioni, altre speranze, altre paure. Inutile insistere sull’analogia. Se non per un aspetto che non è soltanto formale.
Una situazione come quella descritta in un regime parlamentare con una legge proporzionale fa emergere il ruolo del presidente della Repubblica.
Il quale ha davanti a sé due strade: o richiede agli elettori una prova d’appello con nuove elezioni generali, oppure mette in azione tutte le risorse formali e informali connesse alla sua carica per costruire un’intesa per avviare una nuova esperienza di governo.
Il “potere di coalizione”
Può essere la “grande coalizione” quando, come è accaduto in Germania, l’intesa coinvolge quasi tutte le forze in campo; o può essere una coalizione più ristretta che sia in grado però di condividere un programma ed una struttura di governo.
L’esperienza italiana presenta al riguardo una grande varietà di versioni, alcune delle quali prevedono l’ingresso in scena di un soggetto terzo, dunque uno degli sconfitti, che però sia in grado di fornire idee e voti per superare lo stallo. In tal caso si dice che esercita un “potere di coalizione”.
Coalizione e interdizione
In Italia, per rimanere alla fase del dopo Moro, tale esperienza si manifestò con il conferimento dell’incarico di governo a Giovanni Spadolini, capo del minuscolo Partito Repubblicano, che si trovò nella condizione di fungere da temporaneo ago della bilancia.
Ma fu soprattutto Bettino Craxi a far pesare i pochi seggi conquistati sul campo dal suo PSI per impedire (o scongiurare secondo le preferenze) che si celebrasse il da lui deprecato connubio tra la DC e il PCI.
Si stabilì infatti un rapporto preferenziale tra il gruppo di comando della DC, succeduto a Zaccagnini, e il leader del PSI. Che affermò il suo ruolo di coesione e insieme di interdizione fino ad assumere in prima persona la guida del governo e poi a condizionare la vita dei governi successivi, nella fase detta del “pentapartito”.
Un ruolo per lo sconfitto
Perché questo indugiare su un precedente remoto e archiviato? Perché il quadro uscito dalle elezioni del 4 marzo scorso presenta, in linea teorica, l’eventualità dell’intervento in scena di un soggetto, il PD, che non è stato premiato dal voto ma che ha tuttavia raccolto un nucleo di seggi che sarebbero indispensabili a ciascuno dei due vincitori per realizzare una maggioranza di governo.
D’altra parte, la logica con cui, a tutti i livelli, è necessario muoversi dopo la fase dello scontro intransigente non può che essere quella della limatura, dell’ammorbidimento, della comparazione costruttiva delle ipotesi e delle soluzioni.
E questo in particolare è il lavoro del presidente della Repubblica, il quale si può avvalere di numerose modalità di indagine per accertare se esistano o meno le volontà di mettere insieme i pezzi del puzzle prima di passare ad un secondo “rompete le righe”. Che però darebbe via libera a tutte le pulsioni di rivincita rianimando gli spiriti animali che circolano e contano anche in politica.
Promesse da sfrondare
È realistico parlarne? Un elemento che lo consiglia è che entrambi i vincitori si sono sbilanciati, nella fase elettorale, in una batteria di promesse o politicamente poco credibili o economicamente non sopportabili. Sfrondare i programmi dal sovrappiù di propaganda che li ha appesantiti potrebbe persino essere un bisogno comune.
E qui il potere di coalizione che potrebbe giocare il PD – perché di questo si tratta – avrebbe anche come fine secondo, ma non secondario, quello di riavvicinare l’azione di governo ad una visione realistica dei problemi del paese, perseguendo e facilitando le mediazioni e le gradualità indispensabili al conseguimento dei fini concordati.
Difficoltà evidenti
Naturalmente la ricerca di una simile via d’uscita presuppone la disponibilità di tutte le forze interessate e la volontà di non usare il tentativo a fini utilitaristici e strumentali.
Ci sono le condizioni? È presto per azzardare una risposta. Né è semplice smantellare l’edificio costruito per prendere voti o almeno ridurne il coefficiente d’ingombro in modo da convincere gli interlocutori.
Esempio: chi ha ostentato in campagna elettorale un progetto completo… di accessori non può non considerare l’opportunità di liberare qualche posto di ministro per i possibili compagni di viaggio.
La stessa scelta del numero uno non può che essere subordinata ad un’esigenza di bene comune nella situazione data. Non si può trapiantare il pensiero monocolore in un habitat necessariamente plurale.
Decantazione necessaria
Nessuno toglierà ai vincitori gli allori della vittoria se mostreranno di saperla amministrare con saggezza e generosità. E d’altra parte nessuno potrà criticare il PD se utilizza la sua presenza residua nelle istituzioni per risparmiare al paese nuove incontrollabili tensioni.
Ci sarà, se ci sarà, una fase di decantazione; e quanto durerà? Certamente non agevolano il compito del presidente della Repubblica le professioni di ostilità verso un’ipotesi che non sia, al dunque, la cristallizzazione delle posizioni con cui ci si è presentati agli elettori.
È comprensibile che un tale atteggiamento faccia capo ai settori più oltranzisti della Lega e dei 5 Stelle, per i quali è “inciucio” ogni parvenza di intesa, non importa con chi.
La posizione di Renzi
Meno spiegabile è che una posizione così negativa sia assunta dal responsabile del PD, in nome di un impegno che pare ispirato più da retorica elettorale che da una seria motivazione politica. Non trova spiegazioni plausibili la dichiarazione con cui Renzi afferma di voler condurre in prima persona – e sugli spalti dell’intransigenza – la fase delle consultazioni del Quirinale, salvo dar corso successivamente all’annuncio delle dimissioni da segretario.
Oltretutto sembra un modo per legare le mani a chi assumerà l’onere di guidare il partito dopo la disfatta.
Governo delle astensioni?
Se poi c’è il timore che la smania di potere faccia premio sul dovere civico di contribuire al bene comune (tradotto: i maggiorenti del PD non saprebbero restar fuori da un governo e accetterebbero qualsiasi condizione per evitarlo) vorrebbe dire che non c’è rimedio, su quelle sponde di un prospettiva di tracollo finale senza speranza di ragionevole ripresa.
Vi sono d’altra parte tanti modi per garantire la nascita di un governo senza entrare nel circuito del potere o addirittura rimanendo all’opposizione. Tra l’altro il nuovo regolamento del Senato ha parificato l’astensione al voto favorevole, come avviene già per la Camera. Un viatico per una riedizione del “governo delle astensioni”?
Una sessione di verifica
Piuttosto il PD ha bisogno – e non è da oggi che lo sostengo – di una sessione intensa e prolungata di verifica di quanto è accaduto, a partire almeno dalla sconfitta nel referendum sulla riforma della Costituzione in qua.
La discussione sulla leadership di Renzi riguarda infatti la sua capacità e la sua volontà di tenere unito il partito anziché cedere alla proclamazione per cui «se quelli se ne vanno siamo più forti».
A dire il vero non si sono fortificati né quelli che se ne sono andati (rimasti strizzati in LEU) né quelli che sono rimasti, a riprova che nelle grandi organizzazioni ogni scissione è una sconfitta per tutti.
E occorrerà individuare una pista nuova e un pilota adatto al ruolo di ricostruttore più che di rottamatore se si vorrà che il PD recuperi o, dove necessario, acquisisca le energie intellettuali ed etiche per individuare le coordinate di una politica che sappia rianimare un’autentica prospettiva di libertà e di giustizia.
“Ora tocca a qualcun altro” abbiamo letto ieri su un quotidiano.
E, da elettrice del PD – e da “sempre”, dagli anni delle sezioni giovanili della sinistra DC di Zaccagnini – sono più che d’accordo. Ma perché mai, in nome di un fantomatico “argine” alla realizzazione di sciagurate promesse elettorali, un partito dovrebbe ulteriormente colare a picco? (A Trento il seggio di Degasperi è andato alla Lega e ha perso una candidata proveniente dal movimento di Chiara Lubich …).
Anni al governo con alleati che hanno legato mani e piedi (pensiamo allo ius soli …) dovrebbero aver insegnato qualcosa. Il voto ha indicato vincitori e sconfitti sulla base (o almeno si spera) della condivisione di programmi elettorali ben precisi.
Ora, se anche un partito dovesse mettere da parte tutti gli insulti ricevuti in questi mesi da parte di chi oggi ha vinto – questo in nome del bene comune si potrebbe fare come no – ma come potrebbe avvallare a scatola chiusa delle promesse elettorali che porterebbero l’Italia allo sfascio?
Siamo affossati dal debito pubblico dagli anni del craxismo e giù, come si farebbe ad approvare provvedimenti volti solo ad aggiungere in breve tempo altri zeri?
Non solo un economista come Monti, ma qualunque studente di economia o neolaureato sa benissimo che introdurre flat tax e reddito di cittadinanza sarebbe una sciagura.
Abbiamo visto una campagna per l’abolizione della legge Fornero il che significa che era tutto centrato sui (presunti) diritti dei più vecchi, ma ai giovani chi ci pensa? Saranno loro a doversi fare carico degli errori e delle promesse da favola che hanno portato a questo risultato.
Dialogo sì, connivenza no. Se cambiano le condizioni, e soprattutto i programmi, le intenzioni e le priorità, se ne potrà parlare.