Certi relatori e relatrici sono capaci di conquistare il pubblico fin dalle prime battute. A me un’esperienza simile è capitata ascoltando la professoressa Clara Mattei quando, al Festivaletteratura di Mantova del settembre scorso, ha presentato il suo libro L’economia è politica.
La Mattei è uno dei nostri giovani “cervelli in fuga”. Laureata in filosofia, si è poi specializzata con un dottorato in economia. In seguito, l’incontro fortuito con la New School for Social Research di New York è stato l’occasione per emigrare definitivamente negli USA. Qui ha potuto sviluppare, nei suoi studi di economia, un taglio decisamente non convenzionale e controtendenza, cosa che, a detta della stessa Mattei, non avrebbe potuto fare nel mondo accademico italiano.
Il talk di Mantova, come anche altri che in seguito ho ascoltato online, aveva preso spunto dal conflitto israelo-palestinese. La relatrice, dopo aver esordito con un accorato appello per la cessazione del massacro di civili innocenti in Medio Oriente, aveva invitato i presenti a sostenere la Palestine Red Crescent Society, la Mezza Luna Rossa equivalente musulmana della nostra Croce Rossa.
Le parole di Clara Mattei mi erano sembrate decisamente fuori dagli schemi. Solitamente da un’economista ci si aspetta una relazione distaccata, basata su cifre e grafici. La professoressa italo-americana si era lanciata invece in un’appassionata difesa delle innocenti vittime palestinesi. Sentendola parlare avevo percepito il fervore di una madre che non può tollerare di vedere la sofferenza di migliaia di bambini massacrati dalle bombe.
Per una serata dedicata ai temi dell’economia quella era stata un’apertura sui generis. Inizialmente avevo immaginato che si trattasse di un “fuori tema” per richiamare l’attenzione su di un argomento drammaticamente attuale. Poi, ascoltando l’intera relazione dell’economista, ho capito che c’è un nesso inscindibile tra le guerre, come quella di Gaza, e il nostro sistema economico.
«Il capitalismo» – chiarisce la Mattei – «non è fondato sulla risposta ai bisogni dell’essere umano bensì sull’aspettativa di un profitto. E non c’è niente che garantisca maggiori aspettative di profitto di una guerra tra i poveri nel sud del mondo». Questa idea è supportata anche dai numeri. Basta andare a vedere quotazioni, fatturati e profitti delle industrie belliche negli ultimi mesi per rendersene conto. Milano-Finanza, nel novembre 2023, titolava con queste parole: «Armi, Leonardo e le 70 azioni più importanti al mondo sono balzate fino al 325%».
Tutto il lavoro di Clara Mattei, basato su una meticolosa ricerca storica e documentale, ruota attorno alla demistificazione dell’idea di un capitalismo inteso come sistema naturale, immutabile e quindi non contestabile. L’ordine del capitale, come lo chiama l’economista, «ha una natura essenzialmente relazionale, quindi politica» e la ricchezza capitalistica è «inscindibile dalla produzione di disuguaglianza e alienazione umana». Uno dei cardini del sistema capitalistico è la disoccupazione: senza di questa il sistema non potrebbe esistere.
Ad alcuni la tesi potrebbe apparire molto radicale. Ma, in realtà, si tratta di un concetto che, come riporta testualmente il libro della Mattei, compare apertamente anche in dichiarazioni di parte imprenditoriale: ad esempio, l’imprenditore australiano Tim Gurner, intervenendo al Property Summit dell’Australian Financial Review 2023, aveva dichiarato: «Abbiamo bisogno che la disoccupazione cresca. La disoccupazione deve schizzare al 40-50 per cento. […]
I governi di tutto il mondo, infatti, stanno cercando di far alzare la disoccupazione per riportare la situazione alla normalità».
Nel “Mattei pensiero” il tema dell’austerità è un elemento centrale. Quando ci propongono le “politiche di austerità” noi le percepiamo come scelte che, sebbene dolorose, sono finalizzate alla crescita dell’economia, quindi, in ultima istanza, al nostro bene. Anche in questo caso l’interpretazione dell’economista italo-americana rovescia completamente il punto di vista: «L’austerità gestisce l’economia nel senso più radicale del termine: produce precarietà, ci rende docili e controllabili» – scrive l’economista nel suo libro – «la sua funzione a difesa del sistema emerge in maniera palese in alcuni momenti chiave in cui l’ordine del capitale è sotto attacco».
“Per molti ma non per tutti”, diceva una pubblicità: ascoltando l’economista mi è tornato in mente quel vecchio spot di un famoso spumante. Le politiche di austerità sono un po’ come quello slogan, poiché, come dimostrano gli studi della Mattei, l’austerità colpisce sempre la maggioranza delle persone, ovvero quelle che vivono del proprio lavoro, ma lascia indenni coloro che si arricchiscono coi profitti finanziari.
L’austerità, secondo la professoressa di New York, poggia su tre assi portanti: quello fiscale, quello monetario e quello industriale. La dimensione fiscale rappresenta l’abbattimento delle tasse che, in modo del tutto ideologico, viene giustificato dal rilancio dei consumi. Peccato che le uniche tasse a calare siano solo quelle dei miliardari che vivono di rendita. A sostegno di questa tesi possiamo citare i dati Oxfam secondo i quali «su scala globale, le imposte pagate dai milionari equivalgono allo 0,5% della loro ricchezza» (fonte Avvenire, 24 luglio 2024).
Le politiche monetarie, ovvero gli alti tassi di interesse, sono il secondo cardine dell’austerità. Il rialzo dei tassi viene giustificato per combattere l’inflazione. In realtà, secondo la professoressa Mattei, l’austerità monetaria è una scelta mirata a colpire i lavoratori. Quando l’inflazione aumenta, i lavoratori, ovvero coloro che sono maggiormente colpiti, si mobilitano: crescono le rivendicazioni salariali, aumenta la sindacalizzazione, si diffondono manifestazioni e scioperi. L’antidoto a questo è il rialzo dei tassi di interesse che, andando a contrarre la crescita, causa un aumento di quella disoccupazione che è la linfa vitale del nostro sistema economico. Solo un’elevata disoccupazione garantisce al sistema un elevato numero di lavoratori che, dovendo sbarcare il lunario, accettano condizioni degradanti senza protestare. L’austerità monetaria è il vaccino col quale il sistema si protegge dalle contestazioni nei momenti di crisi.
Infine, ecco l’austerità industriale, ovvero la privatizzazione delle aziende e dei patrimoni pubblici. Solitamente queste misure ci vengono proposte con l’intento di abbattere il debito ma si tratta di un enorme inganno: «le privatizzazioni» – sostiene Clara Mattei – «non equivalgono a “meno Stato più Privato” bensì allo Stato che attivamente decide di svendere ciò che è dei cittadini, a favore dei privati per il loro incremento di profitto».
Le considerazioni dell’economista di New York suonano così in controtendenza rispetto al mainstream del pensiero economico, che anch’io faccio quasi fatica ad accettarle. Pensando alla spirale del debito pubblico, avevo interiorizzato l’idea che, tutto sommato, i sacrifici dell’austerità fossero un male necessario. Quando ho avuto la possibilità di parlare con la professoressa Mattei, anche questa mia convinzione è stata sfatata.
«Durante gli anni della presidenza Reagan, ovvero quelli della deregulation e dei tagli alla spesa pubblica» – mi ha spiegato l’economista – «il debito americano è cresciuto più che mai». Non esiste dunque nessuna correlazione tra l’austerità e la riduzione del debito. Negli anni della Reaganomics, mentre la spesa sociale veniva drasticamente tagliata, il debito pubblico USA cresceva del 189% sulla spinta della spesa per gli armamenti.
È evidente, dunque, che l’austerità è “per molti ma non per tutti”: se i sacrifici e i tagli fossero realmente necessari allora dovrebbero colpire tutte le voci di bilancio e non solo quelle dell’istruzione, della sanità e dei servizi sociali.
«Nel 1989 credevamo che avesse vinto la democrazia, invece aveva vinto il capitalismo»: queste parole non sono più di Clara Mattei bensì dell’ex ministro Rosy Bindi. La sua frase mi è tornata in mente mentre leggevo il libro dell’economista. Per molti decenni siamo stati indotti a credere che tra democrazia e capitalismo ci fosse un legame inscindibile. Il nostro modello economico ci è sempre stato presentato come il baluardo a difesa dei nostri sistemi democratici. In realtà, la nostra economia non contiene nessun elemento di democrazia. Secondo l’economista italo-americana, l’economia plasma la politica a proprio beneficio.
Le ultime pagine del libro di Clara Mattei citano, non a caso, il filosofo morale Zino Zini che nel 1919 scriveva: «Il cittadino così come viene visto in una democrazia capitalista, è un individuo astratto, teoricamente sovrano, di fatto non è tale che il giorno delle elezioni, tutto il resto del tempo non è che un soggetto subordinato a leggi e regolamenti, redatti e promulgati al di fuori del suo effettivo concorso».
Tutto il lavoro di Clara Mattei rappresenta, allora, il tentativo di farci riflettere sulla necessità di politicizzare l’economia, ovvero di democratizzarla. Un sistema economico dovrebbe essere “creato” dagli uomini per rispondere ai bisogni degli uomini. Il nostro attuale modello di sviluppo, apponendo la logica del profitto dinnanzi al valore degli esseri umani, non assolve a questa funzione. Ma l’economia è solo un fenomeno sociale e, come tale, è possibile cambiarlo.
Clara Mattei non ha risposte preconfezionate, non ci vuole vendere un sistema economico “chiavi in mano”. Nelle ultime pagine del suo libro dice esplicitamente che la Russia sovietica e la Cina sono state solo false alternative. Per contro l’economista italo-americana propone esempi virtuosi nati dal basso come «i consigli di vicinato in Cile che vedono la partecipazione dei cittadini a regolari assemblee per organizzare mense autonome, asili, oltre alla gestione economica del proprio territorio». Un altro esempio che l’economista cita molto spesso è quello della GKN di Firenze dove i lavoratori, a fronte della chiusura dello stabilimento, si sono organizzati dal basso e, nei mesi scorsi, hanno raccolto più di 1 milione di euro di azionariato popolare.
L’approccio che propone è, in un certo senso, rivoluzionario. Non è un caso se il termine «rivoluzione» compare nelle ultime pagine del suo ultimo libro. Tuttavia, il senso che l’economista attribuisce a questo termine è molto diverso da quello che conoscevamo nel Novecento.
La rivoluzione che ci propone Clara non è la conquista di un palazzo del potere, ma è piuttosto qualcosa che deve partire dal di dentro di ciascuno di noi. Il primo passo è quello di rivoluzionare le nostre menti per rimuovere quegli stereotipi che ci presentano il capitalismo come il migliore dei sistemi possibili. Il secondo passo, che traspare dagli esempi virtuosi citati dall’economista, è quello di rivoluzionare le nostre vite per iniziare – dal basso e in modo collaborativo – a ricreare un’economia che sappia mettere al centro i bisogni dell’essere umano invece del profitto.
Riflettendo su tutto questo ho pensato che, molto spesso, siamo portati a respingere l’economia e la politica come qualcosa che, per non sporcarsi le mani, bisogna evitare. Molti di noi, nella migliore delle ipotesi, tendono a rifuggire questi temi perché li considerano qualcosa per “addetti ai lavori”. In realtà l’economia e la politica sono qualcosa che ci riguarda da vicino. “I care” avrebbe detto Don Lorenzo Milani. Il sistema economico è l’ambito nel quale noi ci rapportiamo coi nostri simili, con la natura – la cura della casa comune – e con le generazioni future alle quali dovremo lasciare questa casa. Dunque, possiamo dire che il modo di rapportarsi all’economia, in ultima istanza, attiene al modo con cui ci rapportiamo al messaggio evangelico.
In quest’ottica tutto il pontificato di Papa Francesco rappresenta un invito a superare l’iniquità dell’attuale modello economico: «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Evangelii Gaudium).
Le parole di Francesco non sono ovviamente quelle di un economista. Ma il suo magistero, in molti casi, mette il dito nelle piaghe del sistema economico. In quest’ottica le politiche di austerità assomigliano molto a quella «lunga, costosa e apparente cura» che «potrà solo generare nuove crisi» della quale si parlava già nella Laudato Si’: «La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura».
Il capitalismo non è certo il migliore dei sistemi economici ipotizzabili ma, al momento, risulta il meno peggio dei sistemi economici realizzati. Le alternative virtuose citate nell’articolo (visto che la Russia sovietica e la Cina maoista sono giudicate false alternative) sono quanto mai risibili: i consigli di vicinato in Cile (che sembrano riportare alla civiltà contadina) e il caso GKN (in cui il lodevole attivismo dei lavoratori non ha concretamente portato ad alcun risultato economico).
Concordo che l’alternativa al libero mercato selvaggio, assolutamente necessaria, non può che venire dalla politica, ma in un mondo in cui l’economia è ampiamente globalizzata la politica potrà essere efficace e recuperare il primato sull’economia solo se saprà globalizzarsi a sua volta, con istituzioni sovranazionali forti e coese. Cioè tutto il contrario di quanto avvenuto da parecchi anni e continua ad avvenire un po’ ovunque (putroppo anche in Italia ed in Europa).
Sono d’accordo con quanto hai scritto. Aggiungo che il moderno sistema capitalista, oltre al vaccino dell’austerity, ha anche sviluppato un forte sistema immunitario che consiste nel totale controllo e plagio di tutti i moderni sistemi di comunicazione di massa, attraverso i quali educa le nuove leve e orienta tutti quotidianamente con messaggi che promuovono il capitalismo radicale, messaggi che valorizzano solo l’arricchimento a qualsiasi costo e il mero egoismo. Equità, solidarietà, bene comune (primo principio insegnato al corso di scienze politiche) sembrano termini obsoleti, rispolverati solo nelle feste natalizie e poi rimessi in soffitta. Senza la possibilità di arrivare a tutti con un’informazione alternativa è pressoché impossibile cambiare.