Vittorio Marletto, Giulio Marchesini, Margherita Venturi fanno parte della Associazione di promozione e diffusione della cultura scientifica Energia per l’Italia. Il loro testo, una analisi critica al Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) del Governo, è curato da Giordano Cavallari. Gli stessi autori hanno redatto un testo analogo a proposito dell’energia nucleare.
Oltre vent’anni fa, nel 2002, quando il grande sviluppo delle energie rinnovabili non era ancora in atto, quando non erano neppure così chiare le implicazioni climatiche delle emissioni di gas serra dovute al consumo di energia fossile, e si discuteva soprattutto di picco temporale del consumo di petrolio, uscì un celebre libro, tradotto in più lingue, intitolato Economia all’idrogeno, scritto dell’economista e attivista Jeremy Rifkin. Nel testo Rifkin preconizzava lo sviluppo di una rete di scambio globale dell’idrogeno al posto del petrolio, che in analogia all’allora neonato www (worldwide web), battezzava wew (worldwide energy web).
All’epoca, Rifkin era tra i consiglieri di Romano Prodi, Presidente della Commissione Europea, per cui si impegnò nella scrittura di un libro bianco dell’Unione per un piano di ricerca e sviluppo, multimiliardario, di transizione energetica secondo il paradigma economico dell’idrogeno verde.
Ricordiamo che Rifkin partecipò insieme a Prodi a una conferenza nell’ottobre 2002 annunciando «un piano coordinato a lungo termine dell’Europa, per l’emancipazione dalla dipendenza dai combustibili fossili e per fare dell’Europa la prima superpotenza mondiale dell’economia a idrogeno del 21° secolo». Prodi ebbe a dire che l’iniziativa di ricerca e sviluppo dell’idrogeno dell’Unione sarebbe stata tanto significativa per il futuro dell’Europa quanto lo era stato il programma spaziale degli Stati Uniti negli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Le previsioni di Rifkin e Prodi, di per sé lodevoli, – lo osserviamo oggi – sono ben lontane dall’essersi realizzate, anche perché le grandi industrie del fossile – gas e petrolio – hanno allontanato la soglia dell’esaurimento di queste risorse, moltiplicando le perforazioni e adottando la tecnica, maggiormente invasiva, della fratturazione idraulica degli strati rocciosi del sottosuolo, il cosiddetto fracking.
Nel frattempo, le produzioni da fonti rinnovabili hanno conosciuto nel mondo una notevole espansione, difficilmente e obiettivamente inimmaginabile nel 2002 da parte di Rifkin e di Prodi, il che sta facilitando l’elettrificazione in diversi ambiti – allora non contemplati – quali i trasporti a motore elettrico e il condizionamento domestico con pompe di calore, sempre a motore elettrico.
La narrazione politico-mediatica sull’idrogeno
L’idrogeno, tuttavia, rimane ben presente nei grandi piani nazionali e transnazionali. L’Europa si concentra ancora sulla disponibilità di questa molecola, che è – lo sottolineiamo – un vettore e non una fonte di energia, per abbattere le emissioni climalteranti, specie nei settori industriali più energivori e molto emissivi di CO2, quali ad esempio quello siderurgico, ancora oggi largamente dipendente dal carbone (cf. qui).
Nella narrazione politica e mediatica corrente – scientificamente poco informata – l’idrogeno è, dunque, presentato come una sorta di carburante-rimedio di tutti i mali, in grado di surrogare il petrolio e il gas senza criticità, come se si potesse tranquillamente iniettare idrogeno nel serbatoio dell’auto al posto della benzina, o bruciarlo direttamente nei nostri fornelli e caldaie di casa.
A tale narrazione sono sottratte, volutamente o meno, almeno due informazioni fondamentali: la prima riguarda il fatto che l’idrogeno non si trova in natura, se non in minima parte, e che, quindi, va prodotto, ma per produrlo bisogna impiegare energia, che poi ci verrà parzialmente restituita, perché l’idrogeno è, appunto, un vettore di energia; la seconda informazione è relativa ai modi e ai processi assai diversi che esistono per produrre e rendere disponibile l’energia chimica accumulata nell’idrogeno.
La chiara sensazione che abbiamo maturato, assistendo all’attuale dibattito politico, mediatico e persino tecnico-scientifico «di parte» attorno all’idrogeno e al nucleare, è che serva sostanzialmente a distrarre l’opinione pubblica dai temi più urgenti e gravi che riguardano il futuro dell’energia.
C’è la necessità di elettrificare rapidamente il nostro Paese, attraverso l’installazione massiccia di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, sia in terra che in mare, per raggiungere, nel minor tempo possibile, un abbattimento drastico delle emissioni di CO2 e, quindi, l’autonomia e l’uscita dalla dipendenza dalle fonti fossili. Questo è quanto richiesto dal Green Deal europeo e dall’Accordo climatico di Parigi risalente all’ormai lontano 2015. Cerchiamo dunque di fare chiarezza, sfruttando dati e concetti scientifici, gli unici che contano.
Idrogeno, quale e come
Per idrogeno intendiamo qui l’idrogeno molecolare, gassoso, di formula H2. È noto, da oltre duecento anni, che quando questa piccola molecola biatomica – la più piccola e leggera esistente in natura – reagisce con la molecola dell’ossigeno, O2 – cioè, brucia all’aria – forma la molecola dell’acqua, H2O, sviluppando una consistente quantità di energia.
A differenza dei combustibili fossili, l’idrogeno ha il grande vantaggio di non generare CO2 – il principale gas serra responsabile, per quantità, del riscaldamento globale e del cambiamento climatico. La combustione o ossidazione dell’idrogeno, a differenza dei combustibili fossili, non forma neanche sostanze organiche volatili e polveri sottili a cui si deve, primariamente, l’inquinamento atmosferico, specie quello localizzato nelle aree urbane.
Tuttavia, fra idrogeno e combustibili fossili sta la differenza già evidenziata all’inizio dell’articolo: i combustibili fossili sono risorse energetiche primarie racchiuse nei giacimenti naturali, mentre non esistono sul pianeta Terra giacimenti utilizzabili di idrogeno già pronto all’uso, detto idrogeno bianco, se non in modeste quantità, su cui non è fondato coltivare particolari entusiasmi (cf. qui).
Quello abbondante in natura è, dunque, solo l’idrogeno combinato con altri elementi in «infinite» combinazioni molecolari. Quindi, se vogliamo utilizzare H2 in forma molecolare biatomica, bisogna fabbricarlo, ovvero «liberare» l’idrogeno dai composti nei quali è presente. Questo implica almeno due problemi.
Il primo riguarda i composti dai quali partire che, ovviamente, devono essere comuni, abbondanti e poco costosi; il secondo è che per liberare l’idrogeno da altre molecole occorre far avvenire reazioni chimiche che richiedono energia; questo è l’aspetto che mette in seria discussione l’immaginario collettivo nel quale si considera l’idrogeno come combustibile inesauribile e assolutamente pulito. Infatti, l’idrogeno prodotto può essere più o meno «pulito» o «sporco» a seconda del composto da cui lo si ricava e dell’energia impiegata per ottenerlo.
Non a caso, si parla di idrogeno grigio se viene generato a partire, ancora una volta, da fonti fossili quali, appunto, carbone, petrolio e gas metano; di idrogeno blu se prodotto dagli stessi fossili ma con «cattura» della CO2, prima che questa venga sprigionata in atmosfera; di idrogeno verde se prodotto per scissione elettrolitica dell’acqua sfruttando solo energie rinnovabili (cf. qui) e, infine, di idrogeno rosa se ottenuto usando energia nucleare.
Idrogeno «verde»
Evidentemente, nel primo caso – idrogeno grigio – l’impiego dei fossili non fa altro che incrementare la quantità di CO2 immessa in atmosfera; nel secondo caso – idrogeno blu – si ha sufficiente materiale per scrivere un libro circa le difficoltà e gli insuccessi incontrati nel processo di cattura della CO2; nel quarto caso – idrogeno rosa – ci sono di mezzo tutte le gravi e già trattate problematiche legate al nucleare (cf. qui su SettimanaNews).
Resta il terzo caso, ossia l’idrogeno accoppiato all’ineffabile aggettivo verde, la cui produzione richiede tuttavia l’impiego di molta energia, paradossalmente molta più di quanta non si possa riottenere dallo stesso idrogeno prodotto. Con le attuali tecnologie, per produrre 1 kg di H2 verde mediante l’elettrolisi dell’acqua, occorre spendere circa 55-58 kWh, mentre il contenuto di energia dell’idrogeno molecolare è pari a circa 33.3 kWh/kg. L’operazione può risultare conveniente per certi impieghi se – e solo se – per produrre idrogeno viene utilizzata energia a basso costo, a sua volta, ovviamente, «pulita», cioè esclusivamente quella ottenuta da fonti rinnovabili, fotovoltaico ed eolico in primo luogo.
Un altro aspetto, oggi del tutto trascurato dalla narrazione corrente, riguarda la materia prima da cui partire per produrre l’idrogeno verde, ossia l’acqua, che non è più una risorsa abbondante e disponibile a basso costo, specie se si parla di acqua pulita. Infatti, per produrre 1 kg di idrogeno verde servono 9 kg o litri di acqua. Ma al di là del preciso calcolo stechiometrico, di acqua, oltre che di energia, ne serve molta, perché si tratta di produrre milioni di tonnellate di idrogeno.
La quantità mondiale di idrogeno complessivamente prodotta annualmente è stimata in 120 milioni di tonnellate, di cui, attualmente, solo l’1% per via verde. Consideriamo inoltre che l’idea – italiana ed europea è di importare quantità considerevoli di idrogeno verde dai Paesi del Nord Africa, in particolare dalla Tunisia: Paesi siccitosi e desertici che già hanno il problema di fornire sufficiente acqua potabile alla popolazione (come peraltro abbiamo ormai anche noi, specie in certe regioni del Sud Italia).
Va comunque sottolineato che la libera ricerca scientifica sta compiendo passi notevoli nel verso della riduzione delle quantità di energia in gioco nel processo di elettrolisi e delle quantità e qualità delle acque impiegabili; per quanto riguarda la qualità, si sta, infatti, esplorando la possibilità di usare l’acqua salata dei mari e degli oceani, o l’acqua dei fiumi e dei laghi. Da persone dedicate allo studio scientifico, siamo assolutamente favorevoli alle ricerche mirate a ottenere idrogeno pulito con processi innovativi, utilizzando catalizzatori di nuova concezione, su cui stanno lavorando con buoni risultati diversi ricercatori anche in Italia (cf. qui).
Immagazzinamento e trasporto
Anche ammesso che si possa ottenere idrogeno economico e ambientalmente sostenibile in tempi brevi, i problemi non sono finiti, perché restano da risolvere molte criticità che appaiono quantomeno sottovalutate, trattandosi di un gas – l’idrogeno – difficile da immagazzinare e da trasportare, classificato come «esplosivo».
Per conservarlo e trasportarlo in forma liquida occorrono elevate pressioni e/o temperature estremamente basse: a pressione atmosferica, parliamo di -253°C. Per il trasporto si usano carri-bombola alla pressione di 350-700 atmosfere. Per il pompaggio via tubo su lunghe distanze, nel caso di idrogeno gassoso, andrebbero realizzate nuove, grandi e costosissime infrastrutture in acciaio speciale, giacché i comuni gasdotti – quelli esistenti per il trasporto di metano – sono inadatti al trasferimento delle piccole molecole di idrogeno, tanto piccole da penetrare gli spessori dei manufatti, corroderli e «sfuggire» attraverso connessioni, saldature, pompe ecc.
Per ovviare al problema, in Italia la SNAM (cf. intervista all’AD Stefano Venier, Limes 10/2024) progetta di miscelare metano e idrogeno «riutilizzando i gasdotti esistenti». Questa soluzione, oltre a vanificare ampiamente gli sforzi di decarbonizzazione, alimenta semplicemente l’immaginario denunciato sin dal principio del nostro intervento, che ritiene si possa distribuire capillarmente la miscela di idrogeno sino alla rete domestica, cosa assai improbabile.
Un’ultima possibilità consiste nel legare l’idrogeno ad altri composti – ad esempio ammoniaca, NH3 – più facilmente trasportabili e dai quali sia relativamente facile liberarlo al momento dell’impiego. Esiste, infine, una soluzione intermedia, che prevede l’adsorbimento dell’idrogeno su «spugne artificiali» solide e trasportabili. Ma stiamo parlando di tecnologie ancora in fase di studio, indisponibili e non convenienti nell’immediato.
Per tutte le ragioni esposte riteniamo che l’idrogeno – anche quando opportunamente e abbondantemente prodotto per via verde – vada utilizzato presso la stessa sede di produzione, realizzando impianti «a fianco» delle industrie attualmente più emissive di CO2, note come hard to abate (difficili da abbattere).
Quali sono i rischi
Non si possono sottovalutare i rischi per la sicurezza nell’impiego dell’idrogeno. Per le sue caratteristiche fisico-chimiche, è difficile da trattare, sia in forma gassosa che in forma liquida, perché tende facilmente a sfuggire ed è più infiammabile all’aria più di quanto non lo siano la benzina e il gas naturale.
Le bombole e le condutture dell’idrogeno devono essere di materiali particolari, non deteriorabili a contatto con l’idrogeno e realizzati secondo procedure estremamente accurate, per evitare fughe di gas. La manutenzione – con un rilevamento costante di eventuali perdite lungo tutta la filiera – è quindi di primaria importanza per garantire la sicurezza dei sistemi, soprattutto delle persone. Questo, ovviamente, richiede costi che vanno accuratamente previsti negli investimenti originari. Ci sembra tuttavia che non se ne parli.
Da ultimo si segnala che l’idrogeno eventualmente sfuggito dagli impianti e immesso in atmosfera, pur non essendo un gas a effetto serra, ha la capacità di interagire chimicamente con gli altri gas serra, influendo sulla loro formazione e destino. Secondo un’analisi recente, sarebbe 11 volte più potente della CO2 stessa, a parità di massa, nel promuovere, anche se indirettamente, il riscaldamento globale, dal momento che allunga la vita del metano, aumenta la produzione di ozono e incrementa la formazione di vapor acqueo. Anche questo aspetto andrebbe tenuto ben presente quando si parla di passare a un’economia all’idrogeno.
Idrogeno, per che cosa
L’idea di base dell’economia a idrogeno è usare energia elettrica per produrre idrogeno verde, che poi viene nuovamente convertito in energia elettrica, ad esempio per muovere auto, camion, navi, e financo aerei, ora azionati da combustibili fossili.
Viene immediatamente da chiedersi, anche da parte di non addetti ai lavori, quale senso possa avere la duplice conversione – elettricità-idrogeno-elettricità – il cui risultato è inevitabilmente quello di abbassare l’efficienza del processo al 30%. Perché, dunque, non alimentare i motori direttamente con corrente elettrica, generata da sole fonti rinnovabili, raggiungendo efficienze del 85-90%, senza passare attraverso il vettore idrogeno? La domanda è legittima considerando che le auto a idrogeno stanno scomparendo dal mercato (cf. qui).
In certi ambiti, tuttavia, l’idrogeno si profila come la possibile soluzione: in quello dei trasporti più pesanti – ad esempio camion, bus, navi dai porti – se collocati in precise aree geografiche di produzione e immediata distribuzione, denominate hydrogen valley.
Esistono poi, come anticipato, industrie hard to abate, quali acciaierie, fonderie, vetrerie, industrie ceramiche, cementifici e altro, i cui processi di lavorazione necessitano di alte temperature, non raggiungibili con energia elettrica, e per le quali l’idrogeno resta il combustibile migliore, se da grigio decisamente mutato in verde.
Si tratta, quindi, di definire una strategia dell’idrogeno, sostenibile in termini ambientali ed economici. L’unica condizione per noi plausibile è che gli impianti di produzione dell’idrogeno verde siano «dentro» o comunque «prossimi» alle grandi fabbriche che lo consumano, fatte salve anche le condizioni di alimentazione idrica sostenibile di cui sopra.
In ogni caso, oggi lo sviluppo dell’economia a idrogeno si deve confrontare con le forti differenze di prezzo per i vari «colori» di questo gas, con l’idrogeno verde che ha ancora un costo 3-4 volte superiore a quello dell’idrogeno blu e almeno 5-8 volte quello dell’idrogeno grigio (qui). Questo ci riporta a immaginarne, di nuovo, un uso circoscritto geograficamente, e solo nel caso di disponibilità di grandi quantità di energia primaria da fonti rinnovabili.
La nostra critica al piano del Governo
Nel novembre scorso il Governo ha consegnato la sua Strategia Nazionale Idrogeno (qui), un documento di 75 pagine, in cui, a partire da premesse condivisibili, si giunge a conclusioni e programmi, miliardari, molto contraddittori. Vi si trovano affermazioni, quali:
«Grazie alla sua collocazione geografica e alla rete di infrastrutture di collegamento esistenti per il trasporto del gas naturale (da adeguare a trasporto di idrogeno), l’Italia ha l’opportunità di diventare un hub per l’import, la produzione e l’export di idrogeno rinnovabile, mettendo in collegamento il Nord Africa con L’Europa. Questo ruolo è ulteriormente rafforzato dalla numerosità e distribuzione dei siti di stoccaggio di gas naturale disponibili nel paese, che potrebbero essere riconvertiti a stoccaggio di idrogeno»; «un ruolo di rilievo nell’approvvigionamento dell’idrogeno rinnovabile nell’UE potrà essere svolto dal Corridoio Meridionale Idrogeno (SouthH2 Corridor) che, attraverso Italia, Austria e Germania, consentirà l’importazione e la fornitura di idrogeno rinnovabile a basso costo, prodotto nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo»; «alcuni studi di settore riportano analisi secondo cui l’idrogeno rinnovabile prodotto in Nord Africa possa avere un costo competitivo inferiore a 5 €/kg. Numerose fonti autorevoli (IEA e altre) mostrano che già al 2030 il costo del trasporto in Europa via pipe dell’idrogeno prodotto in Nord Africa possa avere valori tra 0,2 €/kg e 1 €/kg».
Queste affermazioni contrastano chiaramente con le premesse scientifiche da noi qui esposte, a partire dalla creazione – considerata come realistica già a partire del 2030! – di una «dorsale» italiana dell’idrogeno, ovvero una nuova condotta che, passando attraverso l’Italia, servirebbe a trasferire l’H2 prodotto in Nord Africa a tutto il resto d’Europa (cf. qui).
A nostro avviso, il Governo si sta semplicemente riempendo la bocca della parola «hub»: hub dell’idrogeno, oltre che del metano, per l’Europa tutta. Molti dei problemi tecnico-scientifici qui evidenziati sono omessi o ampiamente sottovalutati dal documento, ad esempio come si possano riadattare i gasdotti esistenti per il trasporto dell’idrogeno, in che modo e con quali costi. Anche la questione delle miscele gas metano/idrogeno non è chiarita. Inoltre, non si dice nulla dell’enorme quantità di denaro pubblico che verrebbe impiegato per tali mega-progetti, devastanti dal punto di vista ambientale e di assai dubbia utilità.
Come cittadini italiani, inoltre, non ci conforta affatto il ruolo di servizio svolto dall’Italia per il trasporto dell’idrogeno verso l’Europa, senza aver risolto il problema della dipendenza da altri Paesi in fatto di energia, contribuendo a perpetuare, per giunta, l’opera di sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi africani. Non ci piace affatto, poi, l’idea che la nostra dorsale appenninica possa essere «trapanata» di nuovo, da sud a nord, per ancor più gigantesche condotte.
In questo clima di terrore e di guerra – con quanto abbiamo visto e a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi – siamo altresì preoccupati per i nostri giovani, per le nostre nuove generazioni di italiani, perché i siti e i grandi tubi per l’idrogeno di cui si parla nella «Strategia» potrebbero divenire facili bersagli per attacchi terroristici, o per vere e proprie operazioni di guerra che, in una condotta militare senza regole, vanno ormai a colpire, in maniera quasi privilegiata, siti civili quali ospedali, scuole e, appunto, centri di distribuzione dell’energia. Se, finora, si è trattato di metano, gasolio, benzine ecc., domani potrebbe trattarsi di idrogeno a «saltare in aria»: bombardare condotte e contenitori di questo gas avrebbe un effetto devastante.
Continuiamo, infine, a domandare perché i grandi investimenti vadano su materiali e tecnologie di cui non disponiamo, mentre i progetti di impiego delle energie rinnovabili procedono ancora troppo lentamente e trovano ovunque mille ostacoli. Perché non ci mettiamo seriamente a utilizzare, con tutto il nostro ingegno scientifico e industriale, ciò di cui la natura – o il buon Dio – ci ha maggiormente reso ricchi, cioè il Sole, il vento, l’acqua?