Elena Bonetti: politiche e futuro del paese

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Intervista con Elena Bonetti, che dal 5 settembre 2019 è ministra per le Pari Opportunità e per la Famiglia nel secondo governo presieduto da Giuseppe Conte. Docente universitaria di matematica presso l’Università degli Studi di Milano, ha rivestito incarichi nazionali nell’associazionismo ecclesiale scout. Vive a Mantova col marito Davide e i due figli Tommaso e Chiara.

  • Quali sono, Elena, le linee di azione del tuo ministero delle pari opportunità e della famiglia, in questo tempo di ripresa dal virus?  

Il tempo della pandemia ha messo a nudo sia le ricchezze sia le fragilità del nostro Paese. Ha messo in luce tanti ritardi che vanno recuperati al più presto. Ad esempio, in Italia solo una donna su tre, in età lavorativa, risulta effettivamente impiegata. La media europea è di due donne che lavorano su tre. Al tempo stesso, l’Italia fa registrare il più basso tasso di fecondità in Europa.

Questi primi dati da sé denotano una sottovalutazione del ruolo femminile nel nostro Paese. Ruolo che va urgentemente riconosciuto, sostenuto e valorizzato. Le donne stanno contribuendo enormemente alla tenuta della nostra dimensione comunitaria. Dobbiamo riconoscerlo fino in fondo e ulteriormente creare le condizioni di possibilità perché le energie femminili siano insieme liberate nel lavoro e nella maternità: una cosa non deve trovarsi in contraddizione con l’altra. La Francia ha il più alto tasso di impiego femminile e, al tempo stesso, il più alto tasso di fecondità in Europa.

Donne, lavoro, famiglia

La vicenda coronavirus ha inoltre messo in evidenza un dato assai significativo: il 70% del personale ospedaliero, del quale da mesi non facciamo altro, doverosamente, che esaltare il comportamento eroico, è fatto da donne. Peraltro, sembra che le donne, per un vantaggio di natura, abbiano una maggiore resistenza al virus, almeno al di sotto dei 70 anni.

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Sarebbe del tutto conveniente, anche dal punto di vista epidemiologico, permettere a più donne di rientrare in sicurezza al lavoro anche in altri ambiti. Eppure vediamo che stanno prioritariamente ripartendo quei settori in cui l’impiego femminile è solo al 30%. Tutto questo sta avvenendo, a mio parere, senza la giusta consapevolezza. Sto insistendo perché nella ripartenza sia facilitato e incentivato il lavoro femminile, anche per una più efficace tutela della salute, ma non solo per questa ragione. La grande finalità che da subito ho voluto perseguire nel mio ministero è l’umanizzazione del lavoro attraverso un’integrazione del femminile, che deve trovare condizioni di piena parità.

Il mondo del lavoro deve sapersi innovare e saper ricreare luoghi e tempi dell’umano: per questo ha bisogno di più donne e di più madri. Ha bisogno di interagire con il mondo delle famiglie. I due mondi non possono rimanere rigidamente separati. E il lavoro non può continuare ad essere visto dalla politica di governo come parte diversa dal tema della famiglia e delle relazioni umane fondamentali che caratterizzano la famiglia.

Quel che è vero nel lavoro e nella famiglia per le donne, lo è pure ovviamente per gli uomini e per la famiglia nel suo insieme. Compito della politica è ricercare le migliori condizioni di integrazione, ma in Italia non sono mai state messe in campo vere e proprie politiche familiari. Penso che questo sia il momento per farlo con determinazione. Ho raccolto nel Paese molte idee e esperienze virtuose in tal senso: smart working, turnazioni flessibili negli orari e negli ambienti di lavoro, servizi collegati sia alle esigenze delle famiglie che del lavoro sono esemplificazioni possibili e declinabili in mille modi.

Tempi della vita e cura delle relazioni

Si tratta di assumere nel lavoro una responsabilità comunitaria più ampia, che non miri solo alla produttività ma che pure sia in grado – ne sono convinta – di portare beneficio alla produttività. Avremo autentica produttività se avremo lavoro generativo, armonizzato con i tempi della vita delle persone e con la cura delle relazioni e degli affetti più intimi. Penso alle famiglie come nodi di una trama sociale, da rafforzare nelle reciproche connessioni attraverso la prossimità e i servizi che la comunità può e deve offrire.

Conosco bene i limiti dello smart working a cui imprese, lavoratrici e lavoratori hanno dovuto giocoforza fare ampiamente ricorso in quest’ultimo periodo, ma abbiamo visto quanto sia servito e tuttora serva nel periodo in cui non c’è la scuola. Il cosiddetto “lavoro agile” è uno strumento: in quanto tale è utile se è usato in maniera veramente intelligente. Al tavolo del governo ho chiesto e ottenuto che fosse riconosciuto il diritto allo smart working per i genitori dei figli fino a 14 anni.

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L’ho sostenuto in una prospettiva di sistema, perché può consentire un’organizzazione della vita personale, familiare e lavorativa più elastica e integrata. Certamente l’uso dello strumento andrà coordinato, da una parte, col lavoro in presenza e, dall’altra, con l’organizzazione dei servizi. Ci sono aziende che già lo stanno usando in maniera intelligente. I risultati – in termini di minor assenza o di maggior presenza e partecipazione lavorativa, anche in ruoli dirigenziali – sono indubbi, oltre a evidenti benefici in termini di mobilità e di tutela ambientale.

  • Quali sono i personali convincimenti che stai cercando di immettere nell’azione di governo?

Come ho detto, per me la persona si costituisce nella relazione. Da cristiana cattolica potrei dire che la realizzazione personale sta nel dono di sé in relazione con l’altro da sé. Da ministra guardo alla Costituzione su cui ho giurato e dico che ogni persona concorre – ed è chiamata a concorrere – al bene materiale e spirituale della nostra comunità. Come noto, la nostra Costituzione definisce il lavoro quale forma propria della cittadinanza, attraverso cui ogni persona, appunto, contribuisce, con le proprie capacità, al benessere della comunità.

Demografia: pensare l’Italia al futuro

Compito delle istituzioni è mettere tutti e ciascuno nella condizione di esprimere la propria libertà nell’esercizio delle responsabilità che lo legano a ciascun altro. Mai come in questa pandemia, almeno per la mia generazione, questo è risultato così evidente: il rispetto delle regole è stato il miglior modo per prenderci cura di noi stessi e, insieme, degli altri. Questo esercizio responsabile della nostra libertà dovremo farlo crescere per crescere come comunità.

  • Se sei d’accordo, possiamo attraversare in breve rassegna almeno tre questioni che mi sembrano emblematiche e cruciali per il nostro paese. Partiamo dalla denatalità?

Il nostro Paese, ben prima del coronavirus, ha dovuto prendere atto di un dato drammatico: il rapporto tra natalità e mortalità ha raggiunto il livello del 1918, anno tragico per esiti di guerra, fame e malattie. È chiaro che la pandemia non potrà che aggravare la situazione. Il calo demografico indica la gravità dei pericoli che stiamo correndo perché, in qualche modo, misura la quantità di futuro che c’è in una popolazione.

È questo l’aspetto per me più preoccupante: non abbiamo sufficiente coraggio per pensarci al futuro. Questo vuoto pervade le generazioni più giovani e scoraggia la scelta irreversibile e rischiosa della genitorialità. Da una ricerca congiunta dell’Istituto Toniolo  e del mio ministero abbiamo visto che, se nulla cambierà, l’Italia sarà il Paese europeo con il più grave peggioramento di prospettiva nei progetti di vita dei giovani, soprattutto per quanto riguarda la natalità. I nostri giovani non ritengono di avere in Italia le condizioni per sostenere il rischio della genitorialità.

Detto chiaramente, se non interverremo in tempi rapidi, assisteremo ad un tracollo demografico davvero irreversibile, al quale il nostro sistema economico, sanitario e di welfare non potrà resistere. Il buon senso politico vorrebbe che una delle misure di investimento più forti e urgenti vada nel verso di evitare un tale disastro. L’ho detto con insistenza nel governo. Ma questa è una prospettiva ancora non sufficientemente ascoltata e compresa da tutte le forze politiche che lo compongono.

La casa e la violenza
  • Cosa dire della violenza di genere?

Quello della violenza di genere è un tema gravissimo. Anche in questo caso, la pandemia non ha fatto che aggravare e mettere in evidenza la situazione. Il motto “io resto a casa” è divenuto troppo spesso, per troppe donne, un motivo di condanna. Dall’insorgere della crisi sanitaria che ha obbligato a stare a casa, abbiamo rilanciato la campagna di comunicazione istituzionale “Libera puoi”.

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Il messaggio era e resta: non sei sola, c’è uno Stato pronto a tutelarti, ci sono servizi pronti ad accompagnarti nel percorso di uscita dalla violenza. Ma il messaggio che vorrei far giungere a queste donne è ancora più forte. Vorrei poter dire loro: là fuori c’è una comunità di persone a cui puoi sempre ricorrere, al di là della tua porta ci sarà sempre una persona a cui poter chiedere aiuto. Questo mette in evidenza l’importanza di una comunità che sia veramente tale, un buon vicinato, comunità organizzate come associazioni di volontariato, enti del terzo settore, comunità di fede. Lo Stato e le istituzioni devono garantire sempre la loro presenza, ma non possono arrivare ovunque.

Torno ad appellarmi ai valori fondamentali della nostra Costituzione che sono la guida per tutti i cittadini. Il governo penso abbia fatto la propria parte predisponendo alloggi straordinari per offrire alle donne innanzitutto protezione e sicurezza sanitaria. Ovviamente l’emancipazione economica delle vittime è un’altra condizione fondamentale nel percorso di uscita dalla violenza, da sostenere con ogni sforzo.

Introdurre alla vita in società
  • Come affrontare l’emergenza educativa?

Il fatto che la scuola sia stata chiusa ha mostrato, ancora una volta, quanto sia un luogo fondamentale dell’educazione. In assenza della scuola abbiamo tuttavia capito anche quanto servano tanti altri luoghi deputati all’educazione. L’educazione è responsabilità di tutti.

L’ho spesso ripetuto e in questi mesi ho lavorato con gli Enti locali per una convocazione straordinaria delle tante risorse territoriali che possono riorganizzare contesti educativi sicuri nel tempo di chiusura della scuola: penso ovviamente alle associazioni educative, laiche ed ecclesiali – io stessa provengo dall’Agesci -, al mondo dello sport, agli enti del terzo settore, agli oratori e alle parrocchie. Dobbiamo in tutti i modi aiutare i genitori, i bambini, i ragazzi a ritrovare non solo luoghi di custodia, ma importanti spazi di relazione tra coetanei, con la guida di adulti preparati.

Non si tratta solo di recuperare, con le dovute cautele sanitarie, un pezzo di normalità. Si tratta di valorizzare un sistema educativo che si avvale di tante valide risorse, soprattutto umane. Una vera e propria rete educativa non formale che è pronta a sostenere le famiglie del nostro Paese.

  • La crisi determinata dal virus mi pare abbia evidenziato una certa tensione esistente tra scienza e politica nella gestione dei fenomeni: cosa ne pensi?

Da donna di scienza che ora svolge un ruolo politico ho maturato un’idea chiara al riguardo. Oggi, più di ieri, l’approccio scientifico è entrato nella nostra vita. Ad esempio, oggi le persone sono in grado di capire che cosa sia e quanto sia importante il concetto di probabilità e di crescita di tipo esponenziale del contagio. Si capisce che anche la matematica è in grado di dare un contributo significativo per descrivere e per prevenire un fenomeno che interessa la vita di tutti. Detto questo, è necessario marcare una netta differenza tra responsabilità scientifica e responsabilità politica.

Quale politica?

Alla scienza compete studiare il fenomeno e indicare le migliori condizioni per la sua gestione. Compete poi alla politica prendere decisioni e dettare regole, sulla scorta degli studi, delle considerazioni e delle validazioni di carattere scientifico. Riconoscere le esigenze, stabilire ordini di priorità e dare indirizzi è responsabilità unica della politica. Non può darsi alcuna delega. Nel concreto, non compete al mondo della scienza dire se aprire o meno i centri educativi estivi per i ragazzi: mi potrà suggerire le regole di sicurezza da far rispettare, ma non potrà mai sottrarmi alla responsabilità politica di cercare di rispondere ad un bisogno importante delle famiglie e della comunità.

  • Si continua a dire “nulla sarà più come prima”, ma sarà davvero così, specie in politica attiva?

Dall’inizio dell’intervista sto dicendo che la crisi sanitaria ha messo a nudo tanti gravi ritardi del nostro Paese e l’urgenza di innovare rapidamente. È vero tuttavia che è più facile riprodurre i modelli del passato per farli durare ancora per un poco, piuttosto che innovare seriamente.

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Penso davvero che la grande sfida che sta davanti in questo momento – non solo al governo, ma a tutta la politica italiana e al Paese – sia proprio questa: ripartire pensando ad un sistema Italia per molti versi nuovo e diverso. Mai come in questo momento storico la politica è chiamata ad esercitare l’arte di costruire il futuro. Dobbiamo esserne all’altezza. I cittadini hanno tutto il diritto di chiedercelo.

  • Dalla tua posizione di ministra e di donna cattolica, vuoi testimoniare riguardo al rapporto tra governo e Chiesa, sulla questione delle messe?

Rispondo da ministra e da cattolica. Ho giurato su una Costituzione che garantisce la libertà religiosa. Si tratta quindi di dare – da governo del Paese – regole perché ogni cittadino possa esercitare tale diritto. Io stessa, assieme ai membri di tutte le comunità di fede, sono direttamente interessata.

Fede, Chiesa, politica

Certamente, occorrevano condizioni di sicurezza. Il governo non poteva continuare a dire semplicemente: non si può. Mi pare che – con un po’ di tempo – siamo giunti ad assumere le nostre responsabilità di governanti verso la Costituzione, con il doveroso accordo con la Conferenza Episcopale Italiana. Così pure dovrà avvenire con le altre diverse confessioni presenti nel nostro Paese.

  • Ti pongo infine una domanda di carattere personale: come ti vedi al governo da cattolica, dopo anni di attivo impegno ecclesiale?

Sono approdata alla politica nel governo del Paese perché letteralmente chiamata. Non ho cercato. Mi sono fatta la domanda che penso ogni persona – credente o meno – si debba in coscienza responsabilmente porre: che cosa mi è chiesto ora di fare, accettare o declinare?

Mi pare di aver capito che una storia intera, non solo personale, mi ha portato alla domanda e alla possibilità di rispondere positivamente. Da scout mi sono detta che era il momento di tirare fuori dallo zaino la collezione preziosa che ho ricevuto in dono dalla mia vita e dalla mia formazione. Ho pensato soprattutto che fosse giunto un momento in cui dare conto di una mia personale e intima speranza per il bene del Paese.

Molti dei temi che abbiamo trattato in questa intervista mettono molta preoccupazione. Ci sono tanti elementi che possono indurre allo sconforto, a lasciar perdere. Credo invece – insieme a tante altre donne e tanti uomini che osservo lavorare con impegno pur da diverse posizioni – che sia ancora e sempre possibile dare il proprio contributo di speranza e di futuro per le persone che abbiamo scelto di servire.  Questa è la mia strada.

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