Elezioni europee: la posta in gioco

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Anche se in Italia si parla solo di Giorgia Meloni e degli attacchi della Lega al Quirinale, queste elezioni europee sono cruciali per molte ragioni. Mi rendo conto che è difficile orientarsi, visto che praticamente tutti i media italiani raccontano soltanto il lato domestico della competizione. Ho pensato allora di fare un numero speciale di Cose lette, viste e sentite per consentire a tutti di capire la posta in gioco.

Partiamo dalle previsioni sul prossimo parlamento, queste sono dalla newsletter Europe Elects (e non cominciate a dire che è vietato dall’Agcom pubblicare i sondaggi, questa è un’analisi e non un sondaggio).

Ecco l’analisi aggiornata a fine maggio:

  • Sulla destra dello spettro politico, Identità e Democrazia (ID) ha compromesso le sue possibilità di raggiungere il terzo posto con l’espulsione di Alternative für Deutschland (AfD) a seguito dell’ennesimo scandalo neo-nazista.
  • I conservatori del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) ora contano 75 seggi per la prima volta dal giugno 2021.
  • Questo è in parte dovuto all’incertezza sul fatto che il Fidesz ungherese e/o l’Alleanza per l’Unione dei Romeni (AUR) si uniranno al gruppo. I due partiti sono antagonisti tra loro, in particolare su questioni riguardanti la minoranza ungherese in Romania, e attualmente sembra improbabile che l’AUR si unisca all’ECR se anche Fidesz ne diventa membro.
  • Nel frattempo, membri più moderati potrebbero lasciare il gruppo se uno dei due partiti venisse ammesso.

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Come si vede, il PPE (in inglese EPP), cioè il centrodestra, è il vincitore annunciato, mentre il centrosinistra dei Socialisti e democratici perderà qualche seggio. Gli sconfitti annunciati sono i liberali di Renew (Emmanuel Macron) e i grandi vincitori i conservatori di ECR grazie al travaso di voti dalla Lega (che è in ID, Identità e democrazia) a Fratelli d’Italia (che è in ECR).

Quali sono le conseguenze?

Decide Giorgia Meloni

Prendiamo l’analisi della migliore newsletter per seguire le vicende di Bruxelles, il Mattinale europeo di David Carretta e Christian Spillmann (consiglio di iscrivervi, è su Substack e gratuito) che spiegano quali saranno gli equilibri nel prossimo parlamento.

Ci sono due certezze: nessun gruppo può guidare da solo il Parlamento e nessuna maggioranza è possibile senza i conservatori del Partito Popolare Europeo. Tuttavia, sono possibili diverse maggioranze. C’è quella tradizionale, considerata la maggioranza pro-europea, composta dal PPE, dai socialisti e dai liberali. Come la maggioranza uscente, la maggior parte dei leader dei 27 Paesi dell’Ue vorrebbe vederla rinnovata. La maggior parte, ma non tutti.

Il primo ministro ungherese Viktor Orban sogna un’unione di tutti i partiti di destra: il PPE, l’ECR, ID e i partiti paria, tra cui il suo movimento, Fidesz, che è stato escluso dal PPE e attualmente è condannato a sedersi tra i non iscritti. È uno scenario considerato improbabile, se non impossibile.

Il capo del governo italiano, Giorgia Meloni, da parte sua, sta puntando su possibili alleanze per rimandare «la sinistra» all’opposizione. Il tedesco Manfred Weber, presidente del PPE, condivide questo piano, sostenuto da alcuni partiti della famiglia, in particolare dal Partido Popular spagnolo. Ma come trovare i 361 eletti di questa maggioranza di destra senza scendere a patti con l’estrema destra, e senza perdere la propria anima e il proprio sostegno politico?

Ursula von der Leyen spera nel bis, ma non è sicura di costruire una maggioranza sufficiente. Tra le ragioni, spiega il Mattinale europeo, c’è la scelta di von der Leyen di diventare la Spitzenkandidat del PPE, cioè la candidata ufficiale del centrodestra. Alle elezioni precedenti, invece, lei era stata indicata dal Consiglio − cioè dai capi di Stato e di governo − scavalcando il candidato del PPE, Manfred Weber.

E dunque, osserva il Mattinale europeo:

La presidente uscente sta cercando sostegno al di fuori della maggioranza tradizionale. Nel 2019 aveva perso molti voti all’interno dei tre gruppi e aveva ottenuto una maggioranza di appena 9 voti grazie ai voti degli eletti del partito polacco Legge e Giustizia e degli italiani del Movimento 5 Stelle.

Nel giugno 2024, per il suo secondo mandato, sa che non tutto il PPE è dietro di lei e che i socialisti, i liberali e i verdi non sono entusiasti. Cerca il sostegno di Giorgia Meloni, il cui partito Fratelli d’Italia è accreditato nei sondaggi di 23 eletti e diventerà la principale forza del gruppo ECR. Nel 2019, Fratelli d’Italia non ha votato a favore della candidatura di von der Leyen e Giorgia è stata dura con Ursula durante i suoi discorsi in campagna elettorale sull’operato della presidente uscente, sottolineando gli «errori» nelle sue decisioni.

Che cosa deciderà Giorgia Meloni?

Questo tema è al centro anche del recente episodio del podcast di Gideon Rachman del Financial Times, che dialoga con il corrispondente da Bruxelles Henry Foy. Trovate qui il podcast, e qui sotto la trascrizione della parte su Meloni:

Gideon Rachman: Quindi Meloni diventa il kingmaker, o se si tratta di von der Leyen, il queenmaker d’Europa. È in una posizione chiave. E non si tratta solo di questo tipo di manovre elettorali; penso che ci dica qualcosa sul carattere dei gruppi che abbiamo imparato a chiamare estrema destra. Perché se si allea con Marine Le Pen, questo ci dice una cosa. Ma alcune persone, a quanto pare, stanno dicendo che potrebbe spostare il suo gruppo verso il centro-destra e sostenere Ursula von der Leyen.

Henry Foy: C’è stata qualche discussione e pettegolezzo, se vuoi, sull’ipotesi che Meloni possa unirsi al PPE (Partito Popolare Europeo). Penso che sia abbastanza improbabile, principalmente perché in questo momento lei è, come dici tu, la queenmaker. Sa che ha persone da entrambi i lati, sia dal centro che dall’estrema destra, che cercano il suo supporto.

Von der Leyen non ha certo nascosto, nell’ultimo anno, il suo spostamento più verso destra, soprattutto sull’immigrazione. Ha in qualche modo adottato più posizioni di Meloni. È andata in Italia molte volte per fare un evento pubblico importante a Lampedusa, l’isola che è stata maggiormente colpita dall’immigrazione illegale in Italia.

Allo stesso tempo, Le Pen ha fatto una richiesta pubblica proprio lo scorso fine settimana per collaborare con Meloni.

Quindi Meloni sa di essere quella che detiene le carte, e dopo le elezioni saranno i suoi voti, i suoi deputati europei, i suoi membri del parlamento che votano con il suo gruppo, ad avere il maggior potere. Quindi penso che la mossa migliore per lei sia tenere le carte molto coperte, per ora, e non prendere posizione prima delle elezioni.

Quindi chi vota Giorgia detta Giorgia le affida un mandato in bianco per stabilire come sarà la prossima Commissione europea. Che è un bel paradosso, visto che in patria Meloni è impegnata in una riforma costituzionale che vorrebbe dare la garanzia agli elettori di sapere chi sarà il capo del governo già al momento del voto.

Ma cosa dovrà fare l’Unione europea dopo il voto?

Le cose da fare

Con l’Institute for European Policymaking della Bocconi (IEP@BU) abbiamo pubblicato una serie di analisi sul nuovo sito della Bocconi (che vi consiglio di andare a vedere).

Metto di seguito una selezione di cose interessanti.

Questo un estratto della mia intervista a Mario Monti, già presidente del Consiglio e due volte commissario europeo, presidente onorario dello IEP@BU e autore del saggio appena uscito Demagonia (per Solferino).

  • Presidente Monti, qual è la posta in gioco alle elezioni europee 2024 e in cosa sono diverse dalle precedenti, quelle del 2014 subito dopo la crisi del debito, e quelle del 2019 subito prima della pandemia? 

Quelle del 2019 sono state le elezioni europee nel segno di Brexit, di Donald Trump, e di analoghi fenomeni all’interno degli Stati membri dell’Unione europea, in termini di populismo e sovranismo. Il tema centrale era: riusciranno o no i populisti e sovranisti a dare la spallata, a Strasburgo e Bruxelles, all’Unione europea? Non ci sono riusciti a livello europeo, ma è successo qualcosa di importante a livello italiano.

L’Italia è stato l’unico paese che − a seguito delle elezioni del 2019 − ha mandato al Parlamento europeo parlamentari appartenenti in maggioranza a partiti sovranisti, soprattutto Lega e Cinque stelle che in quella fase erano al governo a Roma.

L’insuccesso a livello europeo dei sovranisti, ma il diffuso timore per la loro forza, ha contribuito – secondo me – a dare un tono diverso dal passato e più incisivo alle successive politiche dell’Unione europea.

In particolare la risposta al Covid, pur con tutte le sue approssimazioni, ritardi, imprecisioni, è stata vigorosa sia nel campo sanitario, con la Commissione che ha risposto alla richiesta di intervento comunitario da parte degli Stati, sia soprattutto nella politica economica di accompagnamento all’uscita dalla pandemia.

Se non ci fosse stato il brivido da rischio sovranista, forse l’Unione europea sarebbe stata meno proattiva e più in continuità con la sua tradizione di estrema cautela finanziaria.

(…)

  • In discorsi e interviste recenti Emmanuel Macron si è detto molto pessimista sul futuro dell’Unione europea, quasi ne temesse un crollo imminente. Condivide questo allarme?

Il presidente Macron ha la propensione tipica dell’intellettuale francese a guardare i fenomeni nella loro longue durée, che è una componente essenziale della politica, soprattutto europea.

Nel considerare le prospettive di lungo periodo si possono però fare errori di previsione nel breve, come quando Macron aveva segnalato «l’encefalogramma piatto» della NATO che invece ha ritrovato nuova centralità in risposta alle azioni di Vladimir Putin.

Che l’Unione europea, come tutte le costruzioni umane – e questa è una costruzione molto necessaria ma particolarmente ardita – possa un giorno finire male è una eventualità alla quale pensare. Ma nell’immediato non vedo questo rischio, che invece era più concreto alla vigilia delle elezioni del 2019.

Estremismi politici

La politologa Catherine De Vries, sempre dello IEP@BU, spiega le implicazioni dell’ascesa degli estremismi politici:

Una quota maggiore di parlamentari populisti e di destra radicale e il potenziale spostamento a destra del Partito Popolare Europeo sollevano preoccupazioni sul futuro della decarbonizzazione e del derisking del continente europeo. Il nuovo Parlamento mirerà ad annacquare il Green Deal o a ridurre il sostegno all’Ucraina? Queste sono le domande che si porranno.

In questo modo, l’Unione Europea attraverserà una transizione a cui abbiamo assistito in molti Stati membri nell’ultimo decennio: il restringimento del centro politico e l’ascesa degli estremi politici.

Questa evoluzione renderà più difficile l’elaborazione di soluzioni politiche efficaci per affrontare le sfide di lungo periodo dell’UE. Il rischio potrebbe essere non solo un cambiamento nelle politiche, ma anche uno stallo politico generale e un’impasse tra le istituzioni dell’UE e al loro stesso interno.

Dopo il pessimo precedente creato dalla Brexit, molti partiti populisti e di destra radicale non vogliono più lasciare l’Unione europea, ma piuttosto cambiare il progetto dall’interno e portarlo in una direzione più sovranista.

Dopo le prossime elezioni del Parlamento europeo potremo vedere fino a che punto questi partiti saranno davvero in grado di farlo. Solo il tempo potrà dirlo.

E se guardate questo grafico del Financial Times sul supporto ad Alternativa per la Germania c’è da preoccuparsi, perché l’estrema destra trova sempre più consensi tra i giovani, a cui pare una forza trasgressiva e antisistema.

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Il ruolo della EU nella globalizzazione

Queste sono elezioni che guardano anche molto all’esterno dell’UE, assai più che all’interno. Sono le elezioni della de-globalizzazione. L’Unione europea deve decidere se e come provare a plasmare un mondo nel quale la geopolitica si è imposta sull’economia, come spiega nella sua analisi il professor Gianmarco Ottaviano, esperto di commercio internazionale e fellow IEP@BU:

È possibile rispondere con successo alla sfida lanciata dalla Cina senza clonarne il modello di sviluppo basato su un capitalismo di stato incompatibile con lo spirito dell’Europa? La risposta non è scontata, ma riuscirci sarà importante: nel migliore dei casi la concorrenza tra capitalismi di stato è un gioco a somma zero, nel peggiore a somma negativa.

Una speranza però c’è ed un esempio in tal senso è offerto dalla transizione ecologica. L’Unione europea è fermamente convinta del fatto che il cambiamento climatico sia un problema globale che richiede soluzioni globali. Una causa importante del cambiamento climatico sono le emissioni di gas serra associate alla produzione ad alta intensità di carbonio.

Lasciati a sé stessi, i produttori in genere non considerano l’impatto negativo delle loro emissioni sul clima. Da qui l’idea di utilizzare una tassa sulle emissioni di gas serra (nota anche come “tassa sul carbonio”) che, imponendo ai produttori un “prezzo equo” per tali emissioni, li costringe a internalizzare il danno che la produzione ad alta intensità di carbonio arreca all’ambiente.

Questa tassa è chiaramente un onere aggiuntivo per le imprese europee e ne riduce la competitività rispetto alle imprese di Paesi che non tassano le emissioni. L’Ue sta provando a risolvere questo problema con una soluzione unilaterale, chiamata “meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere” (Carbon Border Adjustment Mechanism, CBAM).

Questo meccanismo impone un “dazio sul carbonio” sulle importazioni di prodotti che sono a rischio di maggiore perdita di competitività (come cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti, elettricità, idrogeno). Il CBAM è stato introdotto lo scorso maggio nell’ambito del Green Deal ed entrerà in vigore nel 2026.

Il CBAM può riuscire a creare le condizioni per una competizione equilibrata all’interno del mercato unico tra prodotti europei e prodotti importati. Può invece fare ben poco per aiutare le imprese dell’UE a competere sui mercati esteri con i produttori di paesi che non tassano le emissioni. A tal fine sarebbe necessario un sussidio alle esportazioni, difficilmente compatibile con le attuali regole dell’Organizzazione mondiale del commercio.

Si dovrebbe quindi lavorare ad un nuovo accordo multilaterale che permetta al singolo Paese aderente di scegliere tra l’adozione di una tassa sul carbonio concordata a livello globale e, in caso di mancata adozione, l’accettazione di una compensazione di tale tassa tramite una combinazione di dazi sulle proprie esportazioni di prodotti ad alta intensità di carbonio e sussidi alle proprie importazioni di tali prodotti provenienti da paesi che invece adottano la tassa.

E il debito?

I problemi della legislatura che si è appena chiusa non spariscono: c’è da gestire l’eredità delle scelte importanti degli ultimi anni, cioè le politiche straordinarie seguite alla pandemia, e il successivo lento ritorno alla normalità, con Patto di stabilità e crescita riformato che ora è di nuovo in vigore e costringe gli Stati indebitati (leggi: l’Italia) a tornare su un sentiero di contenimento del deficit e riduzione del debito.

È particolarmente interessante l’analisi di Alessandro Rivera, fino a pochi mesi fa direttore generale del ministero dell’Economia e ora passato al settore privato, anche lui è fellow dello IEP@BU. Qui un estratto della sua analisi per il sito della Bocconi su che fare di Next Generation EU (NGEU):

La capacità fiscale comune creata nel contesto della pandemia per gestire i rischi connessi alle asimmetrie tra Paesi ha una scadenza al 2026.

Si pongono quindi per l’Ecofin due nodi politici: se la scadenza del 2026 possa essere posticipata, e se sia configurabile un nuovo programma di spesa e ridistribuzione comune che possa fare seguito al NGEU.

Il secondo ha implicazioni ben più ampie del primo. Con il NGEU è stata creata un’infrastruttura istituzionale certamente perfettibile, ma anche necessaria per le prospettive di medio e lungo termine dell’Unione.

Dopo anni di inconcludente dibattito di politica economica, con venature di ingegneria finanziaria (qualcuno ricorda i “blue/red bond”?), l’Unione europea è stabilmente presente sul mercato dei capitali con un proprio safe asset o Eurobond, se così lo si vuole chiamare.

E questa è solo una componente del NGEU che dà un’idea dell’entità dell’investimento istituzionale che è stato fatto, e, di conseguenza, dello sperpero di capitale politico, credibilità e risorse che si realizzerebbe se l’infrastruttura costituita con il NGEU fosse smantellata.

La discussione su questo punto ha il massimo grado di difficoltà politica, come sempre quando si tratta di mutualizzazione di rischi e oneri.

In alcuni Paesi cosiddetti frugali, già al tempo dell’approvazione del NGEU sono stati precostituiti vincoli politici e legali per impedire che l’esperimento sia ripetuto in futuro.

La Corte costituzionale tedesca ha indicato limiti stringenti, anche di natura quantitativa, per programmi finanziati a debito del genere del NGEU. Inoltre, le opinioni pubbliche nei diversi Paesi UE hanno orientamenti distanti e anche contrapposti.

La Banca europea degli investimenti (BEI) è uno degli strumenti di cui dispone l’Unione per condividere risorse e redistribuirle per perseguire scopi comuni.

La nuova presidente, Nadia Calviño, ha proposto di aumentare il cosiddetto “gearing ratio”, il rapporto tra la dotazione patrimoniale della BEI e la dimensione del bilancio, o, in altre parole, la capacità della BEI di prendere risorse a prestito per fare finanziamenti.

Anche questa proposta, rilevante ma meno impegnativa del rinnovo del NGEU, è oggi ben lontana dal raccogliere il necessario consenso politico.

Draghi vs Letta

La vera posta in gioco di queste elezioni non passa per il voto: ci sono due idee di Europa che si contrappongono – per semplificare quella di Enrico Letta e quella di Mario Draghi – e saranno i governi a stabilire quale prevarrà.

L’idea di Letta, contenuta nel suo rapporto, è quella di rafforzare gli strumenti e gli approcci di cui l’UE dispone ora − a cominciare dal mercato unico − per affrontare un mondo più ostile e frammentato.

Mario Draghi, nel rapporto che presenterà nelle prossime settimane, sembra aver fatto suo l’approccio di Emmanuel Macron: meno enfasi su concorrenza e mercato unico, più attenzione a creare campioni europei, soprattutto in settori come la difesa, più politica industriale, anche se comporta sussidi e distorsioni.

Ne ho scritto per ProMarket.org, il sito che ho curato per qualche tempo quando lavoravo negli Stati Uniti alla Booth School of Business della University of Chicago e che oggi è seguito dalla bravissima Brooke Fox.

Questo è soltanto un assaggio, si potrebbe continuare, ma direi che per oggi è una dose di informazioni sull’Europa superiore a quella che trovate su tutti i quotidiani italiani dell’ultima settimana messi insieme (con qualche eccezione: per esempio sempre impeccabile il lavoro di Beda Romano e del Sole 24 Ore in generale).

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 5 giugno 2024

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