Beirut, 2 agosto 2023
Martedì 4 agosto 2020 il cielo su Beirut è limpido, la temperatura è di circa 30 gradi e l’afa incombe pesante sulla città. Alle 17 e 55 la polizia segnala alla caserma dei vigili del fuoco di Karantina, che si trova a breve distanza, un principio di incendio nell’hangar 12 del porto, contenente fuochi di artificio. Dieci operatori, nove uomini e una paramedica, arrivano immediatamente sul posto ma non fanno in tempo a rendersi conto del problema che alle 18 e 07 due terribili detonazioni ravvicinate li travolgono.
Apparentemente il fuoco ha coinvolto del materiale altamente esplosivo: si tratta di quasi tre tonnellate di nitrato di ammonio, un fertilizzante stoccato da quasi sette anni nello stesso hangar. Una nuvola arancio, prodotta dal diossido di azoto rilasciato dalla decomposizione dei nitrati, si alza sinistramente sulla città. L’energia liberata dalle esplosioni è calcolata dagli esperti tra 1 e 2 chilotoni, pari all’energia liberata da circa mille tonnellate di tritolo. Il raggio del cratere lasciato dalle detonazioni è di circa 70 metri, e lo spostamento d’aria fa scoppiare i vetri degli edifici nel giro di tre chilometri.
Il bilancio definitivo delle esplosioni è gravissimo: circa 230 persone sono rimaste uccise, oltre 7000 ferite e 300.000 senza casa. La vittima più giovane è il piccolo Isaac Oehlers, due anni, cittadino australiano; poi, in ordine crescente, Alexandra Najjar, nazionalità canadese, di tre anni.
Nei giorni successivi al disastro risulta che il nitrato d’ammonio è stato depositato nell’hangar senza misure di sicurezza assieme a materiale pirotecnico facilmente infiammabile; risulta inoltre che gli ufficiali del porto hanno avvertito più volte le autorità competenti della pericolosità del materiale, senza ricevere risposta.
Le indagini e le proteste
All’indomani dell’esplosione è stata costituita una commissione d’inchiesta sull’incidente, volta ad accertare le responsabilità istituzionali del tragico evento. Da febbraio 2021 l’inchiesta è in capo al magistrato Tarek Bitar, che in due anni e mezzo è riuscito a lavorare pochissimo: dopo essere stata sospesa più volte, l’indagine è ferma da gennaio scorso. Bitar è stato infatti ripetutamente ricusato e minacciato di rimozione per aver chiamato a deporre e spiccato mandati di arresto nei confronti di quattro ministri in carica all’epoca dell’esplosione.
In particolare Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita Hezbollah, ha accusato pubblicamente il giudice in svariate occasioni di voler politicizzare l’incidente prendendo di mira i ministri del suo partito e dei partiti alleati. La ricerca della verità sull’esplosione è un tasto così dolente in Libano che il 14 ottobre 2021 le polemiche sono sfociate nel sangue, quando la protesta sciita contro Bitar si è trasformata in una sparatoria nell’area di Tayouneh, a Beirut, tra sostenitori di Amal ed Hezbollah da una parte e del partito cristiano Forze Libanesi dall’altra. L’escalation di violenza, durata alcune ore, ha provocato otto morti e almeno una trentina di feriti, evocando i tristi fantasmi della guerra civile.
Le famiglie delle vittime, frattanto costituitesi in associazione e vedendosi inascoltate dal proprio Governo, hanno chiesto più volte alle Nazioni Unite di creare un’inchiesta indipendente per arrivare alla verità sulla morte dei loro cari ed ottenere finalmente giustizia. E recentemente qualcosa sembra essersi mosso: lo scorso 1 agosto il ministro degli Esteri facente funzione Bou Habib ha ricevuto gli ambasciatori di 15 tra i 38 Paesi firmatari, nella scorsa primavera, di un’interrogazione congiunta sull’esplosione al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
I diplomatici hanno chiesto ad Habib di sveltire e facilitare l’inchiesta, dicendosi «preoccupati» per i continui ostacoli posti dal Governo libanese al corso della giustizia. Da parte sua il ministro ha assicurato «l’impegno del Governo nel far luce sulle circostanze che hanno portato all’esplosione», ribadendo che «la responsabilità dell’inchiesta appartiene unicamente alla magistratura libanese».
Nella crisi del Paese
In Libano le istituzioni, però, patiscono attualmente una doppia, grave vacanza: dalle elezioni del maggio 2022 manca infatti il Governo, ed il Presidente della Repubblica è vacante dal 31 ottobre scorso, scadenza naturale del mandato di Michel Aoun. Dal 31 luglio manca anche il Governatore della Banca Centrale, esauritosi il mandato trentennale del discusso Riad Salame, ricercato dall’Interpol per reati finanziari gravissimi, dalla corruzione all’appropriazione indebita, dall’esportazione di capitali all’estero al riciclaggio di denaro.
Un tale panorama istituzionale non può che aggravare la già gravissima crisi in atto nel Paese, e c’è da chiedersi se ci sia davvero da parte libanese la volontà politica di arrivare in fondo all’inchiesta sull’esplosione.
L’Associazione delle famiglie delle vittime spera nonostante tutto in una qualche forma di giustizia per i propri cari, moltiplicando eventi e manifestazioni. Il titolo scelto per il terzo anniversario dell’incidente è «per la giustizia e la trasparenza.. continuiamo a camminare». Quest’anno l’associazione ha organizzato una marcia che partirà alle cinque e trenta del pomeriggio dalla caserma dei vigili del fuoco di Karantina, per fermarsi in raccoglimento davanti a quel che resta degli ormai iconici silos di cereali, divenuti tristemente parte del nuovo paesaggio urbano disegnato dall’esplosione.
Lo stesso giorno nella cattedrale di Lisbona, nell’ambito della Giornata mondiale della gioventù in corso in Portogallo, i giovani libanesi prenderanno parte a un’ora di «adorazione e preghiera» in unione «con tutti i libanesi nel mondo», dando seguito al recente discorso del Papa sul tragico evento.