Questa volta c’è grande (e trepidante) attesa verso le elezioni europee del maggio prossimo. Sia per la sorte dell’UE, sia per gli equilibri politici nostrani.
In passato non era così. Le elezioni europee erano considerate “minori”. Celebrate quasi distrattamente. Al più un’occasione per misurare i rapporti di forza tra i partiti nel fronte interno. Gli stessi elettori si prendevano qualche libertà rispetto alle loro abituali appartenenze di partito e comunque con l’attenzione posta ai problemi di casa.
Perché ora non è così, perché è giusto che non sia così, perché le prossime elezioni europee acquistano un singolare rilievo? La risposta è semplice: esse cadono nel vivo di uno dei passaggi più critici del progetto europeo e dell’Unione.
Remota è la visione dei padri dell’Europa, quella che si rinveniva per esempio nella risposta del cancelliere Kohl a chi lo interrogava sulla sua opzione europeista: «Perché mio fratello è morto nella seconda guerra mondiale». Dunque, nella sua ultima sostanza, per un ideale di cooperazione e di pace, dopo secoli di conflitti cruenti tra gli Stati che hanno insanguinato il continente.
La prospettiva degli Stati Uniti d’Europa
Remota e utopistica, rispetto al futuro, la prospettiva federale degli Stati Uniti d’Europa. Chi si azzarda più a evocarla oggi quale traguardo concretamente possibile? Ancora qualche anno fa, gli addetti ai lavori in tema di Europa discutevano dei tempi e dei modi dell’avanzamento del processo di integrazione, ora in discussione sono la stessa direzione di marcia e lo stesso traguardo. Si discute persino del “se” e non del “come”, del “quanto”, del “quando”.
Lo rammento: si discuteva dell’allargamento a Est e oltre; di come conciliare tale allargamento a paesi oggettivamente assai diversi da quelli del nucleo originario dell’UE con il rafforzamento delle istituzioni comunitarie; di una governance che adottasse più il metodo comunitario che quello intergovernativo (il cui corollario era più potere a parlamento e Commissione e meno al Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo per definizione più restii ad un’effettiva integrazione); dell’idea di fare eleggere direttamente dai cittadini europei il presidente della Commissione, così da politicizzarne positivamente la figura e conferirgli più legittimazione e potere, facendolo somigliare al capo del governo dell’Unione; di superare l’impasse rappresentato dalle decisioni all’unanimità nel Consiglio UE con il conseguente potere di veto e invece estendere il campo delle decisioni a maggioranza, sino a ricomprendere le linee essenziali di una politica economica e di una politica estera comuni.
Forse, questioni un poco tecniche e dunque “fredde” per i cittadini comuni, ma che appunto attestavano la condivisione della direzione di marcia, quella di una graduale cessione di sovranità dagli Stati nazionali agli organi dell’UE, quale risposta politica alla globalizzazione dei grandi problemi dell’umanità e al comune obiettivo di fare dell’Europa un attore politico capace di reggere il confronto con le grandi potenze e di partecipare al “governo del mondo”.
La ragioni della crisi del progetto europeo
Una regressione del processo d’integrazione (che pure, sin dalle sue origini, si era svolto attraverso “stop and go”), il cui inizio può essere convenzionalmente fissato nei referendum francese e olandese del 2005 che affossarono la Costituzione della UE, cioè la formalizzazione del patto giuridico-politico a fondamento di un’Europa unita.
Non è difficile identificare le ragioni della crisi del progetto europeo. Mi limito a menzionarne due.
Certamente, la grande crisi economico-finanziaria che prese le mosse dagli USA nel 2007-2008 e che poi si estese all’Europa; e l’impennata dei movimenti migratori che hanno investito il nostro continente anche a causa dei conflitti (e degli infausti interventi occidentali in Iraq e in Libia) a sud del Mediterraneo.
In estrema sintesi: perché i due macrofenomeni, pur così diversi, hanno messo in crisi il progetto europeo? Per rispondere, dobbiamo chiederci quale fosse il nucleo di valore che lo legittimava e che lo faceva apprezzare? Cosa s’intende, essenzialmente, per progetto europeo?
Direi così: il suo modello sociale imperniato su un welfare universalistico, nonché il metodo e le istituzioni delle democrazie liberali, a cominciare dallo Stato di diritto. La crisi e le sue pesanti ricadute sociali – disoccupazione, precarietà, povertà –, con la conseguente domanda di protezione sociale, hanno alimentato una regressione nazionalistica. Sia perché gli strumenti e gli istituti del welfare sono tuttora in capo agli Stati, sia perché i parametri e le regole che si è data l’UE (si pensi a Maastricht) si sono rivelati utili al movimento di persone e capitali ma decisamente sordi alla montante domanda di protezione sociale e di contrasto delle crescenti disuguaglianze.
Analoga riflessione per i movimenti migratori dal Mediterraneo. La portata del fenomeno e, più ancora, la percezione di esso, nonché la strumentalizzazione politica della paura hanno indotto partiti e Stati europei – quale più, quale meno – alla chiusura delle frontiere materiali e culturali, a fare delle istituzioni europee il capro espiatorio e, nei casi estremi (si veda l’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia e tutto il gruppo di Visegrad), a mettere in discussione anche i capisaldi, tipicamente europei, dello Stato liberale di diritto. Con giri di vite alla libertà di stampa e all’autonomia della magistratura.
Sia chiaro: trattasi di un trend più generale, non solo europeo. Basti pensare agli USA di Trump con il suo motto “America first”, con il suo sovranismo/isolazionismo/protezionismo, con la sua pratica messa in discussione del concetto stesso di occidente democratico comprensivo di un’Europa alleata strategica degli USA.
Si pensi allo sviluppo di regimi politici (dalla Turchia all’Egitto) che hanno suggerito a politologi e analisti ossimori audaci quali “democrazie illiberali” o “democrature”. Un trend esattamente opposto a quello, ingenuamente preconizzato dopo il 1989, dell’estensione universale del modello liberal-democratico, uscito vincitore dalla confrontazione bipolare con il comunismo internazionale. Con l’illusione della “fine della storia”.
Senza assolutizzare il rapporto tra cause ed effetti (tutto si tiene), il resto è venuto di conseguenza: la Brexit, lo sviluppo di movimenti sovranisti e populisti un po’ ovunque, la crisi delle sinistre europee per cultura universaliste ed europeiste, il depotenziamento dell’asse franco-tedesco che storicamente ha fatto da motore del processo di integrazione europeo.
Da ultimo, il tramonto delle due leadership che avevano accarezzato l’idea di un nuovo patto teso a rilanciare – o almeno a porre un freno – alla regressione della UE: Merkel e Macron. La prima ha annunciato il suo prossimo ritiro dopo sedici anni di cancellierato, con le sue luci e le sue ombre; il secondo, investito dal movimento dei gilet gialli, costretto a una drastica correzione di rotta della sua politica economica per placare i moti di piazza e comunque depotenziato come leader di un fronte neo-europeista continentale.
Il caso italiano
Il caso italiano si situa in questo quadro, anzi taluni – penso a Bannon, già ideologo di Trump – lo considerano il fronte più avanzato del nazional-populismo in Europa.
Certo, l’Italia “vanta” due peculiarità politiche: una destra nazionalista con qualche tratto xenofobo (questa è diventata a tutti gli effetti la Lega di Salvini) di dimensioni senza eguali nell’Europa occidentale, e i 5 Stelle, un movimento unico nel suo genere e dall’identità mobile e incerta.
I due partiti governano insieme nel segno di una precaria “concordia discors”, ma sono accomunati da elementi di populismo e dalla diffidenza verso l’UE. Naturalmente ricambiati dall’establishment comunitario. Con il risultato dell’isolamento italiano.
Più d’uno ha rimarcato le contraddizioni della politica estera del governo e, di sicuro, della Lega: amica dei sovranisti di Visegrad, cioè di partiti e Stati che, sul fronte dell’immigrazione, si rifiutano recisamente al meccanismo della condivisione; ostile al Global compact dell’ONU sull’immigrazione che impegna gli Stati alla cooperazione internazionale (come principio, ferma restando la sovranità degli Stati nel disciplinarlo legislativamente) e sottoscritto da 164 paesi ma, paradossalmente, non da parte di chi, come l’Italia – non a torto – lamenta di essere stata lasciata sola a gestire il fenomeno. Davvero inspiegabile, se non nella spregiudicata logica propagandistica di Salvini.
A fronte dell’ambigua maggioranza di governo, l’Italia sconta un’opposizione evanescente da parte di partiti legati alle due storiche famiglie politiche europee (popolari e socialisti), che, pur entrambe ridimensionate e in crisi, presumibilmente, saranno ancora maggioritarie nel futuro parlamento europeo.
Le prossime elezioni europee
Le menzionate peculiarità italiane conferiscono ancor più interesse (e problematicità) alla competizione europea anche per le implicazioni nostrane. Come si raccorderanno i nostri partiti con le ancorché debilitate famiglie politiche europee? Con quale assetto di liste elettorali?
Facile immaginare che la Lega di Salvini cercherà agganci con le altre forze nazionaliste di destra europee, a cominciare dalla francese Lepen, con l’intento di condizionare i Popolari, inducendoli a spostare a destra il loro asse politico e a rompere il loro storico rapporto di cooperazione istituzionale con i socialisti.
I 5 Stelle, a conferma della loro unicità e del loro profilo indefinito, allo stato, non hanno referenti politici in Europa e, con qualche ambizione, potrebbero immaginare di inaugurare una nuova aggregazione.
Forza Italia confermerà il proprio ancoraggio ai Popolari, nonostante il proprio legame interno non reciso con la Lega, che, in sede europea, i Popolari invece respingono.
Il Partito Democratico dovrebbe confermare il proprio riferimento al fronte dei socialisti e democratici, tuttavia con due “tentazioni”: quella di un rapporto privilegiato con En Marche, la formazione liberal-democratica di Macron cui occhieggiano i renziani e lo stesso Renzi o quella di avviare un’interlocuzione con i Verdi tedeschi, in promettente crescita al punto da insidiare il partito socialdemocratico che aveva nella Germania la sua storica roccaforte. Ovviamente, quest’ultimo nodo sarà sciolto solo a valle del congresso del PD chiamato a ridefinire identità e posizionamento del partito in Italia e in Europa.
Rischi e opportunità
Come spesso accade quando la crisi si fa acuta, i rischi si fanno grandi. Essi si configurano come sfide decisive, ma anche come opportunità. Ciò vale per l’UE, ma anche per l’Italia, per la sua democrazia stanca, per i suoi partiti vecchi e nuovi.
Due sole cose si possono fissare con sicurezza.
La prima: il progetto europeo è a un bivio cruciale; chi non si rassegna al suo declino deve però archiviare la consunta retorica europeista, deve elaborare motivazioni nuove e convincenti, deve mettere in campo un audace piano di riforma dell’Europa che conosciamo. Pena darla vinta ai suoi detrattori, la cui strada è in discesa.
La seconda: i partiti schiettamente europeisti farebbero un errore se battessero la scorciatoia di un fronte indistinto tipo “tutti contro i nazionalisti”. Anche considerando la legge elettorale proporzionale, meglio differenziare e articolare l’offerta politica, così da allargare il fronte degli europeisti in modo che essi possano competere a destra, al centro e a sinistra, facendo breccia nel campo degli antieuropeisti di vario rito.
A dispetto di certi luoghi comuni circa l’esaurimento della polarità destra-sinistra, è mia convinzione che solo ripristinando (e naturalmente riformulando creativamente dentro le nuove coordinate) tale polarità si può sperare di battere i populismi di vario conio, che si nutrono appunto di indistinzione e di una fallace opposizione politica tra popolo ed élites. Un’opposizione – quest’ultima – cui sottende, più o meno esplicitamente, l’idea che il protagonismo dei popoli possa esprimersi solo in sede nazionale (e in versione nazionalistica) e che le istituzioni comunitarie siano invece, per definizione, appannaggio di élites tecnocratiche nemiche dei popoli.
Rassegnarsi a questo schema sarebbe la via sicura che condurrebbe alla morte del progetto europeo, al trionfo dei nazionalismi, alla deriva populista delle nostre democrazie.
Analisi lucidissima