L’Europa impossibile di Mario Draghi

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Dopo molta attesa, finalmente Mario Draghi ha presentato il suo rapporto sul futuro della competitività dell’Unione Europea, assieme alla committente Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea che un anno fa gli aveva affidato l’incarico.

Nelle 328 pagine del report – e nella più accessibile sintesi da 70 – Draghi traccia le coordinate per una Europa impossibile.

Attenzione, non perché si tratti di un progetto troppo ambizioso, ma perché l’Unione versione Draghi vuole fare molte cose assieme, che però si escludono un po’ tra loro.

Tutto e il suo contrario

Attirare investimenti stranieri e costruire alleanze, ma anche attuare un protezionismo selettivo per proteggere i settori strategici, integrarsi di più ma anche di meno, riducendo il peso regolatorio là dove è ridondante, costruire una transizione ecologica rapida e decisa ma anche usarla per favorire la crescita, non per limitarla, difendere il mercato unico e la concorrenza ma anche favorire le fusioni e le acquisizioni là dove servono imprese più grandi.

Poiché la politica è l’arte di impiegare risorse scarse e costruire consenso intorno alle priorità che si scelgono, Draghi si sottrae a questo vincolo e come soluzione indica di usare risorse quasi illimitate: investimenti per almeno 800 miliardi di euro all’anno, il doppio del piano Marshall (americano) che tra il 1948 e il 1952 ha risollevato l’economia europea dopo la Seconda guerra mondiale. Non manca l’avvertenza che si tratta di una cifra «probabilmente sottostimata», vista l’ambizione del report.

Per dare un’idea, ai tempi del piano Marshall gli investimenti erano all’1-2 per cento del PIL, nel piano Draghi dovrebbero salire al 4,4-4,7 per cento. Con risorse illimitate, insomma, l’UE potrebbe fare tutto.

La domanda ovvia è sempre: chi paga? Draghi ha una capacità unica di essere tanto radicale nella direzione indicata quanto vago, sfumato, laico nel percorso da seguire per raggiungere la meta prescelta.

Lo faceva da banchiere centrale alla Bce, tutti ricordano la sua promessa di salvare l’euro nel luglio 2012, nessuno saprebbe spiegare oggi i dettagli degli strumenti che la Bce ha poi adottato, senza usarli, per applicare quell’impegno. E lo faceva anche da presidente del Consiglio italiano, con le critiche drastiche al Superbonus poi confermato, le dichiarazioni nette sulla riforma del catasto e sulle concessioni balneari (problemi rimasti in sospeso) o sull’energia, con la dipendenza dal gas che è rimasta invariata ma con un cambio di fornitori dalla Russia ad Algeria e Qatar.

Da dove verrebbero i fondi necessari

Dunque, chi paga gli 800 miliardi che secondo Draghi servono?

Il report su questo è piuttosto vago, anche la cifra è una stima spannometrica, che si basa su calcoli del team che ha lavorato al rapporto basati su stime della Commissione (quali? E che bisogno aveva la Commissione di farsi dire da Draghi qualcosa che già sapeva?).

Molti giornalisti e commentatori hanno recepito il messaggio che quegli 800 miliardi dovrebbero essere investimenti pubblici europei finanziati da debito comune europeo. Ma il sibillino Draghi, con formule di una raffinatezza dialettica analoga a quelle usate nelle conferenze stampa della BCE ai tempi della crisi dell’euro, ha spiegato che il debito comune è uno dei possibili strumenti considerati dal rapporto, non è un fine in sé.

Se gli Stati e la Commissione trovano altri modi per mobilitare quelle risorse – investimenti privati, debito nazionale, risorse già più o meno esistenti come i fondi del MES, il Meccanismo europeo di stabilità, bilancio europeo – benissimo. Il debito comune sul modello del Recovery Plan è soltanto una tra le tante vie per arrivare alla meta di un raddoppio degli investimenti nell’Unione.

Però, altra raffinatezza dialettica, è chiaro che se ci fosse un safe asset europeo, cioè una specie di titolo di Stato a zero rischio dell’Unione, sarebbe molto più facile completare l’unione dei capitali, cioè integrare i mercati finanziari europei, e così far arrivare finanziamenti là dove serve per favorire l’innovazione, aumentare la produttività e ridurre il differenziale di competitività con gli Stati Uniti, oltre che proteggersi dall’ascesa della Cina.

Il debito può servire, ma non è l’unico strumento, anche se nelle stime che cita Draghi gli investimenti e le riforme previste dal rapporto potrebbero aumentare la produttività totale dei fattori (cioè l’efficienza dell’economia e il suo potenziale di crescita) e contribuire così a ripagare almeno in parte il costo, attraverso un aumento del gettito fiscale degli Stati membri o della stessa UE.

Ursula von der Leyen chiarisce che se ci sono progetti comuni, è legittimo che ci siano fonti di approvvigionamento comuni. Ma questa idea non è molto condivisa dai governi degli Stati membri, infatti al momento il dibattito sul rafforzamento della difesa europeo si fonda per la quasi totalità su un aumento delle risorse a livello nazionale.

Oltre gli 800 miliardi

L’approccio di Draghi non è soltanto riassumibile negli 800 miliardi. C’è una visione complessiva, non di rassegnazione ma certo di pessimismo: quando in conferenza stampa gli chiedono se questo sia uno di quei momenti in cui o si fa qualcosa di radicale o l’Ue muore, lui chiarisce «non penso che sia quel genere di situazione, o si va nella direzione del rapporto o si va incontro a una lunga agonia».

Draghi suggerisce che l’Ue adotti approcci che finora sono stati tipici dei Paesi emergenti, consapevoli della loro inferiorità: protezione delle industrie strategiche o di quelle nascenti, rinunciando a opportunità di commercio per dare tempo e risorse alle imprese locali di rafforzarsi (il conto lo pagano, nell’immediato, consumatori e contribuenti europei), costruire joint venture con partner stranieri più competenti, come ha fatto la Cina per anni, così da imparare.

E poi imporre requisiti di provenienza europea per i componenti di certi prodotti con una rilevanza politica o strategica, cioè quello che l’Ue ha contestato negli ultimi due anni alla politica industriale dell’amministrazione Biden perché questi requisiti sono praticamente sempre in violazione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO).

In questo approccio c’è la rinuncia ad alcuni pilastri del progetto europeo per come l’abbiamo conosciuto, pilastri sui quali si regge invece il rapporto di Enrico Letta (sollecitato dal Consiglio europeo, cioè dai governi).

Nell’Europa ipotizzata da Draghi, le politiche commerciali e industriali si definiscono caso per caso e si evolvono nel tempo, a seconda della rilevanza strategica di questo o quel settore. Significa che il confine tra discrezionalità della politica e imparzialità del mercato si spostano di continuo, e si plasmano sulla base delle esigenze contingenti – geopolitiche, industriali, energetiche – dell’Unione, con l’ovvio problema che spesso gli Stati membri hanno esigenze diverse.

In questa versione dell’Unione Europea, il mercato unico è uno strumento, non un fine. E la politica della concorrenza, così come quella commerciale – due di competenza esclusiva di Bruxelles – diventano ancillari ad altre priorità strategiche, definite non si sa bene da chi.

Sviluppo tecnologico

Tutto questo però rischia di essere inutile se l’UE non fa la cosa decisiva per recuperare competitività: sviluppare un settore tecnologico comparabile a quello americano, in particolare sull’intelligenza artificiale.

Negli altri settori, l’UE ha già una produttività comparabile o superiore a quella americana, ma è prigioniera della «trappola della tecnologia di medio livello» (qui Draghi cita un report di tre università, una delle quali è l’Institute for European Policymaking con cui collaboro sulla «middle technology trap»).

Servono imprese europee del calibro di Google, Microsoft, OpenAI, o anche soltanto Palantir o Stripe, non basta l’innovazione nel settore automobilistico, dove si concentrano le spese private in ricerca e sviluppo europea. Ma come si possa sperare di far germogliare una Silicon Valley europea in un’Unione più protezionista e dalle prospettive economiche condizionate dalla politica è poco chiaro.

Comunque, mentre Draghi parlava della necessità esistenziale di uno sviluppo tecnologico europeo di quel livello, all’assemblea della Confartigianato a Roma il ministro degli Esteri Antonio Tajani otteneva applausi predicando la necessità di formare falegnami per diffondere il made in Italy dell’arredamento in nuovi mercati.

Ci vorranno giorni per leggere e discutere i dettagli del rapporto di Draghi nella versione estesa. Ma intano almeno una conclusione è possibile: l’Europa di Draghi contiene alcune contraddizioni, ma almeno è uno sforzo di visione totalmente estraneo alla politica nazionale di molti Stati membri, a cominciare dall’Italia di Giorgia Meloni.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 10 settembre 2024

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4 Commenti

  1. Claudio 11 settembre 2024
  2. Claudio 10 settembre 2024
    • anima errante 11 settembre 2024
      • Fabio Bartolomucci 11 settembre 2024

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