Il fallimento europeo di Conte e i suoi vice

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Non c’è motivo di compiacimento per la recente performance del presidente Conte al Parlamento Europeo. Così, come non c’è materia di congratulazione per le espressioni poco delicate con cui gli interlocutori continentali hanno salutato le parole del capo del governo Italiano. Né può appassionare la disputa su chi abbia sbagliato di più nell’adottare certe espressioni sia pure per scegliere quelle più adatte alla ritorsione.

Dal punto di vista italiano, si può osservare, senza esitazione, che uno svarione è stato commesso quando, con l’aria di evocare un destino già scritto, si è ricordato agli autorevoli membri del consesso strasburghese che ormai erano nella condizione del cigno che, secondo la leggenda orientale, canta melodiosamente prima di morire. Sentirselo dire non deve aver fatto un bell’effetto, come dimostra lo scatenamento delle contumelie di basso conio, come quella per cui il premier italiano si sarebbe comportato come una marionetta nelle mani dei suoi due vice presidenti, cofirmatari del patto che lo ha portato al governo.

presidente Conte

L’equilibrio nell’errore

In effetti, il ruolo svolto dai due soggetti citati era più che evidente. Nelle settimane scorse, a turno, entrambi i vice di Conte avevano fatto allusione al “fine corsa” di questo Parlamento Europeo, pronosticandone la successione ad opera delle fresche energie sovraniste variamente assortite nei magazzini della vecchia Europa. Sicché, per quanto pesante fosse la rappresaglia, non si poteva evitare di considerarla giustificata.

Ciò che più colpisce, semmai, è la disinvoltura con cui il presidente Conte nel preparare diplomaticamente il suo discorso abbia evitato con cura di discostarsi dalle posizioni dei suoi committenti. Parrebbe che il timore di far torto all’uno o all’altro lo abbia portato a ricercare un… equilibrio nell’errore degno davvero di miglior causa.

A questo punto però, mentre appare inevitabile prendere le distanze dall’infausto tentativo di sintesi abbozzato dal Premier, non è detto che ne guadagnino in chiarezza le posizioni dei singoli contraenti, entrambi alla ricerca della più conveniente collocazione europea.

La fine della pacchia…

Qui la posizione della Lega pro-Salvini appare oggettivamente meglio definita di quella dei suoi partners a 5Stelle. Salvini si avvale di una piattaforma omogenea, caratterizzata dalla proclamata ostilità agli “altri” in qualsivoglia forma si manifestino. L’omogeneità si riscontra anche in termini di coerenza con le scelte in materia di immigrazione, con il rifiuto di ogni ingresso dal mondo esterno e con il sostanziale rinvio degli immigrati ai territori di partenza, salvo stazionamento nei lager libici, così poco raccomandabili. Dichiarare “finita la pacchia” è più di uno slogan, è un programma.

A tale coerenza interna non fa tuttavia riscontro una simmetrica disposizione nelle alleanze continentali. Si può parlare di un’affinità con le posizioni lepeniste in Francia, ma non c’è segnale di un convergenza configurata in quella direzione; e, d’altra parte, proprio sui versanti più sciovinisti, come quelli del gruppo di Visegrad, non si colgono segnali significativi di riscontro.

Per un movimento come la Lega, che a livello nazionale si caratterizza per compattezza organizzativa e per capacità di leadership, la dimensione europea appare ancora in larga misura da esplorare e, in ogni caso, si presenta come un territorio pieno di incognite.

L’affannoso itinerario dei grillini

Addirittura più affannoso si presenta il cammino dei grillini, anch’essi alla ricerca di alleanze continentali, che però sono meno omogenee di quelle dei leghisti. La politica grillina, così come gestita da Di Maio, si è esercitata in Francia facendo sponda, per un verso, agli attacchi leghisti a Macron e, per un altro, ricercando vie di partecipazione autonoma al confuso schieramento antagonista che si è aggregato attorno al fenomeno delle giubbe-gialle. Ma anche qui i risultati sono scarsi e gli esiti contraddittori.

Il richiamo dell’ambasciatore a Roma come esito di una provocazione antifrancese non è certamente una bandierina da esporre sulla carta geografica, semmai è un incidente di percorso che, per essere disinnescato, ha avuto bisogno di un intervento – quello del presidente Mattarella – che ne ha sanzionato il fallimento .

Quanto all’affanno di cui si accennava, basterà evocare, in aggiunta, l’esito contraddittorio dei contatti stabiliti con forze, presentate come affini, racimolate nei circoli minori del nazionalismo europeo e con una contraddizione che non sfugge all’attenzione dell’osservatore: vale a dire che si tratta di forze dichiaratamente di destra, tutt’altro che compatibili con alcune delle pulsioni residue di una sinistra grillina a sostegno della quale si spendono il presidente della Camera Fico e lo sparuto manipolo dei suoi seguaci.

Quanti elementi del quadro descritto potranno modificarsi da qui alle elezioni di maggio; e in quale direzione? L’impressione è che un disegno europeo nel senso tradizionale del termine si vada stabilizzando e che assai scarsi siano i margini di movimento che possono essere introdotti da forze non omologabili con l’establishment consolidato.

Tra Mauro, De Masi e Prodi

Neanche su questo versante si rintracciano elementi che lascino presagire un atteggiamento propositivo in grado di imprimere all’Europa una spinta di rinnovamento in grado di superare l’attuale ripiegamento.

Ezio Mauro ha posto l’interrogativo: «Poi un giorno arriverà il momento di chiederci cosa ce ne faremo di un’Europa turrita e murata, ma con l’anima smarrita, dentro un Occidente ridotto a puro crepuscolo» (Ezio Mauro, L’Uomo Bianco, Feltrinelli pag. 131).

Domenico De Masi ha aggiornato le dottrine sul cambio d’epoca con riferimento specifico ai mutamenti del lavoro per l’avvento dell’intelligenza artificiale (Domenico De Masi, Il mondo è giovane ancora, Rizzoli, pag. 103 ss.).

Che fare?

Più prosaicamente, Romano Prodi ammonisce sulle intenzioni della Spagna di sostituirsi all’Italia nel ruolo di nazione fondatrice dell’Unione (Messaggero, 17 febbraio 2019) e così mette a nudo, sul piano tattico, uno dei fronti scoperti del quadro europeo.

Federalismo in declino

Psicologicamente, va detto, l’Italia non rifugge dalla ricerca di un destino europeo diverso dall’amministrazione dell’esistente. Dispone di risorse storico-politiche in grado di supportare un nuovo corso che non si riduca alla surrogazione dell’Italia con una Spagna più motivata alla bisogna.

Ma pare arduo immaginare che, da qui a maggio, possano affermarsi forze sufficienti a invertire le tendenze dell’involuzione e del ristagno per lasciar campo ad un respiro ideale e politico che metta in scacco le suggestioni del sovranismo e affermi, al suo posto, un rilancio della prospettiva federalista, l’unica all’altezza delle esigenze di un continente che voglia interagire da par suo sullo scenario internazionale.

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