
(AP Photo/Alex Brandon)
Alla telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin è succeduto, a distanza di qualche ora, un nuovo intenso bombardamento dell’Ucraina.
Così stanno le cose: i fatti smentiscono le parole, e le parole i fatti. Capire a che punto sia la trattativa per la fine della guerra in Ucraina – che Trump aveva assicurato poter concludere entro il 21 gennaio, ventiquattr’ore dopo essere entrato alla Casa Bianca – è più affare da allibratori che da analisti politici: chiunque vi dirà che va a finire così o va a finire cosà tira a indovinare, perché nessuno può sapere cosa frulli in capo a Donald Trump, e il dubbio che non lo sappia neppure lui è più che lecito.
Cosa voglia Putin, invece, è assai più trasparente: trasformare l’Ucraina in un’altra Bielorussia.
Era il suo scopo quando vinceva le elezioni grazie al Donbass e alla Crimea, è rimasto il suo scopo quando ha constatato che le elezioni non gliele avrebbero più fatte vincere, e allora si è preso il Donbass e la Crimea.
Ma le sue mire – sue e dei suoi sodali che guidano la Russia, naturalmente – restano quelle di una neutralizzazione della marca Ucraina, la «frontiera» (questo il significato della parola krajina nelle lingue slave) sud-ovest della Russia. Con la prospettiva di trovare il modo di neutralizzare anche gli ex-satelliti europei dell’URSS e farne di nuovo il buffer con il resto dell’Europa, come ai bei tempi della guerra fredda.
Ovviamente, la Russia non ha le carte – come direbbe Trump – per realizzare quei suoi sogni di gloria. Non le ha mai avute: quando si è presa la metà centro-orientale dell’Europa, nel 1945, è riuscita a farlo perché gli Stati Uniti glielo hanno consentito.
Ma, mi si ribatterà, i russi erano arrivati a Berlino, e a Praga, e a Vienna, e a Budapest. Vero, ma:
1) nel 1814 i russi sono arrivati a Parigi, ma non per questo i britannici li hanno lasciati occupare la Francia, e nemmeno nessuno dei territori attraversati per arrivare a Parigi (mezza Polonia l’avevano già presa alla fine del secolo precedente);
2) nel 1877, i russi sono arrivati alle porte di Istanbul, ma, al tavolo delle trattative, la coalizione di tutti gli altri Paesi europei li ha ricacciati indietro;
3) nel 1945, per lasciare i russi arrivare nelle capitali dell’Europa centro-orientale, gli americani hanno rallentato o sospeso le loro avanzate e, nel caso della Germania, hanno persino dato ai russi e alla loro futura repubblica tedesca fantoccio una parte del territorio che avevano conquistato.
Non sappiamo cosa abbia in testa Trump, ma sappiamo qual è stata la linea strategica americana fin dal 1945 (e probabilmente fin dal 1919): tenere divisa l’Europa e tenere i russi fuori dalla portata di ogni possibile intesa con l’Europa.
Piccola precisazione semantico-geopolitica: quando scrivono la parola «Europa», gli strateghi americani leggono «Germania».
I vincoli della Russia
A causa della sua fisiologica debolezza economica, la Russia non ha mai avuto la forza per condurre una politica estera autonoma.
Per questo ha affinato altri espedienti per promuoversi al rango di grande potenza: una spesa militare gigantesca (che ovviamente contribuisce a incancrenire la sua debolezza economica); l’arte del bluff e della dezinformatzija; una diplomazia di altissima qualità, accompagnata da una altrettanto scrupolosa e onnipresente attività spionistica; infine, un’elasticità ideologica a tutta prova, capace di saltare dal panslavismo alla panortodossia, dal comunismo al sovranismo, da baluardo dell’Occidente a alternativa all’Occidente.
Ma soprattutto, Mosca si è sempre giovata dell’ancoraggio ora a questa ora a quella potenza vera, o coalizione di potenze, con la stessa agilità dimostrata nell’agosto del 1939, con l’alleanza tra Stalin e Hitler, o nel giugno 1941, con l’alleanza con Roosevelt e Churchill contro Hitler. E oggi, con la nuova alleanza con gli Stati Uniti contro l’Europa – mentre nel febbraio 2022 il calcolo era molto probabilmente di giocare l’Europa (leggasi Germania) contro gli Stati Uniti.
Si noti en passant che istruzioni sono state emanate in questi giorni dai responsabili della propaganda russa affinché si cessi di usare la formula spregiativa di «Occidente collettivo», escludendone i nuovi amici americani e riservando il disprezzo alla sola Europa.
Già, l’Europa. Alcuni specialisti sostengono che Putin voglia dividere gli Stati Uniti dall’Europa – ipotesi che le nuove istruzioni degli uffici di propaganda moscoviti tenderebbero a corroborare.
Facciamo un piccolo passo indietro: durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti si sono serviti della Russia contro l’Europa, ma si sono anche serviti dell’Europa contro la Russia, soprattutto per arginare la tentazione di Mosca a trovare una sponda in Asia, preferibilmente a Tokyo.
E i russi, dal canto loro, si sono serviti dell’Europa contro gli Stati Uniti appena ne hanno avuto l’occasione: non solo usando i vari Partiti comunisti appiattiti su Mosca, ma molto più efficacemente con la Ostpolitik tedesca e poi con la «diplomazia energetica» – capitali contro gas e influenza politica (scatenando, va da sé, l’ira funesta di Washington).
In epoche più recenti, l’espansione della NATO a Est e la promessa fatta a Ucraina e Georgia di entrare nell’Alleanza atlantica furono un modo sicuro di scavare un solco tra l’Europa e la Russia. Il successo di quell’operazione è andato al di là delle aspettative, forse troppo al di là: Putin è caduto nella trappola, mettendo in campo risorse che la Russia non ha, e condannandosi all’indebolimento, alla subordinazione alla Cina e alla perdita della sponda europea. Un disastro.
Un mondo di uomini forti
Ora gli Stati Uniti vengono in soccorso alla Russia indebolita, ma con quale scopo? Si dirà: dividerla dalla Cina.
Certo, questo era l’obiettivo strategico americano già prima del 24 febbraio 2022, ma l’attacco all’Ucraina ha avuto l’effetto opposto; per questo si diceva che l’operazione di divisione dell’Europa dalla Russia è andata al di là di quanto gli strateghi americani sperassero, e ha finito per aggravare il loro vero problema – che sta a Pechino e non certo a Bruxelles.
Separare la Russia dalla Cina era l’obiettivo strategico americano prima dell’attacco all’Ucraina, ed è diventato ancora più pressante dopo.
Che Washington prima o poi andasse al soccorso di Mosca era nelle carte; ma oggi non si può più parlare di obiettivi «strategici», perché la bussola americana si è rotta; anzi, ha perso l’ago. Come detto all’inizio, è impossibile sapere cosa vogliano gli americani, anche perché è probabile che non lo sappiano neppure loro.
Non si può nemmeno escludere che Trump e la sua ghenga sognino un triumvirato di «uomini forti» alla testa del mondo formato da Trump, Putin e Xi che, in quel caso, diventerebbe immediatamente un quadrumvirato con l’adesione di Narendra Modi.
Al di là del fatto che dietro agli «uomini forti» c’è sempre un paese debole, tale ipotesi resta assai improbabile, o comunque – se mai, ipoteticamente, si realizzasse – destinata a durare lo spazio di una stagione, giusto il tempo per i motivi profondi della rivalità sino-americana di tornare in superficie. Ma qui si entra in un gioco di complessità fuori dalla portata dell’attuale inquilino della Casa Bianca e della sua futile ma rumorosa banda di yes-men.
Quanto conta l’Europa
Si può invece azzardare l’ipotesi che, diversamente da ciò che sostengono molti specialisti, l’Europa non c’entri nulla, o comunque molto poco.
Certo, per i russi è importante che l’Europa non s’indebolisca troppo, o non avanzi troppo nelle sue per ora incerte prospettive di coalizioni di volenterosi, perché resta una carta da giocare eventualmente, in un altro prossimo, possibile, giro di valzer, per controbilanciare gli Stati Uniti o anche, magari, Pechino.
Ma per gli americani è del tutto possibile che, Trump o non Trump, l’Europa non sia più parte dell’equazione, o lo possa essere solo incidentalmente e strumentalmente.
Il «pivot to Asia» degli Stati Uniti, infatti, non è cominciato con Barack Obama e Hillary Clinton, ma con Jimmy Carter cinquant’anni fa. Nel suo libro del 1986, l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt rilevava che «alla fine degli anni 1970, il bacino del Pacifico era diventato un nuovo termine magico» a Washington, dove Carter aveva cominciato a sostituire «l’influenza predominante della costa orientale nella politica estera con l’influenza del sud e della costa occidentale».
A determinare questo slittamento erano stati il miracolo economico giapponese, soprattutto, ma anche il successo delle quattro «tigri asiatiche» – Corea, Taiwan, Hong Kong e Singapore – che indicava come l’asse economico del mondo si stesse spostando lì, e che lì dovevano dunque spostare la loro attenzione gli americani.
Certo, l’Europa serviva ancora a Washington come partner economico e strumento politico indispensabile, ma meno di prima. Sempre meno: in proporzione non tanto all’indebolimento dei Paesi europei, quanto al rafforzamento del peso dell’Asia. Quando, a questo movimento, si sono aggiunti l’indebolimento dei Paesi europei e del loro fumoso progetto di unione, il distacco si è fatto più marcato, con il «pivot to Asia» prima, e con le scomposte bordate di Donald Trump contro la NATO dopo.
In una situazione così fluida e incerta, è bene tenersi strette le costanti geopolitiche che, a un momento o a un altro, sono destinate a riemergere, indipendentemente da chi si sta parlando al telefono.
Lo stesso vale per la negletta Europa, per il Regno Unito orfano volontario e per il Canada orfano involontario. E forse per la Turchia.
Siamo solo agli inizi di un possibile nuovo riassestamento delle placche geopolitiche mondiali, e ciascuno sta prendendo le misure.
Vedremo cosa partorirà la montagna della «coalizione dei volenterosi», se è davvero una montagna e non un decoro di cartapesta.
Vedremo quanti e quali siano i volenterosi e di quante risorse dispongano veramente, non solo in termini di budget, ma anche di sostegno popolare. E, soprattutto, se, da volenterosi, vogliono davvero tutti la stessa cosa.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 20 marzo 2025
No, non è vero. “Il significato della parola krajina nelle lingue slave” non è “la frontiera”. In polacco “kraina” vuol dire “Terra – parte di un paese, un’area che costituisce un tutto in termini geografici, storici o etnici”. In ucraino “країна” si riferisce a “un territorio con confini definiti e una popolazione che costituisce un’entità unica in termini di storia, cultura e nazione e che in termini politici e geografici può essere indipendente o dipendente”. Parola “Ucraina” è il sinonimo di “kraina”, “kraj”. Nella vecchia traduzione ucraina del Vangelo di Peresopnytsia del 1561, dove c’è il greco “chora” o il latino “regio” c’è la parola “ucraina”.