Francia-Governo: «Muoia Sansone!»

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«Muoia Sansone e tutti i filistei!». Questo sembra essere il grido di guerra degli oppositori al piano Barnier per un primo timido raddrizzamento della periclitante situazione finanziaria francese. Se la Francia non riesce a metter mano al suo deficit e al suo debito pubblico, le conseguenze le pagheranno anche gli elettori del fronte di sinistra e del fronte di destra che stanno cercando – seppur separatamente – di impallinare il governo Barnier e, soprattutto, di far naufragare il suo piano di risanamento.

Quel che sorprende è che qualcuno possa sorprendersi di quello che sta succedendo.

La kermesse parlamentare del 2 dicembre è stata il quasi inevitabile esito di ultima (per ora penultima: si vedrà quel che succede) istanza della somma di una tendenza di lungo e lunghissimo periodo e di una tendenzucola più corta e più meschina in corso dalla sera della dissoluzione dell’Assemblea nazionale, il 9 giugno scorso.

La tendenza di lungo e lunghissimo periodo riguarda l’uso del denaro pubblico per far fronte a qualunque problema. La scuola non funziona più e alimenta discriminazioni e disuguaglianze? Diamo più soldi ai professori. Gli agricoltori protestano perché non vogliono le misure di salvaguardia dell’ambiente? Diamo più soldi agli agricoltori. L’industria X va male e rischia la bancarotta? Diamo più soldi all’industria X. I casi di violenza domestica crescono fuori controllo? Diamo più soldi a polizia e cellule di soccorso psicologico. E così via.

Per non turbare l’ordine sociale, tutti i problemi, dai più grandi ai più piccoli, sono stati affrontati iniettando denaro pubblico. Cosa chiede oggi il Rassemblement national (ex Fronte nazionale) al premier Michel Barnier? Più soldi ai pensionati. E questo nonostante il fatto che, in Francia, i pensionati siano una delle categorie più protette: Le Monde calcola che se dovessero ricevere quanto hanno pagato in contributi durante l’età lavorativa, oggi prenderebbero dal 30 al 50 per cento in meno di quanto ricevono. Ma neanche qui c’è da stupirsi, se si considera che un iscritto su tre sulle liste elettorali è pensionato, ma è uno su due tra i votanti.

Masochismo demografico

È solo un esempio. Ma significativo, per un paese in cui i tassi di fertilità calano più rapidamente che altrove: secondo l’Istituto di statistica INSEE, dai 2,03 figli per donna nel 2010 (il tasso più elevato tra i paesi di più vecchia industrializzazione), si è passati a 1,68 nel 2023 (vedi grafico).

Continuando a fare la guerra agli immigrati, in Francia come altrove, il peso del mantenimento dei pensionati ricade in modo crescente sul numero decrescente di coloro che lavorano.

Secondo un vecchio (2010) studio dell’INSEE, nel 2007 c’erano in Francia 86 persone in «età inattiva» per 100 in «età attiva», che si prevedeva diventassero 114 per 100 nel 2035 (cioè un numero di «mantenuti» superiore a quello dei «mantenitori»); siccome la situazione demografica si è aggravata più del previsto, è possibile che questo rapporto sia destinato a peggiorare. Il che significa che il compromesso generazionale è sempre più a rischio.

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La tendenza di lungo e lunghissimo periodo di ricorso sistematico alla spesa pubblica per far fronte a qualsivoglia problema – cominciata alla fine delle Trente Glorieuses, i trent’anni del miracolo economico post-bellico – è dunque chiara, ed è visibile nel grafico che segue:

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Debito pubblico in miliardi di euro (linea blu) e in percentuale sul PIL (linea rossa), 1975-2023.

A questa tendenza, si diceva, si sommano le tendenzucole meschine messe in moto con lo scioglimento del parlamento dopo le elezioni europee.

La scintilla

Se gli storici del futuro avranno voglia di scavare tra gli archivi per scoprire quale sia stata la scintilla che ha innescato la fase finale della caduta della Francia a metà degli anni 2020, forse allora capiranno le ragioni che hanno spinto Emmanuel Macron a sciogliere l’Assemblea nazionale la sera del 9 giugno 2024. Tra le varie ipotesi che si fanno oggi, piuttosto a tentoni, la meno meschina, appunto, sarebbe che Macron abbia voluto irrobustire la propria maggioranza relativa per prepararsi al pressoché inevitabile assalto peronista alla legge finanziaria del 2025.

Alla luce della catastrofe elettorale alle europee del 9 giugno, non si capisce in base a quali speculazioni scaramantiche avrebbe potuto germogliare l’idea di un rafforzamento del partito di Macron in quindici giorni. Comunque, se scommessa c’è stata, è stata evidentemente persa, e persa malamente.

Circola però un’altra ipotesi: che il machiavellico presidente francese, ben sapendo che l’estrema destra avrebbe stravinto le elezioni politiche, abbia mandato Barnier al massacro per costringere poi in un secondo tempo (cioè, oggi) il Rassemblement national a entrare se non nel governo almeno nella maggioranza.

Non si può escludere che vada a finire così, ma l’idea che possa essere l’esito di un lungimirante disegno architettato da lunga data sembra attenere più alla dietrologia che alla realtà.

Il risultato, comunque, è ora sotto gli occhi di tutti. La crisi politica francese non farà che accentuare la crisi economica, che si ripercuoterà sulla crisi politica, aggravandola a sua volta.

Una crisi politica più seria di quella tedesca, almeno per quel che riguarda gli equilibri parlamentari. In Germania, infatti, le elezioni di febbraio dovrebbero sancire la vittoria del centro-destra, e comunque, quale che ne sia l’esito, la soluzione di una nuova große Koalition è sempre a portata di mano (almeno per ora). In Francia, lo si è visto, le coalizioni sono tabù, e lo sono tanto più quanto più grosse sono.

macron e zelenski

I filistei sotto le macerie

Il mondo potrebbe guardare l’autoaffondamento della Francia con un distacco anche un po’ divertito: avete sempre dato lezioni agli altri e ora non sapete che pesci pigliare per voi stessi. Il fatto è che, tra i filistei che rischiano di morire sotto le macerie del Sansone-Francia ci sono, in prima linea, gli europei, e, in conseguenza, il resto del mondo.

I due pilastri su cui si regge il progetto europeo poggiano entrambi nella palude di una crisi profonda. Che non è soltanto crisi politica, né soltanto crisi economica: è una crisi strategica. Tutti presi a guardarsi l’ombelico e a chiedere soldi, i francesi perdono una dopo l’altra le proprie roccaforti geopolitiche: in Africa, la boucle est bouclée, il cerchio si chiude, con la cacciata dei militari francesi dal Ciad (dove Macron si è inutilmente speso in un sostegno incondizionato ai dittatori Idriss Déby padre e poi Idriss Déby figlio) e addirittura dal Senegal, fino ad oggi considerato il paese più fedele tra le ex colonie di Parigi.

La Nuova Caledonia, piccolo arcipelago davanti alle coste orientali dell’Australia, è in lista d’attesa per diventare il prossimo transfuga, il che metterebbe fine al capitale fittizio (ma fin qui politicamente proficuo) di una Francia «potenza del Pacifico».

La Germania, dal canto suo, non sa più se sperare in Washington, in Pechino o in Mosca; fino a ieri c’era anche chi sperava in Parigi, o perlomeno nel progetto fantasioso dell’«autonomia strategica». Oggi, la sponda francese è fortemente svalutata. E, tra l’altro, nella sua svalutazione, ha trascinato verso il basso anche l’euro, la pupilla dell’occhio tedesco. Un affronto in più, tra i molti che Parigi e Berlino si stanno scambiando in questi ultimi tempi.

E proprio in quegli affronti/scontri sta il problema più grave. Non solo la Germania e la Francia sono sempre più deboli, politicamente ed economicamente, e confusi strategicamente; ma sono anche sempre più distanti.

Dall’energia alla guerra in Ucraina, tutto è motivo di dissidio; ma il fronte più pericoloso, perché lì il dissidio è insanabile, riguarda il rapporto col mercato mondiale.

Per farla semplice: Francia capintesta dei protezionisti e Germania capintesta dei liberisti. Il parlamento francese, trasformatosi il 2 dicembre in una chiassosa arena romana con Barnier a far da gladiatore, era stato invece compostamente unanime, pochi giorni prima, nel rifiutare il trattato col Mercosur, ardentemente sostenuto da Berlino.

Destra, estrema destra, sinistra, estrema sinistra e centro: tutti a sostenere la causa protezionista dei 416 436 contadini francesi (censimento 2020) pagati dall’Unione Europea, contro quello che è forse uno degli ultimi trattati di libero scambio pronti ad essere attuati prima che la guerra dei dazi si generalizzi.

Per i francesi, è tutta colpa è della Germania, con la sua mania del contenimento del debito; e per i tedeschi, è tutta colpa è della Francia, con la sua mania di spendere a spandere sapendo che tanto i cocci li rincolleranno loro, i tedeschi.

Proprio come ai bei tempi dei nemici ereditari che si sono fatti tre guerre in settant’anni, di cui due diventate poi mondiali. Un altro mito – quello dell’Europa che avrebbe messo pace una volta per tutte fra le due rive del Reno – sta cominciando a mostrare le prime crepe.

La doppia crisi europea

Le crisi francese e tedesca, e le divergenze sempre più acute tra i due paesi, stanno portando l’Europa sul ciglio del precipizio. Appoggiandosi su una coalizione più striminzita del previsto, Ursula von der Leyen forse continua a sognare di diventare lei, con la sua commissione, la salvatrice dell’Europa.

Ebbene, una delle poche certezze che ci riserva il futuro corso degli eventi è che non ci riuscirà.

La Comunità europea è un’invenzione della Francia, che ha cooptato la Germania sconfitta per poter riuscire finalmente dove Luigi XIV e Napoleone avevano fallito. Senza la Francia e la Germania, l’Europa non può esistere, e non può essere una commissione presuntamente super partes a supplire, proprio perché super partes non è.

Il colmo dei paradossi è che, negli stessi giorni in cui la Francia decide di autoaffondarsi, facendo vacillare sempre più l’intero edificio europeo, in Georgia si moltiplicano le manifestazioni in favore dell’adesione all’Unione Europea.

Seguire i telegiornali di questi tempi è come assistere a una pièce teatrale scritta da uno sceneggiatore schizofrenico. Che sia la Georgia, o l’Ucraina, o anche l’Albania o la Serbia: chiunque speri oggi di uscire dai propri problemi affidandosi all’Unione Europea deve rifare i suoi calcoli. Anche perché l’Unione Europea non può più contare su nessuno per aiutarla a uscire dai propri problemi.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 4 dicembre 2024

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