Per la prima volta il capo della Polizia italiana ammette che a Genova nel 2001 «ci fu tortura», che «un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite».
Alla vigilia del sedicesimo anniversario dei gravissimi fatti accaduti durante il G8 di Genova (20-22 luglio 2001) – la morte del giovane Carlo Giuliani, ucciso da un carabiniere durante le manifestazioni di protesta e i disordini, e poi le violenze e le torture alla scuola Diaz e alla caserma Bolzaneto –, il capo della Polizia Franco Gabrielli ha rilasciato al quotidiano la Repubblica (19 luglio 2017) un’intervista che segna una svolta radicale nell’atteggiamento dei vertici delle forze dell’ordine, fin ad ora improntato a quella difesa dell’indifendibile adottata dal capo della Polizia di allora, Gianni De Gennaro.
Rispondendo alle domande del giornalista Carlo Bonini, Gabrielli ha detto anche altre cose importanti: che De Gennaro avrebbe dovuto dimettersi, che in questi sedici anni la riflessione sull’accaduto non è stata sufficiente, che la magistratura che ha condotto le indagini non era ideologizzata e si è comportata con imparzialità, che non è neanche vero, però, che «Genova fu la prova generale di una nuova gestione politica dell’ordine pubblico, orientata alla nuova Italia del nascente berlusconismo», che la Polizia italiana «è sana», ma deve cessare di cadere nel complesso del «corpo separato» che rifiuta di farsi verificare, controllare, processare, che «non ci sarà una nuova Genova», perché questi anni non sono comunque passati invano, che molte cose sono migliorate da allora «nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella gestione dell’ordine pubblico», che «il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione», che è tempo di «consegnare quel G8 di Genova alla storia».
Gabrielli crede in una polizia sana, democratica, che non ha paura di essere giudicata, e che il Paese, neanche una parte del Paese, deve sentire non come una controparte, ma una parte fondamentale di sé, del meglio di se stesso.
Svolta positiva con alcune ombre
Le dichiarazioni di Gabrielli, alla luce anche di quelle dei suoi predecessori, segnano senza dubbio una svolta di cui prendere atto con soddisfazione. Un Paese democratico non può vivere con l’incubo di una Polizia che in certe circostanze, invece di difendere degli incolpevoli cittadini, li sottomette a violenze e torture.
Alcune altre considerazioni sono necessarie, senza alcuna pretesa di voler fare un’analisi puntuale dell’intervista a la Repubblica del capo della Polizia, che meriterebbe altro spazio e altre competenze.
In primo luogo, va ricordato che l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro, non solo non si dimise, o gli respinsero le dimissioni, come l’ex ministro degli Interni Scajola ha dichiarato a commento delle dichiarazioni di Gabrielli, ma è stato poi nominato, e lo è tutt’ora, presidente di Leonardo, già Finmeccanica, grossa azienda di Stato con 47 mila dipendenti e attiva nei settori dell’aerospazio, della sicurezza, della difesa (suoi gli elicotteri Agusta che vendiamo in abbondanza, anche a paesi come il Pakistan).
I casi sono due: o il comportamento di De Gennaro al G8 era meritevole di difesa, e allora ha torto oggi Gabrielli; o era meritevole di censura, e allora perché la presidenza di un’azienda così cruciale come Leonardo? Un’autoprotezione del sistema o di settori molto potenti del sistema?
Voltiamo pure pagina sui fatti di Genova, come auspica Gabrielli, ma questo è un passaggio ancora non ben leggibile di quella pagina.
In secondo luogo, le dichiarazioni di Gabrielli sono state rese dopo l’approvazione da parte del Parlamento italiano, il 5 luglio 2017, della legge che introduce nel nostro ordinamento il reato di tortura. Senza quella legge, Gabrielli non avrebbe detto che a Genova ci fu tortura. Non avrebbe potuto impunemente chiamare le cose con il loro nome.
Questo la dice lunga su cosa ha significato l’assenza nell’ordinamento giuridico italiano del reato di tortura. Ma ci sono volute le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per “costringere” l’Italia ad approvare quella legge. Questo la dice lunga anche su cosa significa l’Europa per noi: al di là dei limiti e degli errori dell’Europa, c’è anche l’Europa che ci “costringe” ad essere più democratici e più umani.
In terzo luogo, sarà anche vero come dice Gabrielli, e nella sua posizione non può dire diversamente, che a Genova in quei terribili giorni del luglio 2001 non ci fu la prova generale di una nuova gestione dell’ordine pubblico voluta dal governo Berlusconi-Fini da poco varato, ma è difficile immaginare che quella “catastrofe” fu il frutto di sbagliate impostazioni ed errori imputabili a singoli comportamenti.
Un interrogativo inquietante
In quei giorni, e per la prima volta nella storia della Repubblica, il massimo esponente del partito erede del fascismo, pur in versione ammorbidita e modernizzata, sedeva alla vicepresidenza del Governo.
Le violenze e le torture che avvennero alla Diaz, e soprattutto alla Bolzaneto, furono commesse da decine di poliziotti e carabinieri che imponevano alle vittime di urlare «Viva il Duce», mentre infierivano crudelmente su di loro. Era pensabile tutto questo senza quel contesto politico? Senza la certezza di una protezione dall’alto, che fosse o non fosse stata esplicitata? Senza che dai vertici alla base delle forze dell’ordine non si respirasse l’aria nuova della destra al potere, non si avvertisse che c’era una svolta radicale nella gestione dell’ordine pubblico? Non occorrevano ordini scritti, trasmissione di decisioni, ci fossero o non ci fossero stati.
Ma questo mette in luce un altro aspetto, che invece non è entrato nell’intervista a Gabrielli. Qual è il grado di diffusione della cultura fascista all’interno delle forze dell’ordine? I fatti di Genova sicuramente hanno fatto emergere che nel 2001 era paurosamente elevato.
Gabrielli dice che, nella formazione «delle nostre donne e dei nostri uomini», molte cose sono cambiate. Eppure, come abbiamo già ricordato in un precedente articolo, ambedue i poliziotti italiani, un ventenne e uno più adulto, che nel dicembre 2016 uccisero a Sesto San Giovanni l’attentatore di Berlino in fuga, inneggiavano al fascismo sui social, tanto che il governo tedesco rinunciò a conferire loro una onorificenza. Soltanto un caso (anzi, due e in un colpo solo) o la spia di un comportamento diffuso?
C’è la formazione dei curricoli e c’è quella che si respira ogni giorno, quella della vita quotidiana, del modo con cui ci si informa, dei luoghi comuni dominanti nell’ambiente, delle regole e dei cliché verbali cui attenersi, pena sentirsi isolati, essere considerati anomali.
Forse in una prossima intervista Gabrielli potrà dirci qualcosa su questo, perché è difficile altrimenti voltare pagina e consegnare alla storia il G8 di Genova. È difficile essere sicuri che non ci sarà una nuova Genova.