Con la riforma del governo Meloni del reddito di cittadinanza siamo passati dal rischio di una «guerra tra poveri» alla certezza di una «guerra ai poveri». Nel senso che la promessa di evitare che le misure assistenziali diventassero un disincentivo al lavoro si è tradotta nell’esclusione da ogni forma di sostegno di 400.000 nuclei famigliari di soli adulti, come certifica l’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) nel suo rapporto annuale.
Il numero complessivo di famiglie beneficiarie di sussidi scende dal picco di 1,8 milioni con la misura versione Cinque stelle a 740.000.
L’UPB è una delle poche, vere, autorità indipendenti di questo paese, guidata da Lilia Cavallari dopo il primo, lungo, mandato di Giuseppe Pisauro. Ha il coraggio di fare analisi chiare e comprensibili, senza il linguaggio paludato tipico della Banca d’Italia o di altre istituzioni timorose di dire qualche scomoda verità.
L’analisi curata dal consigliere Giampaolo Arachi e basata sui dati disponibili e le simulazioni dell’UPB è molto chiara: il governo Meloni ha risolto il problema di come spingere verso il mercato del lavoro i poveri potenzialmente occupabili togliendo loro il sussidio quasi universale introdotto nel 2019 dal Movimento Cinque stelle.
Un po’ come se un chirurgo timoroso di vedere infezioni nella gamba del paziente operato per farlo tornare a camminare risolvesse il problema amputando l’arto: certo, le statistiche sulle infezioni post-operatorie risulterebbero migliori ma difficilmente il paziente si potrebbe dedicare al trekking.
Il problema immaginario
Prima di vedere gli effetti della riforma Meloni, l’analisi di Arachi aiuta a capire che il problema da risolvere non esisteva: il fallimento del reddito di cittadinanza non è mai stata la scarsa volontà dei poveri di lavorare, bensì l’incapacità di Stato e Regioni di inserire nei programmi di formazione tutti quelli che venivano classificati come abili al lavoro.
Nel 2022, 725.000 soggetti occupabili beneficiari del reddito di cittadinanza hanno sottoscritto un Patto per il lavoro, ma poi soltanto il 46,2 per cento (335.000) è stato preso in carico dai Servizi per il lavoro. E tra questi poi 134.000 hanno sottoscritto il Patto di servizio previsto dal Programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori.
Gli altri sono stati abbandonati a sé stessi e, come erano disoccupati prima di prendere il sussidio, tali sono rimasti in assenza di formazione specifica e proposte dedicate. Quindi il reddito di cittadinanza è andato a 1,8 milioni di nuclei famigliari, composti in gran parte da persone non occupabili o teoricamente occupabili ma molto lontane dal mercato del lavoro.
Al 31 dicembre 2022 un milione di persone era in condizione di stipulare un patto per il lavoro, ma quanti sono quelli che − secondo lo stereotipo diffuso dalla destra (e da un certo pezzo di centrosinistra) − potrebbero essersi trovati nella condizione di rifiutare un posto di lavoro perché tentati dalla presunta comodità di vivere di sussidi? Una frazione di quei 134.000 che si sono trovati davvero inseriti in un programma di avvio verso un impiego. Pochissimi.
Per risolvere questo problema immaginario, il governo Meloni, ha deciso di escludere dal nuovo strumento che sostituisce il reddito (Assegno di inclusione) i soggetti tra i 18 e i 59 anni di età non disabili e non impegnati in lavoro di cura, a meno che non siano conviventi con soggetti non in grado di lavorare.
Risultato: ben 400.000 famiglie di soli adulti vengono escluse, da settembre 2023, dal sostegno. Il 34 per cento. E vengono escluse, nota l’UPB, «a prescindere dalle loro condizioni economiche», cioè senza alcun riguardo per le condizioni già difficili in cui versano e per quelle disperate in cui si troveranno senza alcun aiuto.
Tutti pigri e svogliati? Ovviamente no, ma al governo non interessa, perché non prova neppure a distinguere. Se puoi lavorare, allora significa che sei povero per colpa tua. Questa è la filosofia dietro l’intervento. Peraltro, le persone private del reddito, verranno indirizzate in centri per l’impiego che continueranno a non funzionare e dunque a non offrire loro possibilità di lavoro (i beneficiari del reddito sono concentrati al Sud e in alcune province, Napoli, Caserta e Palermo, i cui servizi per l’impiego non vengono potenziati dalla riforma).
Promesse tradite
Giorgia Meloni aveva promesso che i «furbetti» del reddito – chi può lavorare e sceglie di non farlo – sarebbero stati penalizzati dalla riforma, ma i «veri poveri» avrebbero avuto quanto e più di prima. Non è vero.
Questi i conti dell’UPB: alcune famiglie beneficiano in effetti della piena compatibilità tra il nuovo reddito ADI e l’assegno unico per i figli, e il beneficio vale 190 milioni. Ma i nuclei che beneficiavano del reddito a Cinque stelle e ora vengono escluse perdono 2,7 miliardi. Dalle simulazioni dell’UPB risulta che soltanto le famiglie con figli molto piccoli o con disabili a carico hanno sensibili miglioramenti.
Unica nota positiva, e un po’ paradossale per una riforma fatta da un governo di destra anti-immigrati, è che nel nuovo schema vengono incluse 50.000 famiglie di soli stranieri che prima erano escluse dal requisito di 10 anni di permanenza in Italia (sceso a 5). Ma questa è stata una imposizione dell’Ue, cui il governo si è piegato per evitare ritorsioni.
Quale sarà l’impatto di questa «guerra ai poveri»? Di sicuro un aumento delle disuguaglianze e dell’insicurezza per tante famiglie che già si trovavano in situazioni difficili.
Ma c’è una conseguenza anche più politica e filosofica: la fine di un progetto che, pur con mille difetti, aveva cercato di introdurre una nuova concezione di welfare universalistica, con al centro la dignità della persona. La parte più nobile del progetto di reddito di cittadinanza era la sua premessa: cioè la convinzione che le persone, per quanto povere, avessero diritto a un minimo di sostentamento in quanto cittadine, non in quanto appartenenti a una specifica categoria oggetto di disagio e stigma sociale. E che quella dignità passasse anche dal trovarsi in condizione di rifiutare qualche proposta al limite dello sfruttamento o anti-economica per il bilancio familiare.
La riforma del governo Meloni ci riporta alla logica delle poor law inglesi ben descritte da Karl Polanyi ne La grande trasformazione: i poveri devono espiare la loro colpa attraverso il lavoro e se provano a sottrarsi a questo destino è compito della società costringerli ad accettarlo.
I Cinque stelle, che pure tanti pasticci hanno combinato (il più costoso dei quali è il superbonus edilizio), hanno potuto per anni andare fieri di aver fatto qualcosa di importante per i più poveri. La misura più di sinistra degli ultimi decenni.
Il governo Meloni ha fatto, semplicemente, una cosa molto, molto di destra. Che non ha e non potrà avere alcun impatto economico positivo o moralmente giustificabile.
Il testo è stato pubblicato sulla newsletter Appunti di Stefano Feltri il 21 giugno 2023
I dati parlano da soli. Ciò che neanche Berlusconi e Draghi hanmo osato fare, lo fa ora con indifferente e ipocrita cinismo chi ci sta governando. Andrebbe però riconosciuta alla Meloni la sincerità: pochi giorni prima di vincere le elezioni aveva promesso alla platea di Confindustria di eliminare il reddito di cittadinanza e generare così nuiva manodopera a basso costo. Il problema allora, secondo me, è che noi itailiani abbiamo la memoria molto corta e neanche più ci rendiamo conto e reagiamo davanti al trionfo della “cultura dello scarto umano” che l’attuale classe dirigente (non zolo polotica) promuove con feroce determinazione. Quanto ci vorrebbe una Chiesa profetica…….ma ahimè preferiam vivere da omolgati attenti al politically correct