Bocciatura europea della manovra e annuncio dell’infrazione per deficit eccessivo, minaccia dello spread in crescita, scontro all’ultima immondizia sugli inceneritori, contrasto sulle grandi opere (Tav, Gronda di Genova ecc.), franchi tiratori sul decreto corruzione. È un elenco incompleto dei guai che affliggono il governo Conte e in esso le due agenzie – Lega e M5S – che ne detengono la maggioranza. Ed è anche la fotografia alquanto “mossa” della tempesta d’autunno che colpisce l’Italia.
Mesi or sono, all’inizio dell’avventura post-elettorale, ci avventurammo nell’analisi dell’assetto politico italiano descrivendolo con la figura dei quattro governi: quello più somigliante ai precedenti per riferimenti istituzionali e moderazione degli impulsi (Conte, Tria, Moavero Milanesi), quelli facenti capo ai due vice presidenti Di Maio e Salvini, intenti a trainare la compagine ciascuno dalla propria parte e, infine, il “quarto governo” presentato come la “sintesi di sopravvivenza” dell’impresa comune imbastita attorno al “contratto” tra i due fondamentali contraenti.
Il tiro alla fune
Quanto ha resistito e quanto si è logorata questa combinazione dopo le prove dell’estate e mentre sono in corso le più impegnative imprese della sistemazione dei conti e della definizione del rapporto con l’Unione Europea?
Sulla base degli elementi accertati, un bilancio sommario consente di mettere in luce alcuni tratti significativi.
Il primo dei quali è la cancellazione del ruolo e della stessa dimensione istituzionale del governo. Presidente del Consiglio e Ministro dell’economia mostrano di esistere solo come riverberi delle pulsioni dei soci fondatori e quindi non come fattori di sintesi ma come ammortizzatori degli scossoni che all’alleanza sono impressi dalle due forze traenti che in essa tentano di realizzare i propri disegni.
Così la scena si semplifica e, al tempo stesso, si radicalizza. Non più quattro governi e neanche tre o due, ma una dialettica continua e disordinata che non sembra condurre ad alcun approdo e neppure si attesta attorno a qualche punto apprezzabile di consistenza politica.
Lo stesso “contratto” di governo, invocato talvolta come la frontiera invalicabile degli impegni reciproci, si rivela sempre più come un assemblaggio di due sequenze programmatiche non solo diverse (il che sarebbe compatibile con l’unità d’azione politica) ma addirittura antagoniste se non inconciliabili.
Per cui la sopravvivenza del patto è affidata alla neutralità con cui, sui punti controversi, l’una parte lascia che prevalga la posizione dell’avversario occasionalmente alleato. Come leggere altrimenti le ammissioni di un dirigente intermedio dei 5Stelle per cui “sull’immigrazione comanda la Lega, sul resto ci siamo noi”?
Ma non è sempre così. Sarebbe troppo semplice. Il fatto è che, anche all’interno dei due gruppi principali, esistono tendenze che prendono corpo di correnti al momento delle decisioni e spingono gli stessi gruppi dirigenti ad esercitarsi nel… tiro alla fune.
Quanto reggerà la corda? Alcuni analisti scommettono che esiste una sorta di “armonia degli opposti”, per cui la lotta continua che si svolge sul palcoscenico della politica è soltanto una finzione, mentre il cemento del potere resiste ad ogni urto.
Non basta il potere (se è solo)
Recentemente è uscito un libro di uno dei più arguti giornalisti parlamentari, Filippo Ceccarelli, dal titolo Invano, che illustra «il potere in Italia da De Gasperi in qua». È una lettura istruttiva per molti aspetti, uno dei quali, se non ho mal compreso, è che non dura all’infinto un potere che pretenda di esercitarsi senza un’ispirazione ideale, una motivazione etica profonda.
Vi può essere, è vero, un aggancio contingente ad un obiettivo storico concreto, a cementare per qualche tempo una convergenza delle azioni se non delle intenzioni. Ma i mesi trascorsi hanno confermato che tra le due parti contraenti del “contratto di governo” le divergenze si manifestano su quasi tutti i temi del catalogo politico. Tranne forse uno: l’Europa, che però presenta più di un’insidia.
Solitudine in Europa
Lega e Cinquestelle appaiono – e in effetti sono – sinceramente antieuropeisti non perché mostrano di contrastare le regole dell’Unione ma soprattutto perché rifiutano una visione europea dei problemi e delle soluzioni. In questo senso i loro sovranismi sono sovrapponibili, almeno nel breve periodo, e conducono ad uno sbocco di tipo autarchico sia in economia che in politica.
Hanno combinato una manovra economica che presume di poter contenere, almeno propagandisticamente, le due pietre miliari dei due programmi: il reddito di cittadinanza e la flat-tax, ma, di fronte agli argomenti che ne dimostrano la non realizzabilità in contemporanea, si accontentano di soluzioni al ribasso pur di non ammainare la bandiera. E rassicurano i rispettivi elettorati con l’argomento che, essendo prossime le elezioni europee, la Commissione a loro ostile dovrà cedere il passo ad un’altra più accondiscendente.
È la riprova di una visione di corto respiro che non tiene conto del fatto che l’Europa, con tutte le sue lacune, è diventata ormai un’istituzione e che, in essa, anche le forze più esposte sul fronte del nazionalismo revanchista sono orientate a mantenere un vincolo continentale significativo. Per quanto discutibile, essi mostrano di avere un disegno di Europa su cui lavorare, mentre Lega e Cinquestelle non hanno una pars costruens della loro proposta europea.
Una prognosi infausta
Ci potrà essere, forse, un aiuto statunitense o russo, come lascia desiderare l’attivismo internazionale di Salvini, ma l’eventualità più probabile è che, in presenza di condizioni adeguate, il “contratto” non reggerà alla prova delle elezioni europee.
Nulla lascia intendere, infatti, che si possa realizzare, da qui al maggio prossimo, data del voto, una ripresa unitaria del governo e della sua maggioranza che faccia regredire il logoramento indotto dalle polemiche quotidiane e dal rinvio delle questioni meno agevoli.
Nessuno tuttavia può illudersi che il governo ormai senza colore cadrà da solo. E questo apre il discorso sull’esigenza di un’alternativa di cui non si vedono i germogli nel campo della destra moderata e nel campo del partito democratico. Berlusconi e i suoi si muovono, infatti, nel rimpianto del tempo perduto, ossia della ricerca di un recupero del rapporto privilegiato con una Lega che però, nel frattempo, si è munita delle chiavi di casa.
Ancora meno limpida è poi la situazione del centrosinistra dove, oltre la frammentazione seguita alla scissione del 2017, si va verso un congresso modulato su schemi collaudati, purtroppo, in senso negativo; e con, in più, l’incognita di un’operazione interna-esterna dalle molte potenzialità coperte, come quella dei “Comitati Civici” in allestimento nell’officina del leader sconfitto.
Il Pd ha dimostrato di non aver fiducia in se stesso quando rinunciò, dopo le elezioni, a sfidare i Cinquestelle sul terreno del cambiamento e sembra oggi costretto a giocare di rimessa sulla linea di un’opposizione parlamentare puntuale e intransigente ma dagli effetti limitati. Può risultare utile al paese solo se riesce a recuperare la capacità di guardare più alto e più lontano, a partire dalla costruzione di un’Europa di tutti gli europei in cui l’Italia possa sentirsi di casa.