Il governo delle migrazioni

di:
albania

Il centro-carcere di Gyader.

L’Europa è in fibrillazione per la caduta del regime della famiglia Assad. Invece di partecipare attivamente alla soddisfazione per la fine di un regime sanguinario che, in circa 60 anni di potere assoluto, ha martirizzato decine di migliaia di cittadini inermi – ritenuti oppositori politici magari solo per una innocente critica al regime – ora trova il modo di bloccare i riconoscimenti di protezione internazionale ai profughi siriani la cui pratica è ancora  in corso, per rispedirli subito in Siria, insieme agli eventuali nuovi malcapitati che stanno per arrivare o che stanno decidendo di partire.

Attraverso il movimento islamista Hay’at Tahrir al-Sham, la Turchia coglie due obiettivi: Erdogan può rispedire indietro tre milioni di siriani trattenuti nei campi profughi senza servizi e impossibilitati a regolare la propria posizione, mentre l’Europa gli promette un ulteriore miliardo per aiutarlo a rimpatriarli e a contenere eventuali siriani in uscita dal suo Paese. Così, il “sultano” può continuare a chiudere – qualche volta ad aprire “ad arte” – i flussi migratori a suon di miliardi. E l’Europa, per le vie brevi – troppo brevi – può fare persino a meno di considerare lo status dei sopraggiunti. Dichiarazioni, in tal senso, sono state udite dalle nostre orecchie, da subito, in Germania, Danimarca e Italia.

A qualcuno non par vero di poter reindirizzare alla casella di partenza decine di migliaia di persone. Mentre non si sa ancora quale possa essere l’evoluzione dei cambiamenti sopravvenuti, in ogni caso, da gente armata, in quel pezzo di Vicino Oriente, subito si dichiara la Siria un “Paese sicuro”. Tutto da dimostrare. Ci vuole tempo.

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Ciò mi ricorda la politica di reinsediamento sviluppata in coda alla crisi delle guerre balcaniche degli anni ’90. Il flusso dei richiedenti protezione umanitaria toccò tutta l’Europa, che introdusse il permesso per motivi umanitari temporaneo, pensando che la fine dei conflitti avrebbe consentito il rientro pacifico nei Paesi distrutti. Poi, invece, sono stati pochi quelli che si sono avvalsi dell’aiuto per il rientro e per la ricostruzione delle case o delle attività economiche. Basti pensare ai difficili e lenti processi di riconciliazione tra le parti avverse, spesso purtroppo orientate alle vendette, perché troppe sono state le sofferenze e le perdite di persone care.

Possiamo vedere, anche in tale opzione, la “delocalizzazione” dei problemi in altri Paesi – oggi di tanto moda – dei profughi, indipendentemente dalle situazioni reali di origine, per nulla tranquille o per nulla sicure che esse siano.

Ecco, dunque, la linea dei progetti di “delocalizzazione” in Ruanda dall’Inghilterra (abortita), in Nauru dall’Australia e in Albania dall’Italia.

Sono diversi, infatti, gli Stati definiti “sicuri” dal Decreto-legge 158/2024, che sicuri non sono affatto! Tra questi l’Egitto che, guarda caso, è un partner economico importante per il nostro Paese, ma che ha nulla a che vedere con il rispetto dei diritti umani: caso Regeni docet. Oppure il Bangladesh, in cui sussistono discriminazioni etniche verso la popolazione indù – i Bihari -, o verso i pakistani rimasti nel Paese dopo la guerra di indipendenza del 1972, senza cittadinanza e con conseguente negazione del diritto di voto.

Il decreto esprime, indirettamente, il rammarico per il fatto che la Corte di Giustizia Europea ha escluso dai Paesi sicuri il Camerun, guidato da un dittatore mummificato dal tempo quale Paul Biya, al potere dal 1982, oppure la Colombia, in preda a continue violenze, e la Nigeria, un Paese-continente con le sue molteplici appartenenze etniche, religiose e culturali, in cui i terroristi di Boko Haram continuano ad imperversare.

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Ma il sogno di delocalizzazione albanese del nostro attuale governo si sta evidentemente trasformando in un incubo: centinaia di milioni di euro buttati al macero per una politica ideologica, priva di fattualità e di incisività, rendendo ridicoli i proclami della “fine della pacchia dei furbi”, che poi non sono altro che poveri che bussano alle porte blindate dell’Europa.

L’hot-spot  di Shengyin in Albania,  porto di approdo delle navette militari, rappresenta il punto di “prima accoglienza” in cui si deve decidere, immediatamente, chi proviene dai Paesi sicuri, in modo da filtrare i primi candidati al rimpatrio; per gli altri richiedenti, è previsto il trasporto nel centro-carcere di Gyader – collocato nel nulla – e suddiviso, come i campi di concentramento, in tre sezioni, dove, di gabbia in gabbia, si arriva alla vera e propria prigione, destinata a chi abbia commesso qualche reato o abbia opposto resistenza alla detenzione.

All’interno – abbiamo visto le foto – vi trova spazio anche la cappella in cui è ben presente il crocifisso, tanto per far capire dove ci si trova, anche se – si rassicura – pure i musulmani avranno la possibilità di pregare, da qualche altra parte. Ebbene: quel crocifisso è il vero clandestino dentro una struttura di pene, di disperazione, di illegalità.

La benevolenza italiana permette ai richiedenti protezione internazionale di essere profilati nell’arco di 28 giorni, tutto tramite commissioni incaricate di decisioni online e con l’assegnazione di avvocati d’ufficio, pure online, il che impedisce l’intervento di avvocati scelti dai migranti, come quelli, ad esempio, facenti capo all’ASGI (Associazione Studi Giuridici Immigrazione), per difendere persone predestinate al diniego: no!

In altre parole, è stato progettato un sistema per coprire la volontà manifesta di precludere ogni possibilità di ricorso e di tutela giuridica. Ciò ancora mi ricorda il carcere di massima sicurezza di Stammheim, ove, per mantenere una parvenza di legalità giuridica, il tribunale venne costruito a pochi metri dalla recinzione e i candidati al giudizio raggiungevano l’aula delle udienze attraverso un passaggio sotterraneo: dalla cella all’aula del tribunale direttamente.

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Come era da prevedere, l’esborso di oltre 800 milioni di euro non serve a nulla. Gli agenti di polizia stanziati oltre Adriatico pare stiano passando giornate di ferie fuori pacchetto contrattuale, ma ben retribuite. La pervicacia isterica nel perseguire l’obiettivo di innescare una catena a ciclo continuo di espulsioni, pare non trovare requie.

Così si continua ad addossare alla responsabilità delle norme europee l’inefficacia dei provvedimenti presi a livello nazionale e si continuano a prendere di mira le organizzazioni umanitarie impegnate in operazioni di salvataggio.

Eurostat certifica le difficoltà che incontrano tutti i Paesi europei nelle loro politiche di espulsione. L’Italia, nella prima metà del 2024, ha espulso 2.035 cittadini stranieri su 13.330 candidati, il 15%, la maggior parte tunisini.  A fine settembre 2024 da tutti i Paesi UE sono stati rimpatriati 56.080 persone su 199.620: il 28%.

Tutte le storture giuridiche inventate, dunque, non hanno sortito il risultato proclamato sin dalla campagna elettorale, aumentando piuttosto i contenziosi e le accuse per maltrattamenti e persecuzioni discriminatorie su persone accusate del solo reato di “migrazione clandestina”, non di altri reati punibili penalmente.

Si può ben sostenere che, se tutti i soldi spesi per la detenzione e per le prassi di espulsione, spesso non accettate dagli stessi Stati di provenienza dei migranti, fossero destinati al reinserimento socioeconomico nel Paese di origine, probabilmente molti richiedenti asilo – diniegati o senza chance di riconoscimento della protezione – tornerebbero a casa volentieri o non rischierebbero la vita tra le sabbie dei deserti o tra le onde del mare Mediterraneo; senza dimenticare le torture subite lungo il viaggio e le detenzioni criminali in Libia, in centri finanziati e costruiti col contributo dell’Italia.

E, mentre si disperdono inutilmente tante energie, sul versante economico italiano ed europeo, si lamenta in continuazione la penuria di manodopera nei lavori urgenti che abbiamo da fare, vedi, ad esempio, quelli finanziati dal Pnrr. Si inventano sistemi di selezione della manodopera “a distanza”, cioè dai lontani Paesi, basati sulla conoscenza della lingua e sulle competenze. Ma, come già sperimentato in passato dall’Albania e dalla Tunisia, oltre la lingua e le competenze, ai migranti servono case e percorsi di accoglienza sociale, oltre a datori di lavoro onesti, coinvolti in tutto il processo di selezione e di inserimento.

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Un’anima semplice si chiede, inascoltata: “Perché non ingaggiare le forze giovani degli irregolari o dei diniegati – che magari hanno già imparato la lingua – e avviarli in percorsi di formazione e di inserimento lavorativo e sociale in Europa?”. Invece di buttare risorse ingenti alle ortiche si potrebbero ottenere, al più presto, forze lavoro a beneficio di tutto il sistema economico europeo.

Il rancore di questa vecchia società che ha paura del proprio futuro acceca la buona volontà di cercare soluzioni e percorsi che potrebbero essere positivi per tutti.

Argomentare, da parte mia, in questo modo, può apparire parziale e utilitaristico: e, di fatto, in qualche modo, lo è; ma ciò non esclude che il lavoro – regolare, sicuro – è sempre foriero di processi di liberazione, sociali e culturali.

La Costituzione italiana lo pone a fondamento della Repubblica proprio perché sta alla base di una vita dignitosa e libera. Si può appunto obiettare che dipende da quale lavoro si svolge e da quale retribuzione o trattamento si riceve. Qui ci si sposta su una questione nazionale, che riguarda tutti i lavoratori, ma in cui gli stranieri entrano come vittime predilette, col lavoro precario e meno pagato, con una media di retribuzione pari a -20%, e ancor meno nel caso delle donne straniere, che subiscono la stessa condizione di discriminazione salariale delle donne italiane, ma percependo meno.

Demografia e attività lavorativa sono strettamente collegate per tenere a galla il sistema Paese, non solo per via del gettito contributivo, ma pure della coesione sociale e del senso di responsabilità collettivo nazionale.

Questa Europa che si scopre sempre più fragile e stordita, presa da una crisi economica e industriale che sta trascinando nel baratro decine di migliaia di disoccupati senza prospettive di reinserimento, un’Europa che ha perso il senso della sua civiltà democratica e che ha posto la sua massima “etica” nel godimento dei beni accumulati – con secoli di dominio coloniale alle spalle – si nasconde ora dietro il dito dell’immigrazione, e “non vede più la luna”! Il futuro dei continenti a noi vicini, Asia e soprattutto Africa, non può essere disgiunto dal nostro. A meno che non vogliamo, sempre più, percorrere, in solitudine, il viale del tramonto e della insignificanza globale.

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6 Commenti

  1. Giuseppe Leoni 13 gennaio 2025
  2. Maria Laura Innocenti 3 gennaio 2025
  3. Maria Laura Innocenti 3 gennaio 2025
  4. Umberto Vergine 30 dicembre 2024
  5. Pietro 28 dicembre 2024
  6. Giovanni Di Simone 28 dicembre 2024

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