Il pacco più importante (e ingombrante) della campagna elettorale del 4 marzo scorso è stato, senza dubbio, quello del “reddito di cittadinanza”. Le analisi più accreditate attestano che milioni di elettori hanno deciso come votare sulla base di quella promessa. Presa talmente sul serio che, all’indomani della consultazione, la gente si era messa in fila agli sportelli dei patronati per prenotarsi all’incasso.
Superata la prova e dato per scontato lo scarto – si direbbe la tara tra il promesso e il mantenibile –, vale perciò la pena di liberare il pacco dall’involucro e vedere che cosa, in concreto, rimane del suo contenuto in termini di praticabilità politica.
A pronta cassa…
La proposta dei 5Stelle, che ha dominato la scena, metteva in relazione i due termini – reddito e cittadinanza – senza alcun diaframma di separazione o distinzione. Naturale che il concetto venisse colto, a livello popolare, come l’indice di una volontà di collegare un’erogazione monetaria al possesso di un titolo, la cittadinanza.
Unica specificazione aggiuntiva era – quando c’era – quella della povertà, nel senso dell’appartenenza del cittadino ad una categoria tanto svantaggiata quanto numerosa. Di qui il trinomio: sono cittadino, sono o mi ritengo povero, dunque passo a riscuotere.
“Per diritto di nascita”
Questa posizione non è stata accolta pacificamente nel dibattito, ma l’obiezione fondamentale è stata di carattere economico e dunque di indole quantitativa: quanto costa? E ci si è accapigliati sul punto, mentre il concetto di fondo viveva di vita propria in mezzo alla gente.
Era del resto lo stesso Beppe Grillo ad alimentare tale aspettativa appropriandosi delle teorie filosofiche di Dominique Meda sulla “società senza lavoro”, cioè ormai incapace di assorbire lavoro e, come conseguenza, chiamata a operare una radicale redistribuzione delle risorse: Come? Istituendo “un reddito per diritto di nascita” in modo che tutti abbiano “lo stesso diritto di partenza”.
Nel mondo delle “rendite”
L’espressione “diritto di nascita” evocava, per la verità, più la condizione degli antichi percettori di rendite (fondiarie o d’altro genere) che non i protagonisti della civiltà del salario e del profitto. Ed era toccato proprio al premier designato, Luigi Di Maio, di precisare che, «non abbiamo intenzione di dare soldi alle persone senza che facciano nulla» e che «nessuno potrà starsene sul divano». Ma tant’è, nella convulsione della campagna elettorale ognuno poteva aver captato il messaggio secondo convenienza.
La scoperta della vecchia via
Dopo le elezioni e nel corso delle trattative per la (problematica) definizione di un programma di governo condivisibile, l’idea del diritto di nascita è stata rapidamente sfumata e le forze politiche si sono sintonizzate su una diversa lunghezza d’onda. Quale?
Qui è necessario inoltrarsi sulla via di una scoperta. Contrariamente a quel che si è ritenuto o s’è fatto credere nel fervore della lotta, quella di una erogazione monetaria collegata, per un verso, alla situazione di povertà e, per un altro, alla condizione lavorativa del soggetto non è affatto una novità.
Per rimanere in Italia, e per non riandare alle indagini parlamentari sulla miseria del secondo dopoguerra, basterà soffermarsi sul rilancio del tema della povertà avvenuto sul finire del secolo scorso in concomitanza con il proposito di realizzare una riforma dell’assistenza sociale che completasse l’edificio della sicurezza sociale come definito negli anni ’60, ai tempi del “Piano Pieraccini”.
La proposta Caritas-Zancan
Accadde nel 1996 che una proposta elaborata dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Zancan e presentata come “Legge quadro per i servizi alla persona” venisse adottata (rectius copiata) da quasi tutte le forze in campo in modo da avviare il dibattito parlamentare sulla riforma stessa.
All’art. 5, era contenuto un principio che voleva essere il criterio guida per una disciplina unitaria di una materia fin lì disorganicamente trattata dall’ordinamento.
Il testo recitava: «Gli interventi a favore dei soggetti in stato di bisogno sono organizzati in un progetto assistenziale unitario, comprensivo delle eventuali erogazioni economiche, tendente alla soluzione dei problemi causativi del bisogno, nonché al potenziamento delle erogazioni economiche nonché al potenziamento e allo sviluppo delle risorse individuali necessarie per il superamento della dipendenza assistenziale».
La quale dipendenza – era detto con chiarezza – doveva intendersi come una condizione transitoria da superare, appunto, attraverso la combinazione di fattori di sostegno monetario con la creazione di opportunità socio-economiche a partire dal lavoro.
L’esperimento di fine secolo
Proprio in quegli anni Dominique Meda lanciava le sue teorie sulla fine del lavoro, ma evidentemente in Italia si coltivava una matrice diversa, volta a realizzare un’emancipazione sociale attraverso il lavoro.
Il tutto si concretizzava in un Decreto legislativo del 1998 (n. 237) che introduceva il “reddito minimo di inserimento” (RMI) come «misura di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale e impossibilitate a provvedere, per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli». Veniva poi specificato che il RMI «è costituito da interventi volti a perseguire l’integrazione sociale e l’autonomia economica dei soggetti e delle famiglie», tenendo conto dei livelli di povertà, della diversità delle condizioni economiche, demografiche e sociali, nonché della varietà delle forme di assistenza già attuate dai comuni.
L’”ultima istanza” e poi…
Si trattava però di un avvio sperimentale che solo con la riforma dell’assistenza – legge 328/2000 – sarebbe stato generalizzato. La stessa legge includeva infatti il RMI tra i «livelli essenziali di assistenza».
Allora i sostenitori della legge, in primis le Caritas, esultarono. Ma durò per poco. Il cambio di maggioranza, dal centrosinistra al centrodestra, avvenuto nel 2001, comportò una drastica inversione di rotta. La sperimentazione non venne superata e comunque tutto sembrò risolversi in un cambio di nome – “reddito di ultima istanza” – che però era anche un cambio di programma.
La creazione del REI
Il resto è cronaca. Dopo anni di sostanziale stasi, la questione di una misura universale di contrasto della povertà (in contemporanea con la registrazione dei disastri della crisi) è stata ripresa sotto il consolato del duo Renzi-Gentiloni e ha dato vita all’istituzione del Reddito di Inclusione (REI), frutto anche di una vasta iniziativa di forze sociali, dai sindacati all’associazionismo, alla stessa Caritas.
Si tratta di una rivisitazione aggiornata del RMI con un pregio e un difetto.
Il pregio è che non s’è prevista una fase di sperimentazione, e dunque la misura è entrata immediatamente in vigore.
Il difetto è che lo stanziamento relativo è assolutamente insufficiente.
Lo era – per la verità – fin dall’inizio ma, in campagna elettorale non s’è fatto nulla o quasi, da parte del governo e di chi lo sosteneva, per dare affidamenti circa la volontà di adeguare le risorse ai bisogni della povera gente. Anche così si è lasciato campo alla suggestione del “reddito di cittadinanza” nella sua variante… feudale.
Un nuovo compromesso?
Sulla quale, per la verità, oggi nessuno sembra insistere mentre, con una certa saggezza postuma, molti si allineano sulla trincea del REI, previa rivisitazione e adeguato incremento del finanziamento.
La tentazione, in conclusione, è quella di dare la parola al senno di poi, che avrebbe suggerito di intraprendere un corpo a corpo con i fautori delle soluzioni massimaliste, in nome di un realismo che non si basasse solo sulle ristrettezze del bilancio ma considerasse le esigenze di una miglior tutela delle fasce svantaggiate della popolazione, da realizzare soprattutto mediante un reinserimento sociale che avesse nel lavoro la propria via maestra.
Un prezioso avvertimento
All’avvio della nuova legislatura e indipendentemente dalla soluzione tecnica di compromesso che sarà adottata sulla configurazione del reddito di sostegno, rimane decisiva la questione del lavoro e delle iniziative, private e pubbliche, da intraprendere per favorirne l’espansione.
Se si guarda bene, l’episodio della gestione propagandistica del “reddito di cittadinanza” nella sua versione più radicale può suonare come un avvertimento: e cioè che, se non riprende il cammino verso il pieno impiego, è già pronta, almeno in sede teorica, l’alternativa di una società della penuria generalizzata che sarà arduo accreditare come “decrescita felice”.