L’impossibile inevitabile “Campo largo”

di:

boschini

Durante l’estate, a sinistra, si è discusso molto del “Campo largo”. Cioè, della ipotesi di un’alleanza che vada da Cinquestelle e AVS, fino ai “centristi” di Renzi e/o Calenda, passando per il PD.

In queste ultime settimane la discussione è riesplosa – è il verbo giusto – con confronti anche piuttosto violenti. E che sembrano aver portato al fallimento definitivo dell’ipotesi estiva.

Ma cos’è questo “Campo largo”? A che serve? Vedrà mai la luce?
Proviamo a interrogarci attorno a queste domande.

L’idea del “Campo largo”

L’idea di ampie alleanze di centro-sinistra, nel nostro paese, è antica almeno quanto l’introduzione del bipolarismo, negli anni ’90. Riferita sia a cartelli elettorali, che ad alleanze “stabili” (le virgolette sono d’obbligo).

L’Ulivo prima, l’Unione poi, con Prodi, sono state, in sostanza, questo: larghe alleanze tra forze anche eterogenee che vanno dal centro moderato o riformista alla sinistra-sinistra, passando per partiti personalistici vari. Potremmo dire: tutte le forze che servono a battere l’avversario di turno a destra, che si chiami Berlusconi o Meloni.
Ovviamente, le formule cambiano un poco in base a quello che offre il “supermarket” italiano dei partiti, in quel dato momento storico.

Oggi, con la presenza dei Cinquestelle, l’unione AVS (Alleanza Verdi Sinistra) e i centrismi riformisti di Renzi e Calenda, l’orizzonte potenziale di un campo largo è quello che collega tutte queste forze, assai diverse tra loro, passando ovviamente per l’indispensabile PD.

Storia di un nome

Si attribuisce, comunemente, la paternità del nome “Campo largo” a Enrico Letta, quando era segretario del PD, nel 2022, e si cercava un’alleanza strutturale PD-M5S per le vicine elezioni politiche. La condotta dei pentastellati nel caldissimo luglio 2022, contro Draghi, distrusse sul nascere il disegno, che oggi si cerca di riesumare (con ben scarso successo).

Ma prima ancora, con significato analogo, il termine “Campo largo” fu usato da celebri tessitori di trame a sinistra, ossia Dario Franceschini e Goffredo Bettini, attorno al 2010. E prima ancora – quando il PD nemmeno esisteva – pare che a generare testualmente il neologismo fosse l’intuito politico e culturale di Walter Veltroni, attorno al 2005, in un’intervista a Repubblica.

Allora si usava di più il nome di “Campo riformista”: oggi evidentemente parlare di riformismo e riforme in Italia appare impossibile, poco credibile e – soprattutto – autolesionistico. Perché nessuno crede più alla riformabilità del Paese. Meglio usare altri concetti… Ed eccoci al generico “Campo largo”.

Da dove a dove?

Nelle varie fasi politiche, il “Campo largo” si è sempre cucito con il filo che il momento politico presentava. Oggi, quindi, è inevitabile che le pezze da attaccare insieme vadano, in potenza, “da C a C”, cioè da Conte a Calenda. Anche perché solo questo è l’orizzonte numerico che – in teoria – consentirebbe il vero obiettivo del “campo”, cioè sconfiggere il centrodestra alle elezioni.
In teoria, appunto. Perché sappiamo bene che, in politica, il risultato non è mai uguale alla somma matematica degli addendi. E – ancor di più – pare chiaro che le varie incompatibilità e antipatie politiche presenti nell’elettorato, porterebbero all’ipotizzata alleanza non solo dei segni più, ma anche dei segni meno. Quanti elettori M5S si perdono, se “costretti” a votare con PD o con Renzi? E viceversa?

Tanto più, visto che i leader non fanno nulla per sopire i loro attriti, e anzi hanno più volte accentuato – anche negli ultimi tempi – i messaggi sulle loro reciproche ostilità e dichiarate incompatibilità. Spinte fino al punto dell’inimicizia personale.

Questo basta perché di “Campo largo” non si parli più. E il nostro articolo potrebbe finire qua.

Ma ci si permetta ancora qualche considerazione sugli “insegnamenti” generali di questa vicenda.

Incompatibilità di carattere

Le incompatibilità personali possono essere materia in una relazione sociale. Non dovrebbero esserlo quando in ballo c’è la politica, il cui tema – in teoria – è il bene comune, non il sopravvento personale. Ma sappiamo pure che, nei partiti e nelle istituzioni, l’individualizzazione è ormai avanzata a grandi passi. Perciò, l’astio personale è ormai assurto a categoria politica.

Per la verità, lo diceva anche Carl Schmitt: la politica si riduce quasi esclusivamente allo scontro “amico-nemico”. Ma, senza banalizzare, l’inimicizia schmittiana era sulle categorie essenziali e sulle prassi fondative dell’ordine politico e collettivo. Non sull’astio personale, individuale. Livello che noi ci ostiniamo a voler considerare prettamente impolitico, se politica è politica, e non “pollitica”: da polis e non da “polli di Renzo”.

Perciò, non ci addentriamo sulle polemiche personali tra leader del centrosinistra che sono state sui giornali negli ultimi tempi. Del resto, si sapeva benissimo da tempo che Conte e Renzi non sono compatibili tra loro e che il primo non perdonerà mai all’altro la sua cacciata da Palazzo Chigi. E forse non una, ma due volte: nel gennaio 2021 certamente, ma anche nell’agosto 2019, ai tempi del celebre “mojito” salviniano.

E sappiamo pure dei disastrosi rapporti tra Calenda e Renzi. Mentre tra quest’ultimo e la Schlein sembra rinato il sereno, anzi l’azzurro, complice un assist calcistico durante una partita estiva di beneficenza. In politica, sempre più “partite del cuore” prendono il posto di questioni sostanziali. Quelle che, contro Renzi, pongono invece Bersani e parte del PD schleiniano: gli uomini che a loro tempo abbandonarono la casa comune, rifiutando la segreteria del fiorentino.

Buoni invece – in linea di massima – i rapporti tra Conte, Schlein e gli AVS. Questa formula “ristretta” sembra funzionare. Governa la Sardegna e vari altri comuni, magari condita da civismi vari (in cui spesso sono celati anche Renzi e Calenda: ma si sa che localmente tutto è possibile, le alleanze per le “politiche” sono altra cosa).
Sarebbe dunque possibile e abbastanza agevole un “campetto” limitato a PD, AVS e M5S.

E questa potrebbe essere la strada, come propone da tempo Bersani, anche in chiave di revanche anticentrista: partiamo a tre, intanto, poi vedremo. Ma partire escludendo, ben difficilmente porterebbe al risultato inclusivo necessario alla fine.

Cosa manca dunque alla sinistra per poter agire davvero un “campo largo”, l’unico che abbia i numeri per competere col centrodestra? Manca un “federatore” capace di fare da arbitro, e di impedire che tra i singoli leader dei partiti prevalga l’inimicizia e la competizione personale. È chiaro a tutti che dopo la “fine” politica di Romano Prodi (e parliamo del 2008!) il centrosinistra non ha più avuto un simile “federatore”.

Da più di 15 anni – e più che mai oggi – manca la personalità che sappia fare sintesi tra i “polli”.

Se tirato sul piano personale, insomma, il “Campo largo” è morto in partenza, come del resto ha dichiarato testualmente Conte qualche tempo fa, anche su “suggerimento amichevole” di Beppe Grillo.

Incompatibilità programmatica

Ad accentuare – se mai possibile – l’infattibilità del “Campo largo” sono anche le oggettive differenze programmatiche dei partiti che dovrebbero comporlo.

Non che esista – sia chiaro – una piattaforma programmatica già delineata dell’ipotetica alleanza da costruire. Oggi – del resto – non è dai contenuti che si parte per fare politica: ma ci torneremo tra poco. Ciò che è evidente è che su tantissimi temi riunire l’intero “Campo largo” non appare agevole.

In politica interna, diverse per non dire opposte sono le valutazioni economiche, con Renzi e Calenda per un’economia di mercato regolata, e AVS per una sostenibilità molto spinta, al limite della decrescita. Conte e M5S centrati su benefici diffusi alla popolazione (come il “reddito di cittadinanza” e il devastante “110%”) e i centristi assai più scettici o apertamente critici sulle politiche di tipo “bonus” (che pure Renzi lanciò per primo). Da chiedersi poi se, in politica industriale, tutti difenderebbero l’auto, l’acciaio e il suo indotto: sono note, ad esempio, le posizioni, a suo tempo “filocinesi”, dei M5S e quelle degli AVS, ad esempio, assai favorevoli alla chiusura e riconversione delle Acciaierie di Taranto. E su infrastrutture, uso del suolo, ricerca del gas, fonti energetiche, nucleare? Probabili varie incompatibilità nel “campo largo” su questi temi strategici (che però in Italia non interessano quasi nessuno, quindi sono per assurdo più gestibili dalle segreterie, salvo casi eclatanti).

Ma anche su temi più contingenti, e più “mediatici”, non va molto meglio. Sulle nomine RAI (e dunque sui servizi pubblici) la spaccatura è stata clamorosa, sia di merito che di metodo. E anche sulle nomine alla Corte Costituzionale i sospetti sono stati così forti che i “potenziali alleati” hanno dovuto disertare il voto in blocco, per esser certi di non perdere pezzi e differenziarsi.

Non parliamo poi di politica estera: coi M5S chiaramente contrari alla difesa dell’Ucraina, AVS tiepidissimi quando non apertamente ostili, Renza e Calenda filo-NATO e il PD… Il PD vergognosamente spaccato – come si è visto di recente al Parlamento europeo – in quattro posizioni: favorevoli, astenuti, contrari e ignavi assenti tattici.

Potremmo continuare a lungo, ma tanto basta per mettere un’altra enorme ipoteca negativa su un “campo largo”, che, in termini programmatici, ha una enorme maturazione ancora da fare.

L’inutile programma

Avere un programma comune, tuttavia, non è più così importante. Lo dimostra anche il centrodestra, che in fatto di tasse, cittadinanza agli stranieri, libertà civili, politica estera e Russia, ha posizioni non meno distanti al suo interno, tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Ma senza che questo lo porti mai ad implodere. Come mai?
La risposta è semplice, e ha due livelli.

In primo luogo, la politica è (oggi più che mai) quasi solo gestione del potere, più che progettualità sociale. Come ci dimostra quotidianamente il governo Meloni, il tema essenziale è assumere il controllo dei posti di governo e sottogoverno (dirigenze pubbliche, imprese statali ecc.) con uomini fidati. Addirittura, con amici e parenti. La “lealtà cieca” oggi in Italia è l’unica virtù politica. Non lo è più la competenza, l’intelligenza e, men che meno, l’autonomia, che anzi è vista come fumo negli occhi.

Dunque, l’importante non è condividere un programma: ma dire sempre di sì, dovunque ti porti il leader, difendere ogni sua posizione a prescindere, e così difendere il proprio posto di potere, e il sistema di cui si fa parte. Immolarsi per una questione programmatica? Ma perché, e per chi?

Ma come, si dirà: ogni giorno vediamo i politici scannarsi per questioni programmatiche…

Non esattamente. Li vediamo “scannarsi” per questioni di principio, per slogan, per “temi bandiera”, che sono ben meno di una visione programmatica organica del futuro e dello sviluppo sociale del Paese. Cittadinanza, diritti individuali, tasse e patrimoniali, regionalismo, difesa dei sacri confini nazionali, sbarchi e rimpatri: tutti temi di apparente portata programmatica. In realtà, solo temi-civetta, su cui occorre concordare perché creano identità. Ma che non hanno una caratura programmatica generale.

Per fare un paragone ardito con la storia dell’arte, è come se la politica avesse subito – negli ultimi 20 anni – la stessa evoluzione della pittura negli ultimi secoli. Michelangelo dipingeva sulla volta della Sistina una complessa visione del mondo, con importanti implicazioni filosofiche, antropologiche, culturali. Può darsi che i leader della DC o del PCI vedessero la politica in questo stesso modo. Ma oggi, la politica è come la pittura di Matisse, o ancora più di Pollock o di un Lucio Fontana: pennellate secche, schizzi di colore, tagli isolati buttati sulla tela.

La politica è impressionistica, e ancor più post-impressionistica. Si attira il dibattito pubblico su uno squarcio, una pennellata: che sia l’Albania o “noi non aumentiamo mai le tasse”. Finita lì, nessuna visione di insieme.

Ecco perché non avere un programma comune, a destra come a sinistra, non è più così ostativo allo stare insieme (lo diciamo ovviamente con amarezza). Basterebbe che i leader del potenziale “campo largo” si accordassero su qualcuna di queste pennellate (Ius scholae? Diritti individuali? Reddito minimo?) e potrebbero governare insieme (o meglio, fingere di farlo) esattamente come fa, da anni, il centrodestra.

Se non volete credere a quello che dice questo cinico paragrafo, andatevi a rileggere i programmi elettorali degli ultimi tre o quattro governi (sempre che li troviate, da qualche parte, impolveratissimi, nel web). Nessuno di questi programmi si è mai avverato nelle sue linee essenziali. Ma questo importa a qualcuno? No. Siamo sinceri. Nemmeno noi ce ne accorgiamo.

Avere programmi unitari non è più importante. Il Paese non ha più governo di insieme, da anni (e per questo va sempre peggio). Basta concordare su qualche “pennellata” essenziale. La cucitura d’insieme la fanno poi gli alti dirigenti del MEF, solo loro, quando chiudono la legge finanziaria, in gran parte condizionando la politica più di quanto la politica non li condizioni.

L’inevitabile “Campo largo”

Dunque, ricapitolando, il “Campo largo” appare oggettivamente impossibile, e già naufragato. “Morto”, come dice Conte. Manca un federatore. Quindi non c’è accordo sulla leadership. Quindi l’inimicizia personale – assurta a fondamentale categoria politica – diviene insuperabile. Aggiungiamo le tante divergenze programmatiche, e la frittata è fatta.

Eppure… Eppure, se è vera la nostra metafora artistica, concordare sul programma non è più così dirimente. Basterà trovare qualche “pennellata” politica su cui convergere, verso il 2027.

Nel frattempo, in qualche comune e regione (come in Emilia-Romagna) si può fare qualche prova di “campo” più o meno largo, allenare il pubblico (giacché siamo pubblico, non cittadini attivi) a qualche collaborazione, mentre, a livello nazionale, si tiene alta la tensione tra partiti. Per non perdere identità, per non perdere voti propri con alleanze premature.

Perché il punto è questo: il “campo largo” non decolla semplicemente perché siamo troppo lontani dal 2027, cioè dalle prossime elezioni politiche. Mancano ancora quasi tre anni.
Siamo più che certi che fra un paio d’anni il clima cambierà. Renzi resterà un babau per Conte e viceversa (se ancora i due esisteranno politicamente). Ma qualcosa insieme si potrà fare. La politica è ormai solo “pennellata occasionale” e occupazione di posti. Perché rinunciare al potere, per qualche screzio personale o di principio, del tutto marginale nella realtà del gioco politico?

Siamo allora pronti a scommettere che il campo largo, oggi oggettivamente impossibile e “morto”, tornerà in agenda. Più o meno largo, secondo quello che offrirà il mercato dei “polli” politici attorno alla metà del 2026. E per allora, conti e sondaggi alla mano, se mettersi insieme permettesse di avere una chance di sconfiggere la Meloni, il “campo” rifiorirà. Basteranno due idee “pennellate” condivise, un accordo sui Ministri, un (più delicato) accordo sulla leadership, che quasi certamente andrà al partito che prende un voto in più: perciò fino ad allora, anche nel centrosinistra, la competizione sarà massima.

Poi però vedremo il miracolo: il morto rinascerà, e ciò che oggi è impossibile diverrà inevitabile. Questo, secondo la dura legge della cinica e vuota politica del nuovo millennio.

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