Decifrare quel che ci aspetta in quest’autunno 2017 è davvero impresa temeraria. Le variabili dei problemi all’ordine del giorno hanno il carattere di incognite complesse. Per rendersene conto basta abbozzare un sommario catalogo: dalle elezioni siciliane alla legge di stabilità, all’atteggiamento da assumere verso i mutamenti che si preannunciano in Europa e nel mondo.
Il primo appuntamento, la Sicilia, è un condensato di disordine politico e una somma di incertezze presentate in involucri di orgogliose sicurezze. Che nessuno abbia la vittoria in tasca è certificato dal fatto che molti minimizzino la portata di una non improbabile sconfitta di carattere “locale”.
Elezioni senza bussola
Intanto ci si avvicina alla consultazione politica nazionale senza una legge elettorale che abbia un carattere di organicità, e soprattutto senza un barlume di certezza sull’affidabilità degli schieramenti. Si tenga poi conto del numero e della qualità delle leggi che non vedranno la luce come lo ius soli o che subiranno mutilazioni come il testamento biologico o i vitalizi degli ex parlamentari.
Il tutto mentre tra le forze politiche è in atto una sorta di guerra di tutti contro tutti che impedisce di mettere a fuoco affinità e differenze tra le diverse posizioni. In difetto di prospettive, la politica vive alla giornata, sempre più condizionata dal clima di paura per l’incombere di eventi – la guerra, le migrazioni, i cataclismi, i delitti – che proprio la politica dovrebbe saper fronteggiare e/o controllare. Ma non ci riesce: se per incapacità “tecnica” o per deficit di idee generali è tutto da verificare.
La “chiave” del centrosinistra
In queste condizioni l’unico tentativo che aiuti a comprendere lo stato delle cose è quello di collocare il momento presente in una traiettoria storico-politica che abbia un ancoraggio al quale annodare i fili delle variabili attuali.
Secondo la mia sensibilità, l’itinerario da ripercorrere è quello del centro-sinistra, inteso non tanto come formula di governo quanto come processo culturale e politico che ha rappresentato nel tempo il fattore di movimento più rilevante della vita pubblica italiana.
In un saggio pubblicato da Sellerio nel 1995 (Biografia del centrosinistra) mi avventurai a sostenere che «l’Italia è una repubblica fondata sul centrosinistra». Ovviamente, la narrazione giungeva fino alla crisi di Tangentopoli e al dibattito sui rimedi da adottare, allora concentrato su una riforma elettorale d’impronta maggioritaria, nel desiderio di un mutamento istituzionale che assicurasse la governabilità. Ciò che a me sembrava una sorta di scorciatoia inventata per non affrontare il varco obbligato delle scelte di contenuto su pace, lavoro e qualità della democrazia nel cambio d’epoca già in atto.
Tentativo riformista
Tuttavia, a guardar bene, la visione del centrosinistra, inteso anche come cooperazione di entità di matrice cattolica e socialista, non fu cancellata dall’orizzonte politico. L’iniziativa di Prodi del 1996 ne rappresentò una reincarnazione impegnativa sotto le fronde dell’Ulivo. Non valse soltanto a sconfiggere e depotenziare il fronte delle destre animato da Berlusconi; fu anche un tentativo di ridare vigore, nelle condizioni mutate, ad un’impresa riformista che non si limitasse alle sole regole della democrazia ma rimettesse in campo le questioni del lavoro e della qualità delle vita civile.
La successiva nascita del Partito Democratico ha rappresentato, all’inizio di questo secolo, il tentativo ambizioso di stabilizzare il sistema per via politica costituendo le condizioni per l’avvento di una struttura bipolare del sistema politico – polo progressista verso polo conservatore – quest’ultimo essendo già munito di profonde radici.
Il PD e il “dovere di governare”
Ha funzionato il Pd? Se si ripercorrono i passaggi delle crisi economiche e politiche dal 2008 in qua, si deve riconoscere che, al netto di deficienze ed errori, il Pd ha rappresentato un punto fermo d’ancoraggio della democrazia italiana. In particolare, è riuscito ad assorbire senza rompersi le spinte che, di volta in volta, lo spingevano o più a destra o più a sinistra quanto alle opzioni di contenuto.
Nessuno si può offendere se si constata che la funzione del PD, specie negli anni più duri della crisi, è paragonabile a quella riassunta nel concetto del “dovere di governare” che ispirò l’azione della Dc nel lungo cammino, che – consule Moro – portò prima all’incontro con i socialisti di Nenni e poi anche con i comunisti di Berlinguer. I compromessi e i cedimenti programmatici venivano giustificati come necessità contingenti, in vista però di traguardi più ambiziosi. Ciò che oggi manca.
Gestione e fantasia
Le situazioni di crisi in cui il PD ha esercitato il suo ruolo di governo non erano le più propizie per una grande iniziativa di aggiornamento culturale, che pure sarebbe stata necessaria per dare fondamento alle scelte che la crisi imponeva. Non c’è stata – che io ricordi – un’offensiva culturale del PD paragonabile a quella che, negli anni 50, vide protagonista il democristiano Ezio Vanoni nel lancio della sua idea di programmazione per lo sviluppo dell’occupazione e del reddito.
In parole povere, come già era accaduto alla Dc, la logica dell’amministrazione, o di governo, ha soppiantato la… fantasia creatrice. Così, l’area detta progressista è venuta configurandosi per la sua capacità di gestione piuttosto che per la vocazione innovatrice. Si dirà che un simile deficit non è patrimonio di una sola forza politica e che, nell’ultimo decennio, è venuto a mancare o si è rarefatto anche il contributo di altre agenzie non partitiche un tempo qualificate come capaci di elaborazione e di proposta. Ma questo non basta a sminuire la responsabilità degli operatori di prima linea.
Riflessione mancata
Una riflessione sulla natura della crisi e sulle sue ripercussioni sui modi di lavorare e di vivere è mancata. Il tema della rivoluzione tecnologica, già esplicito alla fine dagli anni 70, viene percepito solo oggi nella sua portata dirompente.
Non si è compreso, anche nei settori più estremi della sinistra, che l’attacco in corso non investiva i simulacri di un socialismo collettivista, ormai depennati dalle mappe, ma si dirigeva propriamente contro le istituzioni del riformismo democratico, quale risultava dalla dialettica tra capitale e lavoro ed era incarnato nei simboli del welfare.
In nome dei “comuni trascorsi”
È a questa mancanza di argini culturali che si deve, con ogni probabilità, la tranquilla accettazione della sostanza delle dottrine neocapitaliste che mettevano in preventivo, se non lo smantellamento, la riduzione dello stato sociale e, in ogni caso, affidavano le sorti del lavoro (e dei lavoratori) ai precari equilibri di un mercato che, per sua natura, non è chiamato a inventare tutele se non per il profitto.
A tali condizioni, connesse ad una visone passiva del compromesso governativo, si sono sottoposte tutte le componenti del PD, indipendentemente dalla loro estrazione. E, di conseguenza, hanno preso parte e responsabilità nelle decisioni che, in conformità con le citate dottrine, venivano veicolate dall’Europa, ovvero da spinte endogene non verificate criticamente. Questa comune responsabilità, comunque la si voglia motivare, indebolisce oggettivamente le ragioni della scissione che ultimamente ha rotto l’unità formale del PD e offre argomenti per una ricomposizione, se non in nome dei comuni ideali, almeno in nome dei… comuni trascorsi.
Quante versioni del centrosinistra?
Lo stesso fenomeno Renzi, divenuto da un certo momento l’oggetto del dissenso, si inquadra senza traumi nel processo sommariamente descritto. Può anzi essere letto – a parte le esorbitanze proprie del personaggio – come un tentativo di razionalizzare una situazione che si era già configurata nei suoi tratti essenziali.
Certo, i guasti di una rottura verticale non si risanano con una stretta di mano. Né è pensabile che si possa eludere il peso di una sconfitta come quella subita dal PD con il referendum del dicembre 2016. Ma, se si conviene sul fatto che la corrente principale della politica italiana rimane quella del centrosinistra, tutto può essere consentito fuorché l’idea che non basti una sola forza di centrosinistra ma che ce ne vogliano due.
È invece quel che si va profilando in relazione all’impresa di Giuliano Pisapia, nata per ricomporre una lacerazione ma ormai rassegnata ad una separazione che si immagina possa essere almeno ridotta quando le necessità di governo imporranno, dopo le elezioni, di costituire una maggioranza. Ma ci vorranno tanta pazienza e umiltà; e oggi non se ne vedono tracce.
E gli altri non stanno a guardare
Naturalmente gli altri non staranno a guardare. C’è una destra in fermentazione in cui Berlusconi osa un’edizione nuova del vecchio copione liberista con appendice… animalista. Suscita curiosità, per via dell’età avanzata e del fatto che, salvo sentenza favorevole a Strasburgo, non potrà correre in prima persona. Se lo farà insieme con la Lega di Salvini, vuol dire che punta a vincere, salvo a litigare dopo. Se andrà da solo, vorrà dire che mira ad entrare in una coalizione post-elettorale con chi gli farà spazio.
E c’è poi il Movimento 5Stelle che ostenta un piglio vincente, ha intronizzato un candidato premier, Di Maio, ed ha annunciato un passo di lato di Beppe Grillo. Le cronache preannunciano dissensi interni, ma per saperne di più bisognerà leggere tutte le carte. Gli arcana imperii dell’apparato grillino sovrastano infatti ciò che la propaganda lascia vedere. Per intanto uno stuolo di generosi militanti si immolano sulla trincea dei vitalizi, quelli degli ex parlamentari da abrogare e quelli dei nuovi parlamentari da rigettare nel senso di rifiutarli alla scadenza.
Ma sulle condizioni e sulle prospettive di queste due aree politiche – la destra e i 5Stelle – bisognerà ritornare con maggiore attenzione.