Il clima da sagra paesana e anche la prestazione semicomica di Beppe Grillo non debbono trarre in inganno. Nella parata di Rimini il Movimento5Stelle ha giocato una partita importante. Su due versanti: quello interno, con l’“abdicazione” di Beppe Grillo, e quello esterno con la presentazione del nuovo “capo” e “candidato premier”: Luigi Di Maio.
Ma, oltre ai mutamenti delle persone e dei ruoli, c’è un aspetto che impedisce di cedere alla tentazione di fermarsi alle esteriorità folkloristiche della manifestazione e, viceversa, induce a considerare l’evento con attenzione e serietà.
Dal “vaffa” al potere
Dopotutto, si tratta di una forza politica consistente che ha dimostrato di saper reggere la prova parlamentare e anche di riuscire ad espugnare alcune rilevanti postazioni sul territorio. Dunque, una realtà da non sottovalutare, al netto delle pecche, degli infortuni e delle gaffes registrate lungo il tragitto.
Il punto politico più consistente è rappresentato, tuttavia, dall’annuncio del cambio di stagione nel ciclo del movimento, esemplificato dal transito dal “vaffa-day” alla proclamata vocazione governativa.
Come dire: dalla prorompente agitazione di Grillo, che si cala dalla finestra con un lenzuolo arrotolato, alla composta immagine di Di Maio che bacia devotamente la sacra teca del sangue di san Gennaro…
Da garante a padre/padrino
Che si tratti di una scelta e non di una trovata propagandistica è avvalorato da due fatti: il primo è il distacco di Grillo dalla sua creatura. Era una figura formalmente definita – il Garante – che ora si ritaglia una funzione non meglio identificata di “padre” e, soprattutto, trasferisce i poteri fin qui esercitati al nuovo “capo” designato per via elettronica. Quanto padre e quanto… padrino lo si vedrà col tempo.
Il secondo fatto è rappresentato dall’esistenza di un dissenso interno che si è manifestato visibilmente in tre modi: evitando di esprimere candidature autorevoli da contrapporre al candidato designato; disertando in misura notevole le urne elettroniche come dimostra la cifra davvero esigua dei votanti rispetto agli iscritti; e, infine, scegliendo di non parlare a Rimini, né dal palco né sotto, per non… guastare la festa. Ma l’attrito c’è e se ne sente il rumore.
I pomi della discordia
Della discordia si conoscono sia i contenuti che i protagonisti. E non sono questioni di poco conto. Il concetto che le compendia è quello che reclama coerenza con l’impianto originario del movimento, cresciuto dovunque nel contestare e rivelatosi meno adatto nell’amministrare.
La classe dirigente dei 5Stelle ha un’estrazione protestataria e isolazionista: lo slogan fondativo dell’“uno vale uno” si è sviluppato, in versione collettiva, nell’“uno contro tutti”, rivelato e ribadito nel rifiuto di accedere a non importa quale ipotesi di alleanze.
Chi si è messo in contraddizione con tale presupposto ideologico o è stato espulso o si è chiamato fuori, come dimostrano i vuoti che si sono prodotti nei gruppi parlamentari rispetto ai numeri raggiunti nel 2013.
Scongelare il prodotto?
La volontà di conquistare il potere e di governare in prima persona consiglierebbe viceversa di considerare come plausibile il ricorso, se non alle alleanze dichiarate, alle intese necessarie per approvare gli atti di governo.
Ci sarebbe da insospettirsi se su una questione così dirimente non si manifestasse una dialettica interna che – sottolineo – avrebbe riflessi interessanti sul piano politico generale.
Lo “scongelamento” dei 5Stelle (come lo chiamò Enrico Letta) favorirebbe almeno una maggiore circolazione delle idee, utile al rafforzamento di un tessuto democratico già indebolito anche dalle scelte degli “altri”.
Un processo di questo genere rientrerebbe infatti in quella fisiologia sociale che registra la tendenza dei “movimenti”, che sono fluidi nella fase nascente, ad accedere, nell’esperienza, alla dimensioni di “istituzioni”. Ma sarebbe un tema ostico da svolgere per un’entità – i 5Stelle appunto – venuta alla luce sotto un altro cielo.
Scogli da superare
Perciò, con tutto il rispetto per le capacità del “leader” testé intronizzato, una volontà politica di riconvertire il movimento dalla fase di lotta a quella di governo dovrebbe superare prove assai più ardue di una selezione elettronica a sbocco agevolato.
Si tratterebbe infatti di una riconversione strategica che investirebbe l’intero modo d’essere e di autocomprendersi del movimento stesso.
L’“uno vale uno” (principio del resto già attenuato) dovrebbe infatti coniugarsi con la prassi della democrazia rappresentativa. Con la quale non si concilia, ad esempio, la configurazione, tipica della concezione grillina, del parlamentare come semplice “portavoce” del programma elaborato e continuamente aggiornato dai “cittadini” attraverso il sistema Rousseau.
Tra vincoli e flessibilità
Né basterebbe, a tale scopo, l’introduzione nella Costituzione del “vincolo di mandato”, che pure il Movimento propone, con un innegabile intento disciplinare.
Tantomeno ci si potrebbe affidare all’autorità interna del Garante, i cui poteri attuali sono tanto estesi quanto indefiniti.
In primo luogo, perché il successore non ha il carisma del predecessore: gli resterebbe difficile farsi credere se, per imporre una decisione drastica, si limitasse a dire “fidatevi di me”.
In secondo luogo, perché un collettivo mobile come una formazione politica non sopporta, alla lunga, una gestione autoritaria.
Se non ostentassero la ripugnanza per la storia, propria dei neofiti integralisti, ai militanti e seguaci del Movimento 5Stelle si potrebbe consigliare di prendere confidenza con quel concetto di “flessibilità costruttiva” al quale Aldo Moro fece ricorso quando si mise al timone della “solidarietà nazionale”, operazione che comportava la collaborazione tra democristiani e comunisti.
Difficoltà dentro e fuori
Naturalmente non sono soltanto quelli indicati i punti su cui è auspicabile che si apra tra i militanti e gli elettori dei 5Stelle quel dibattito che non c’è stato per le primarie.
C’è, sul piano interno, la necessità di dare regole certe al rapporto con l’entità privata – la Casaleggio associati – che detiene il monopolio dei contenuti e della comunicazione dando luogo, come ha rilevato il Financial Times a «buchi nella trasparenza e a potenziali conflitti d’interesse». E c’è, sul piano dei rapporti col mondo, il tema della ricerca delle “competenze” – che il movimento non possiede e che genera con fatica – per organizzare una “squadra” di governo.
L’operazione è difficile perché i “competenti” sono affezionati alle idee che hanno coltivato nelle rispettive esperienze. Sbagliato dunque immaginare di… affittarli per trasformarli in altrettanti “portavoce” senza che ciò provochi traumi e difficoltà di collaborazione.
Ma non è questa la sede per fare l’inventario degli ostacoli disseminati sulla via del Movimento5Stelle nel momento in cui decide, come si diceva una volta, di “farsi stato”.
Previsione e avvertenza finale
Per il momento si può formulare una previsione accompagnata da un avvertimento.
La previsione è che, per risolvere senza lacerazioni il contrasto interno nella sua effettiva portata, ci si limiterà a limare l’onnipotenza del capo togliendogli l’onere del “doppio incarico” di governo e di partito/movimento. Cose già viste ai tempi della Dc ai danni, in epoche diverse, di Fanfani e di De Mita.
L’avvertimento riguarda la prospettiva elettorale. Finora le controversie sull’ordinamento interno sono state sopraffatte dal dominio di Grillo e Casaleggio e non hanno avuto sostanziali ripercussioni sulla capacità di attrarre e mantenere il consenso popolare. Ma niente assicura che ciò possa riprodursi pacificamente nel nuovo contesto strategico delineato a Rimini. Nel suo discorso di accettazione Luigi Di Maio ha dichiarato di non porsi l’obiettivo di cambiare il Movimento ma quello di cambiare il paese.
Ecco. La sommessa opinione di chi scrive è che dovrà rassegnarsi a considerare congiuntamente i due aspetti. Perché l’imbalsamazione del ciclo grillino sterilizza la credibilità della proposta e l’identificazione con l’azione di governo condanna ad un esito pragmatico che esclude ogni originalità.